L’amministratore di diritto di una società è penalmente responsabile – a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che quesiti si verifichino – anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando sull’amministratore di diritto, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti, che agiscano quali amministratori di fatto.
Questo il principio di diritto affermato dalla III Sezione della Cassazione penale nella sentenza numero 15172, depositata il 3 aprile 2014 Piccolo capitalismo familiare e responsabilità penale. La peculiarità del tessuto industriale italiano è senza dubbio rappresentata dalla presenza di piccole medie imprese gestite in grandissima parte a livello familiare, con la naturale conseguenza della successione tra genitori e figli nella gestione della impresa di famiglia. È in tale contesto tipicamente italiano che si inserisce l’altrettanto frequente, da alcuni anni a questa parte, contestazione di omesso versamento delle ritenute certificate e dell’IVA dichiarata articolo 10 bis e 10 ter d.lgs numero 74/2000 . La problematica in questione viene ad incidere proprio sul momento del passaggio generazionale, allorquando la giovane figlia, fresca di studi accademici in economia e commercio assume il ruolo di legale rappresentante della società di famiglia, che, tuttavia, rimane gestita come da molti anni era di fatto dalla madre. Il tribunale di Brescia, prima, ed in seconda battuta la Corte di appello affermano la penale responsabilità della figlia, formalmente legale rappresentante, pur di fronte alla conclamata gestione di fatto della società operata dalla madre. La figlia un mero prestanome? Avverso la pronuncia della Corte di Appello spiega articolato ricorso per cassazione la difesa della figlia, evidenziando come quest’ultima si recasse solo sporadicamente in azienda e riponesse nella madre, che da tempo gestiva la società, completa ed incondizionata fiducia, che invece era stata tradita a tal punto che le firme apposte sulle dichiarazioni dei redditi, apparentemente della giovane, erano poi risultate falsificate dalla madre. In un tale contesto, prosegue il ricorrente, i giudici di merito non avevano dato adeguato rilievo al fatto che la figlia altro non fosse che un prestanome, privo di alcun potere o ingerenza nella gestione della società, con conseguente impossibilità di ascrivere alla stessa, anche a titolo di dolo eventuale, le condotte omissive proprie dell’amministratore di diritto. In conclusione, dunque, la stessa andava riconosciuta totalmente estranea ai fatti, ovvero doveva, comunque, ed in via subordinata, stante il naturale rapporto fiduciario intercorrente tra figlia e madre, ritenersi mancante l’elemento soggettivo del reato. Il rigore della Corte Sono altri tuttavia gli elementi di fatto su cui si accentra l’attenzione della Corte. In primis, la giovane rampolla di famiglia era neolaureata in economia e commercio e, dunque, in possesso delle conoscenze e competenze specifiche e culturali tali da consentirle di apprendere appieno quali obblighi e quali doveri giuridici conseguissero all’assunzione della qualifica di legale rappresentante della società. In secondo luogo, la ragazza era pienamente integrata nella propria famiglia, partecipava attivamente se pur non continuativamente alla vita della società e si confrontava sistematicamente con i propri famigliari sulle problematiche della società. Smentito è dunque, secondo la Corte, il presupposto in fatto sul quale si fonda la parte saliente e decisiva del ricorso per cassazione e cioè che la ricorrente fosse mero prestanome della madre, senza alcun potere od ingerenza nella gestione della società. e le regole del gioco. Poste tali premesse in fatto è sufficiente applicare al caso in esame i principi pacificamente riconosciuti dalla giurisprudenza ormai consolidata in materia, per giungere alla soluzione della vicenda de quo. Ed infatti chi riveste la qualifica di amministratore di diritto di una società è penalmente responsabile a titolo di dolo generico, allorchè egli abbia la consapevolezza che dalla sua condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato. Lo stesso, tuttavia, potrà essere ritenuto responsabile anche a titolo di dolo eventuale, nel caso in cui si sia limitato ad accettare il rischio che questi si verifichino. Tali principi, prosegue la Corte, rimangono fermi anche nel caso di presenza dimostrata di un amministratore di fatto. Ciò infatti non libera l’amministratore di diritto dai doveri positivi di vigilanza e controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto. L’amministratore di una società di capitali riveste una vera e propria posizione di garanzia che ha trovato riconoscimento normativo nel dettato dell’articolo 2392 c.c., secondo il quale sussiste una responsabilità dell’amministratore quando lo stesso, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbia fatto quanto poteva per evitarli o per impedire che le conseguenze degli stessi si protraessero. Il fil rouge nei reati tributari e previdenziali. Se, fino ad alcuni anni fa, le pronunce della Suprema Corte sulla problematica della responsabilità dell’amministratore di fatto e di diritto nel caso di reati tributari erano assolutamente isolate, ed era dunque necessario rifarsi alle sentenze di merito Trib. Milano, 28 aprile 2011, imp. Giannone , ovvero, volendo limitarsi ai giudizi di legittimità, occorreva richiamarsi alle ben più frequenti pronunce in tema di bancarotta e reati fallimentari, ora, forse anche in conseguenza dell’introduzione degli articolo 10 bis e 10 ter del d.lgs numero 74/2000, le decisioni sul punto si susseguono. È recentissimo, infatti, l’arresto giurisprudenziale Cass numero 14432/2014 con cui la stessa Sezione III ha chiarito che l’amministratore di diritto di una società di capitali, rispetto all’amministratore di fatto della stessa società, è chiamato a rispondere dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali poiché la carica che gli è attribuita implica specifici doveri di controllo e vigilanza, la cui violazione comporta una responsabilità penale diretta. Possiamo dunque affermare che, in tema di violazioni formali, quali quelle dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali e certificate, come dell’omesso versamento IVA, vada consolidandosi un indirizzo di affermazione della responsabilità penale ugualmente formale, che sembra porsi in linea di continuità con la altrettanto formale giurisprudenza che si riscontra in tema di bancarotta documentale, a fronte delle maggiori aperture che si registrano, per contro, nel caso di bancarotta per distrazione sul punto Cass numero 544/2014 .
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 6 febbraio – 3 aprile 2014, numero 15172 Presidente Squassoni – Relatore Di Nicola Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza emessa in data 21 maggio 2013, in parziale riforma della sentenza in data 4 maggio 2012 del Tribunale di Brescia, riduceva, concesse le attenuanti generiche, la pena inflitta a L.Z. a mesi otto di reclusione. Alla ricorrente era contestato il reato previsto e punito dall'articolo 10 bis d.l.vo 10 marzo 2000, numero 74 perché nella qualità di legale rappresentante della NOVA s.r.l., non versava, per l'anno 2006, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per un ammontare complessivo di € 96.566,00 capo a nonché il reato di cui ali' articolo 10 ter d.l.vo numero 74 del 2000 perché, nella suddetta qualità, non versava, in relazione all'annualità 2006, l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, per un ammontare complessivo pari ad € 141.095.00. La Corte territoriale giungeva alla sopraindicata conclusione escludendo che l'imputata fosse una semplice prestanome per avere consapevolmente assunto la carica di amministratore della Nova s.r.l. e, come da ella stessa dichiarato, avendo avuto, nel novembre 2006 e pertanto ben prima del perfezionarsi degli illeciti penali, piena contezza della situazione societaria. Secondo la Corte del merito competeva pertanto all'imputata, che in piena scienza e coscienza aveva volontariamente accettato l'assunzione della carica societaria, l'esercizio della vigilanza connessa a detta carica, né un tale obbligo poteva venir meno in ragione della asserita posizione di amministratrice di fatto della madre. 2. Per l'annullamento della sentenza ricorre personalmente per cassazione L.Z. affidando il gravame ai seguenti tre motivi. 2.1. Con il primo denuncia, ex articolo 606, comma 1, lett. e , cod. proc. penumero , il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione derivante da omessa valutazione di atti dei procedimento specificatamente indicati nei motivi di gravame. Si sostiene che la Corte territoriale abbia omesso di valutare alcuni dati incontroversi già oggetto di specifici motivi di impugnazione, quali il fatto che la Zecchini si recasse in azienda solo sporadicamente, non avesse la gestione della società e neppure il potere di compiere l'azione doverosa o di impedire che essa venisse omessa dall'amministratrice di fatto verso la quale riponeva, trattandosi della madre, la massima fiducia e che invece apponeva anche la firma contraffatta della figlia sui documenti fiscali, gestiva il rapporto con le banche, con i dipendenti, con i clienti e fornitori ed intratteneva esclusivamente i rapporti con il commercialista della società, prendendo decisioni relative all'azienda ad. es. redazione bilanci . L'omessa motivazione su punti tanto decisivi ha comportato, secondo la ricorrente, un'affermazione di responsabilità fondata su motivazione meramente apodittica e contraddittoria, e perciò necessitante di cassazione. 2.2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. b ed e , cod. proc. penumero per erronea interpretazione della legge e vizio logico, contraddittorietà e difetto di motivazione e illogicità della stessa circa la posizione soggettiva della ricorrente. Si assume come la Corte territoriale, da un lato, abbia omesso di valutare in motivazione le osservazioni sollevate dalla difesa circa l'impossibilità di ascrivere, anche a solo titolo di dolo eventuale, non solo le condotte commissive bensì anche quelle omissive proprie dell'amministratrice di diritto, atteso il rapporto di naturale di fiducia che legava la figlia alla madre e, dall'altro, come abbia erroneamente interpretato l'articolo 1, comma 4, d.P.R. 1998, numero 322 per il quale la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l'amministrazione anche di fatto, o da un rappresentante negoziale. Sotto tale specifico profilo, la Corte del merito avrebbe omesso di considerare come il rappresentante legale debba ritenersi mancante, non solo quando sia inesistente la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non abbia alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non sia in condizione di presentare la dichiarazione perché non disponga dei documenti contabili detenuti dall'amministratore di fatto. In tale situazione l'intraneo deve ritenersi colui che, sia pure di fatto, ha l'amministrazione della società mentre al prestanome potrebbe essergli addebitato il fatto a titolo di concorso a norma dell'articolo 2392 cod. civ. e articolo 40 cpv. cod. penumero a condizione che ricorra, situazione nella specie non sussistente, l'elemento soggettivo proprio del singolo reato. 2.3 Con il terzo ed ultimo motivo di gravame si denuncia, ex articolo 606, comma 1, lett. d , cod. proc. penumero , il vizio di mancata assunzione di prove richieste dall'imputata, sostenendosi come la Corte bresciana abbia rigettato la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale finalizzata all'assunzione di prove decisive con specifico riferimento al ruolo di mero prestanome, senza alcun potere o ingerenza nella gestione della società da parte della Z. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza di tutti i motivi. 2. Il primo ed il secondo motivo di gravame, essendo tra loro strettamente collegati, possono essere congiuntamente esaminati. Con essi, la ricorrente censura l'impugnata sentenza per non avere riconosciuto che la Z. fosse mero prestanome della madre e, dunque, estranea ai fatti a lei addebitati o quantomeno perché si sarebbe dovuto ritenere assente l'elemento soggettivo del reato. Le doglianze sono prive di fondamento, avendo la Corte territoriale accertato come la Z., laureata in economia e commercio, fosse dotata di tutti gli strumenti culturali necessari affinché avesse piena consapevolezza di quali fossero gli obblighi riconnessi dalla legge alla carica di amministratore di società come fosse pienamente integrata nella sua famiglia, svolgendo un ruolo attivo nella società stessa, e come interloquisse con i familiari circa le problematiche dell'impresa. Avendo peraltro rilevato come la posizione di amministratore dì fatto della società da parte della madre fosse stata esclusa dalla sentenza di primo grado, la Corte territoriale non ha mancato di sottolineare come sia stata la stessa Z. ad affermare che nel novembre 2006, e dunque in epoca antecedente al perfezionamento degli illeciti penali, avesse avuto piena contezza della situazione societaria. Tenuto conto di ciò, la Corte bresciana ha fatto buon governo dei principi espressi da questa Corte secondo cui l'amministratore di diritto di una società è penalmente responsabile - o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino - anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando sull'amministratore di diritto, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto Sez. 3, 25/05/2011, numero 25047, Piga, Rv. 250677 Sez. 3, 06/04/2006, numero 22919, Furini, Rv. 234474 . Tale approdo giurisprudenziale fonda sul condivisibile rilievo che gli amministratori di società sono titolari di una posizione di garanzia, nel senso che su di loro comunque incombe, in presenza di un dovere giuridico di attivarsi per evitare che l'evento temuto si verifichi, l'obbligo di impedire l'evento pregiudizievole, anche se prodotto da una condotta costituente reato posta in essere da altri. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito come le componenti essenziali della posizione di garanzia, in cui versi il titolare dell'obbligo, siano, da un lato, una fonte normativa di diritto privato o pubblico che costituisca il dovere di intervento e, dall'altro, l'esistenza di un potere attraverso il corretto uso del quale il soggetto garante sia in grado di impedire l'evento Sez. 4, 21/05/1998, numero 8217, Fornari ed altro, Rv. 212144 , tanto sull'esatto presupposto che la norma dell'articolo 40 capoverso cod. penumero , secondo la quale non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo, può e deve essere interpretata in termini solidaristici, avendo presenti le norme degli articolo 2, 32, 41, comma secondo, della costituzione Sez. 4, Sentenza 06/12/1990, numero 4793, dep. 29/04/1991, Bonetti, Rv. 191792 . Va dunque ricordato come la giurisprudenza di legittimità abbia individuato la posizione di garanzia dell'amministratore di società di capitali nell'articolo 2392 cod. civ. secondo il quale sussiste la responsabilità degli amministratori quando essi, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. Sicché, al cospetto di una motivazione logica ed adeguata dal parte della Corte del merito circa la prova positiva di una concreta ingerenza della ricorrente negli affari della società, è del tutto azzardato affermare che la Z. fosse una semplice prestanome, completamente disinteressata agli andamenti aziendali e che tutti gli affari sociali fossero gestiti dalla madre senza implicazione di alcun genere da parte sua. Tale è la ragione per la quale è del tutto improprio il riferimento contenuto nel ricorso alla sentenza numero 23425 del 2011 di questa Sezione dove, a prospettiva rovesciata, è stato affermato il principio, assolutamente non in contrasto con i precedenti, secondo il quale il rappresentante legale si deve considerare mancante, non solo quando manca la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non abbia alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non sia in condizione di presentare la dichiarazione dei redditi non disponendo dei documenti contabili detenuti dall'amministratore di fatto. Nel caso di specie, è infatti assente il presupposto che la Z. cioè fosse prestanome della madre e che non avesse avuto alcun potere o ingerenza nella gestione della società dal quale la ricorrente pretende scaturiscano le conseguenze di favore in punto di insussistenza dell'elemento materiale o psicologico del reato. 3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di ricorso. La Corte territoriale ha infatti negato l'ingresso alla invocata rinnovazione del dibattimento in appello sul condivisibile presupposto che le emergenze processuali, ivi comprese le stesse dichiarazioni della Z., deponessero nel senso di escludere che la ricorrente fosse mero prestanome della madre. Dovendosi ricordare come, in fatto, sia stata accertata l'ingerenza della ricorrente negli affari sociali e fondandosi il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello su una struttura argomentativa della motivazione basata su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità Sez. 6, del 16/07/2013, numero 30774, Trecca, Rv. 257741 , la logica e congrua motivazione adottata in parte qua dalla Corte del merito si sottrae al sindacato di legittimità, con la conseguente manifesta infondatezza del motivo di ricorso. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, numero 136 della Corte costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla relativa declaratoria, segue, a norma dell'articolo 616 cod. proc. penumero , la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.