Rapina compiuta chiave in mano... anche quella è un’arma!

Confermata la condanna a oltre due anni di reclusione nei confronti di un uomo, resosi responsabile di alcune rapine ai danni di esercizi commerciali. Rilevante anche l’arma, seppur ‘insolita’, utilizzata anche una chiave per serrature blindate può rientrare nella categoria delle armi improprie.

Fermi tutti, è una rapina!”. Ma a rendere ‘particolare’ l’assalto al negozio – di telefonia – è lo strumento utilizzato una chiave. Che, comunque, è valutabile come ‘arma impropria’, utilizzabile, cioè, per l’offesa della persona. Cassazione, sentenza n. 5537, sezione Seconda Penale, depositata oggi In galera . Durissima la sanzione nei confronti di un uomo, ritenuto responsabile dei delitti di rapina, tentata rapina e lesioni personali nei confronti delle addette di alcuni esercizi commerciali 600 euro di multa e, soprattutto, due anni e quattro mesi di reclusione . Centrale, per i giudici – sia in Tribunale che in Corte d’Appello –, è soprattutto la sussistenza della minaccia, aggravata dall’uso dell’arma . E proprio su questo punto si sofferma l’uomo, sostenendo che non si possa definire arma una semplice chiave per serrature , come quella da lui utilizzata Chiave in mano . Ma questa obiezione viene considerata non fondata dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, anzi, sostengono sia pienamente corretta la qualificazione come arma della chiave per serratura con cui è stata posta in essere la minaccia ai danni delle addette dell’esercizio commerciale. Ciò perché, di fronte a una chiave per serrature blindate, lunga 11 centimetri – corrispondente a quella utilizzata in occasione delle rapine – e potenzialmente utilizzabile per l’offesa della persona , si può, senza dubbio, parlare di arma impropria . Nessun dubbio, quindi, sulla giustezza della visione adottata nei giudizi di merito. E nessun dubbio, di conseguenza, neanche sulla condanna, confermata in toto, emessa nei confronti dell’uomo.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 16 gennaio – 4 febbraio 2014, n. 5537 Presidente Gallo – Relatore Lombardo Ritenuto in fatto Con sentenza del 28.6.2012, il Tribunale di Ravenna dichiarò D.M. responsabile dei delitti di rapina, tentata rapina e lesioni personali nei confronti delle addette ad alcuni esercizi commerciali e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, concesse le attenuanti generiche, lo condannò alla pena di anni 2 mesi 4 di reclusione ed € 600 di multa. Avverso tale pronunzia l'imputato propose gravame, ma la Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 15.2.2013, confermò la decisione di primo grado. Ricorre per cassazione personalmente l'indagato deducendo 1 la violazione dell'art. 628, comma 3, cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza impugnata, con riferimento alla ritenuta sussistenza della minaccia aggravata dall'uso dell'arma, non potendosi - suo dire - definirsi tale una chiave per serrature 2 la violazione degli artt. 582, 585 in relazione all'art. 576 n. 1 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza impugnata, sia con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'elemento materiale del delitto di lesioni non essendo stato refertata a G.A. alcuna patologia obiettiva, ma solo un'ansia reattiva , sia con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato, che - a dire del ricorrente - sarebbe invece del tutto insussistente 3 la violazione dell'art. 62 n. 4 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza impugnata, con riferimento alla mancata concessione dell'attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, essendo stato sottratta, con la rapina consumata, solo una banconota da 5 euro 4 la violazione dell'art. 62 n. 6 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza impugnata, con riferimento alla mancata concessione dell'attenuante del risarcimento del danno, nonostante la lettera di scuse e il vaglia postale per l'importo di € 100 inviato a ciascuna delle pp.oo. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e va rigettato. 2. Infondato è il primo motivo di ricorso col quale si lamenta l'errore cui sarebbero caduti i giudici di merito nel qualificare arma la chiave per serratura con la quale è stata posta in essere la minaccia in danno delle pp.oo. Invero, costituiscono armi improprie, ai sensi dell'art. 4, secondo comma legge n. 110 del 1975, gli oggetti che, pur avendo una diversa e specifica destinazione come strumenti di lavoro oppure di uso domestico, agricolo, scientifico, industriale o simile , possono tuttavia occasionalmente servire, per caratteristiche strutturali o in riferimento a determinate circostanze di tempo e di luogo, all'offesa della persona cfr. Cass., Sez. 1, 23/10/1984 n. 10832 Rv. 166960 . Tra questi rientra certamente anche una chiave per serrature blindate, lunga cm. 11, che ben può essere utilizzata - come risulta aver fatto l'imputato - per l'offesa della persona. 3. Gli altri motivi di ricorso costituiscono mera riproposizione dei motivi di appello, già rigettati dalla Corte territoriale con motivazione esaustiva e priva di vizi logici. La Corte di Appello ha puntualmente risposto in ordine alla configurabilità del delitto di lesioni personali rilevando correttamente che va qualificata come malattia l'ansia reattiva che impedisce alla persona di attendere alle ordinarie occupazioni , in ordine alla mancata concessione dell'attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità spiegando come l'imputato non si sia appropriato solo di una banconota da 5 euro, ma anche di due telefoni cellulari e puntasse - senza riuscirci - ad appropriarsi di tutto il contenuto della cassa , in ordine alla mancata concessione dell'attenuante del risarcimento del danno spiegando come l'offerta di € 100 alle vittime, offerta peraltro rifiutata, non fosse in grado di risarcire tutto il danno, anche morale, patito dalle pp.oo. . Gli argomenti svolti dalla Corte territoriale sono immuni da vizi logici e giuridici, risultando così insindacabili in sede di legittimità. E peraltro, il ricorrente non ha preso neppure in esame - con la dovuta puntualità - gli argomenti esposti dalla Corte di Appello nella sentenza impugnata per criticarli, limitandosi a censure del tutto generiche, che perciò, anche sotto questo profilo, risultano inammissibili. 4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato. Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.