Soppressione dell’unità di medicina generale: modifica in pejus illegittima delle mansioni del medico

Si ha demansionamento nel caso di assegnazione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte, anche qualora le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 16012, depositata l’11 luglio 2014. Il caso. La Corte d’appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta dalla dipendente di una casa di cura nei confronti di quest’ultima, aveva accertato il dedotto demansionamento e aveva ordinato alla casa datrice di riassegnare alla ricorrente le mansioni di medico responsabile ovvero mansioni equivalenti. Inoltre la casa di cura era stata condannata al risarcimento dei danni da dequalificazione professionale. La stessa, avverso la predetta sentenza, proponeva ricorso per cassazione. Demansionamento. Con l’unico motivo di ricorso, la ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell’articolo 41 Cost., del D.M. Sanità del 1975, del D.P.C.M. 27/06/1986, della legge regionale Emilia Romagna 8/01/1975 numero 2 nonché vizio di motivazione su punti decisivi della controversia, per non aver la Corte territoriale adeguatamente valutato le ragioni essenziali che avevano imposto la modifica della posizione della lavoratrice all’interno dell’organizzazione aziendale. La lavoratrice era stata, infatti, nominata medico “responsabile” dell’unità funzionale di medicina generale e, a seguito della soppressione della stessa, era stata conseguentemente adibita all’assistenza medica di tipo internistico. Ciò, ad avviso della ricorrente, non aveva determinato alcun demansionamento. Invero, la Corte di Cassazione precisa che, nel caso di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle in precedenza svolte, l’equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento in violazione dell’articolo 2103 c.c., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore Cass., numero 1575/10 . Ciò che conta, dunque, ai fini del demansionamento, è l’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle di fatto in precedenza svolte nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Mancato consenso della lavoratrice. Nel caso di specie, sempre con riferimento all’accertato demansionamento, esso deve ritenersi illegittimo in quanto è mancato l’assenso della prestatrice di lavoro. La Cassazione ribadisce il principio secondo cui, ai sensi dell’articolo 2103 c.c. nel testo introdotto dall’articolo 13 l. numero 300/70, la modifica in pejus delle mansioni del lavoratore è illegittima ove disposta senza il consenso del dipendente Cass., Sez. II, numero 15500/09 Cass., Sez. VII, numero 2354/04 . Per tali motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 25 marzo – 11 luglio 2014, numero 16012 Presidente Lamorgese – Relatore Di Cerbo Svolgimento del processo 1. La Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Modena in data 9 ottobre 2003 che, in parziale accoglimento della domanda proposta dalla dott.ssa L.P., dipendente dalla Casa di cura Villa Igea s.p.a., nei confronti dei datore di lavoro, aveva accertato il dedotto demansionamento a decorrere dal febbraio 2001 quando alla dott.ssa P., già responsabile di reparto, erano stati affidati esclusivamente compiti di consulenza internistica per tutti gli ammalati della clinica e di intervento nei casi di urgenze non psichiatriche, proprie della qualifica di assistente , aveva determinato equitativamente il danno subito dalla P. in misura pari a 3/5 della retribuzione mensile netta per il periodo compreso fra febbraio 2001 e la data di deposito del ricorso, aveva ordinato alla Casa di cura di riassegnare alla ricorrente le mansioni di medico responsabile come svolte dal 1 marzo 1993 al gennaio 2001, ovvero mansioni equivalenti, e aveva condannato la casa di cura a pagare alla P., a titolo di risarcimento danni da dequalificazione professionale, la somma complessiva di Euro 12.307,00 oltre rivalutazione e interessi legali. 2. La Corte territoriale ha rilevato che nel caso di specie era mancato il consenso della dipendente alla accertata modifica peggiorativa delle mansioni in precedenza svolte e che, in mancanza di tale consenso, era da ritenersi irrilevante la circostanza della ristrutturazione imposta dalla soppressione dell'unità funzionale di medicina generale, ristrutturazione che aveva reso necessario il demansionamento suddetto. Tale demansionamento era consistito, come accertato dal giudice di primo grado, nell'affidamento alla dott.ssa P. dei soli compiti di consulenza per le urgenze non psichiatriche con contemporanea sottrazione della corresponsabilità dei reparto. 3. Per la cassazione di tale sentenza la Casa di Cura Villa lgea s.p.a. ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo. La dott.ssa P. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato ricorso ex articolo 378 cod. proc. civ. Motivi della decisione 4. Preliminarmente deve dichiararsi l'inammissibilità della nomina dei nuovi difensori di parte ricorrente contenuta nella memoria ex articolo 378 cod. proc. civ. depositata in data 19 marzo 2014. Non è infatti applicabile al caso di specie, ratione temporis, la disposizione dell'articolo 83 cod. proc. civ. come novellato dall'articolo 45, lett. a , della l. numero 69 del 2009. 5. Sempre preliminarmente deve essere esaminata l'eccezione, proposta nel controricorso, di inammissibilità del ricorso in quanto notificato dopo la scadenza del termine annuale di cui all'articolo 327 cod. proc. civ. 6. L'eccezione è infondata. 7. Premesso che la sentenza impugnata è stata depositata il 27 febbraio 2007, deve osservarsi che il ricorso è stato depositato per la notifica in data 26 febbraio 2008, e quindi prima della scadenza del termine annuale, e che nello stesso giorno è stato spedito il plico raccomandato ai fini della notifica a mezzo posta. Si applica pertanto alla fattispecie il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità cfr., in particolare, Cass. 10 novembre 2004 numero 21409 , secondo cui, in tema di notificazione a mezzo dei servizio postale, a seguito delle pronunzie numero 477 del 2002 e numero 28 del 2004 della Corte Costituzionale, la tempestività della notificazione deve essere valutata, per il notificante, unicamente con riferimento alla data del compimento delle formalità direttamente impostegli dalla legge. Tale principio si fonda sull'illegittimità costituzionale di un'interpretazione che addebiti al notificante l'esito intempestivo di un procedimento notificatorio sottratto ai suoi poteri quanto alle attività a lui non riferibili. Ne consegue che deve ritenersi tempestiva la notificazione dei ricorso per cassazione che sia stato spedito a mezzo posta in data anteriore al decorso dei termine annuale previsto dall'articolo 327 cod. proc. civ., essendo in proposito irrilevante che la ricezione da parte del destinatario sia avvenuta successivamente. Né può attribuirsi rilievo alla circostanza che la notifica non sia andata a buon fine, ancorché, come nel caso di specie, indirizzata al procuratore domiciliatario all'indirizzo risultante dalla sentenza impugnata. In applicazione dei suddetto principio della scissione fra il momento di perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario, con la conseguenza che la notificazione si perfeziona nei confronti dei notificante al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, è stato infatti precisato Cass. 19 ottobre 2006 numero 22480 che il principio per cui, ove tempestiva, la consegna dell'atto per la notifica evita alla parte la decadenza correlata all'inosservanza dei termine perentorio entro il quale la notifica stessa va effettuata, si applica anche all'ipotesi in cui la cui notifica era stata richiesta in termini nel domicilio eletto della controparte ma non era andata a buon fine - e dunque era stata rinnovata fuori termine - perché il domiciliatario era risultato sconosciuto all'indirizzo indicato. Nella fattispecie la S.C., con la sentenza da ultimo citata, aveva escluso la tardività, e dunque l'inammissibilità, del controricorso per cassazione, ma tale principio è applicabile anche alla fattispecie in esame in quanto assolutamente analoga . 7. Con l'unico motivo di ricorso la Casa di Cura Villa Igea s.p.a. denuncia violazione e falsa applicazione dell'articolo 41 Cost., del D.M. Sanità 30 giugno 1975, dei D.P.C.M. 27 giugno 1986, della legge regionale Emilia Romagna 8 gennaio 1980 numero 2 nonché vizio di motivazione su punti decisivi della controversia. In particolare deduce una non corretta valutazione di circostanze emergenti da documenti provenienti da enti pubblici Regione e ASL e, più in generale, delle risultanze processuali. Sotto un primo profilo la Casa di cura deduce che non era stata adeguatamente considerata la natura dell'attività dalla stessa svolta quale azienda concessionaria di un pubblico servizio in forza di una specifica convenzione con la Regione Emilia Romagna da tale convenzione deriva l'obbligo per la Casa di cura di osservare gli obblighi previsti da apposita normativa in tema di requisiti richiesti al personale medico per ricoprire ruoli sanitari anche apicali inoltre deduce la mancata considerazione dei fatto che dopo la soppressione, in data 31 gennaio 1996, dell'unità funzionale di medicina generale, alla quale era addetta la P., non sussistevano in azienda reparti o posti letto deputati a ricoveri di medicina generale. In sostanza non erano state adeguatamente valutate le ragioni essenziali che avevano imposto la modifica della posizione della P. all'interno dell'organigramma aziendale. La ricorrente in primo grado nel 1989 stata nominata medico responsabile dell'unità funzionale di medicina generale dotata di 20 posti letto , nomina concessa a titolo di liberalità in quanto non prevista dalla normativa dei D.M. Sanità 30 giugno 1975 e neppure dal c.c.numero l. nello svolgimento di tale funzione la P. non aveva mai coordinato l'attività di due medici essendosi limitata all'attività di ricovero e cura dei pazienti ricoverati nella suddetta unità funzionale. A seguito della soppressione della suddetta unità funzionale la stessa, che non poteva essere addetta alla responsabilità delle altre unità presenti nella clinica raggruppamenti di psichiatria e di riabilitazione per mancanza dei relativi titoli professionali, fu adibita, quale responsabile del servizio internistico all'uopo istituito privo di propri posti letto , all'assistenza medica di tipo internistico per i pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici e di riabilitazione. Ciò, ad avviso della ricorrente, non aveva determinato alcun demansionamento in quanto le mansioni effettivamente svolte erano rimaste sostanzialmente le stesse. Sotto altro profilo la Casa ái cura ricorrente denuncia la violazione degli articolo 2103 e 2687 cod. civ. in relazione all'ordine, contenuto nella sentenza di primo grado e confermato dalla sentenza impugnata, di reintegrare la P. nelle mansioni di medico responsabile di raggruppamento, attesa l'inesistenza di un raggruppamento di medicina interna nell'ambito della casa di cura e non essendo la P. in possesso dei titoli professionali richiesti per essere nominata responsabile di una delle strutture esistenti nella casa di cura. 8. Il motivo è infondato. Deve premettersi che la circostanza, dei tutto pacifica, che la Casa di cura opera sulla base di una apposita convenzione con la Regione Emilia Romagna con conseguente obbligo di osservare la specifica normativa in tema di requisiti richiesti al personale medico per ricoprire ruoli sanitari anche apicali, non incide sulla natura giuridica dei rapporto di lavoro subordinato intercorso fra le parti, pacificamente di natura privatistica, con conseguente applicazione della disciplina normativa propria di tale tipo di rapporto, ed in particolare di quella di cui all'articolo 13 della legge numero 300 del 1970. Deve essere altresì precisato cfr. Cass. 26 gennaio 2010 numero 1575 che, nel caso di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle in precedenza svolte, l'equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell'articolo 2103 cod. civ., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Nel caso di specie la stessa casa di cura ricorrente ammette la circostanza del mutamento delle mansioni svolte dalla P. a seguito della soppressione dell'unità funzionale di medicina generale con venti posti letto , della quale la suddetta era stata nominata medico responsabile a tale soppressione era conseguita l'attribuzione, quale medico responsabile del servizio di medicina interna privo di posti letto di mansioni di assistenza medica di tipo internistico per i pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici e di riabilitazione. I giudici di merito hanno ritenuto la sussistenza degli estremi dei demansionamento nel caso di specie e tale conclusione, implicante una valutazione di merito, è basata su motivazione sufficiente e priva di vizi logici e resiste pertanto alle censure formulate in ricorso, censure basate sulla sostanziale equivalenza delle mansioni. In particolare, a prescindere da ogni altra considerazione, non può sfuggire il diverso ed inferiore tipo di responsabilità concernente un servizio privo di posti letto rispetto a quella concernente 20 posti letto. Nessun rilievo inoltre può attribuirsi, ai fini della configurabilità del suddetto demansionamento, alla circostanza che la disciplina pubblicistica che regola l'attività della Casa di cura non prevede la figura di medico responsabile di una singola unità funzionale. Ciò che conta, infatti, ai fini del demansionamento, è l'attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle di fatto in precedenza svolte nell'ambito dell'organizzazione aziendale. Sempre con riferimento all'accertato demansionamento devono ritenersi del tutto corrette le conclusioni della Corte territoriale secondo cui esso deve ritenersi illegittimo in quanto è mancato l'assenso della prestatrice di lavoro. Deve infatti ribadirsi in questa sede il principio enunciato da questa Corte di legittimità cfr., ad esempio, Cass. 2 luglio 2009 numero 15500 del 02/07/2009 Cass. 7 febbraio 2004 numero 2354 secondo cui, ai sensi dell'articolo 2103 cod. civ. nel testo introdotto dall'articolo 13 della legge numero 300 del 1970, la modifica in pejus delle mansioni dei lavoratore è illegittima ove disposta senza il consenso del dipendente anche se finalizzata ad evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione dei lavoratore stesso . Ciò in quanto solo in questa ipotesi la diversa utilizzazione non contrasta con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma. Quanto, infine, alla contestazione concernente l'ordine di riassegnare alla ricorrente le mansioni in precedenza svolte ovvero mansioni equivalenti, deve osservarsi che questa Corte di legittimità cfr., ad esempio, Cass. 12 gennaio 2006 numero 425 , sul presupposto che la violazione della norma imperativa contenuta nell'articolo 2103 cod. civ. implica la nullità dei provvedimento datoriale di assegnazione a mansioni non equivalenti, ha ritenuto pienamente ammissibile che al lavoratore sia accordata la tutela piena, mediante l'automatico ripristino della precedente posizione, fatto salvo, ovviamente, il cosiddetto ius variandi dei datore di lavoro. Pertanto, ove venga accertata l'esistenza di un comportamento contrario all'articolo 2103 cod. civ., il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento dei danno, ben può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, avente contenuto pienamente satisfattorio dell'interesse leso, portante la condanna dei medesimo datore di lavoro a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione delle mansioni inferiori, affidando al lavoratore l'originario incarico, ovvero un altro di contenuto equivalente. Ciò premesso, deve osservarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, l'obbligo del datore di lavoro di ricollocare il lavoratore nelle mansioni precedentemente occupate, o in mansioni equivalenti può trovare una deroga solo nel caso di dimostrata impossibilità, per inesistenza in azienda delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti l'onere di provare tale inesistenza incombe sul datore di lavoro principio enunciato da Cass. 7 dicembre 2007 numero 25668 in tema di reintegrazione dopo un licenziamento illegittimo ma applicabile anche all'ipotesi di reintegrazione nelle mansioni equivalenti a seguito di sentenza che abbia accertato il demansionamento . La sentenza impugnata ha correttamente applicato tale principio avendo, di fatto, ritenuto l'insussistenza dei presupposti per la deroga all'ordine di reintegrazione in mansioni equivalenti. La suddetta statuizione resiste alla censura della Casa di cura ricorrente tenuto conto che la stessa è formulata in termini assolutamente generici in particolare non si può ritenere sufficiente sul punto la mera allegazione, da parte della ricorrente, dell'insussistenza, dopo la soppressione dell'unità funzionale di medicina generale, di reparti e di posti letto deputati a ricoveri di medicina generale. 9. Il ricorso va pertanto respinto. 10. Al rigetto dei ricorso, consegue, per il principio della soccombenza, che le spese dei presente giudizio vengano poste a carico di parte ricorrente nella misura, liquidata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 per esborsi oltre Euro 3500 tremilacinquecento per compensi professionali e oltre accessori di legge.