Gli SMS non valgono una condanna: era solo un tentativo di riallacciare il rapporto con la ex

Non punibile il maldestro tentativo di un uomo di riallacciare il rapporto con l’ex fidanzata che aveva troncato la relazione. Il fatto che egli avesse inviato 15 SMS nell’arco di 75 giorni viene ritenuto insufficiente dagli Ermellini per la configurazione dell’elemento della petulanza richiesto dall’articolo 660 c.p. per il reato di molestie e disturbo alle persone.

La vicenda. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza numero 18216/19, depositata il 2 maggio, decidendo sul ricorso presentato da un imputato avverso la condanna pronunciata dal Tribunale di Catanzaro alla pena di 150 euro di ammenda per il reato di molestie ex articolo 660 c.p Dalla ricostruzione della vicenda era emerso che egli aveva, «per petulanza o altro biasimevole motivo», recato molestie e disturbo all’ex fidanza inviandole alcuni SMS. Secondo il ricorrente, che deduce l’erronea applicazione della norma penale richiamate, il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’elemento oggettivo e soggettivo del reato posto che il suo comportamento era animato dallo sforzo di riattivare la relazione sentimentale con la donna. La fattispecie contestatagli richiede invece il fine specifico dell’agente di interferire in maniera inopportuna nell’altrui sfera di libertà per petulanza, descritta dalla giurisprudenza come quel «modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente, che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone». Insussistenza del reato. Gli Ermellini sottolineano che il reato di molestie o disturbo alla persona «mira a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità, attuato mediante l’offesa alla quiete privata». Secondo la giurisprudenza, la fattispecie in parola è configurabile non già in riferimento a qualunque condotta che interferisca sul piano oggettivo dell’altrui sfera di quiete personale, ma il comportamento punibile è quello caratterizzato, per modalità e sostegno psicologico, da petulanza o altro biasimevole motivo. Sussiste dunque il reato in presenza di un «contegno intollerabile ed invincibile verso la persona molestata, tale da determinarla ad invocare aiuto». A prescindere dall’abitualità, tale comportamento può realizzarsi anche in una singola azione e, dal punto di vista soggettivo, richieda la volontà della condotta e la direzione della volontà verso lo specifico fine interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole. Applicando tali principi alla vicenda in esame, il Collegio ritiene che nel fatto concreto non possa essere ravvisato il dolo in quanto la condotta del ricorrente deve essere collocato nella specifica fase di cessazione di una relazione sentimentale in cui egli aveva continuato ad inviare messaggi e telefonate all’ex per cercare di recuperare il rapporto, senza che ella attivasse sul proprio apparecchio alcun sistema di blocco dei messaggi. La sentenza impugnata risulta dunque carente in termini di motivazione circa la configurabilità del reato contestato sul profilo della petulanza del comportamento che a ben vedere consta di 15 SMS in un arco temporale di 75 giorni. Per questi motivi, la Corte accoglie il ricorso e annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 14 febbraio – 2 maggio 2019, numero 18216 Presidente Mazzei – Relatore Fiordalisi Ritenuto in fatto 1. E.D.G. ricorre avverso la sentenza del Tribunale di Catanzaro del 12 gennaio 2018, che lo ha condannato alla pena di Euro 150,00 di ammenda in ordine al reato di molestia o disturbo alle persone, di cui all’articolo 660 c.p., perché col mezzo telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, recava alta sua ex fidanzata C.E. molestie e disturbo, inviandole alcuni messaggi di telefonia mobile detti S.M.S. Short Message Service . 2.1. Col primo motivo, il ricorrente denuncia erronea applicazione della legge penale con riferimento all’articolo 660 c.p., perché il Tribunale avrebbe erroneamente accertato la sussistenza dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo del reato in esame. Il ricorrente ritiene che, nel caso in esame, non sia ravvisabile alcun motivo biasimevole che abbia indotto E. ad inviare i messaggi a C. lo sforzo di riattivare la relazione sentimentale avrebbe potuto rappresentare, semmai, un suo agire ingenuo e maldestro. Il reato de quo, infatti, richiede che l’agente operi al fine specifico di interferire in maniera inopportuna nell’altrui sfera di libertà, per petulanza o per altro biasimevole motivo, circostanze non presenti nel caso in esame. A tal fine, il ricorrente richiama quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale il concetto di petulanza consiste in quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente, che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone. L’interpretazione del reato di molestie, quindi, che mira a prevenire il turbamento alla quiete privata, dovrebbe necessariamente essere ricavato alla luce del fatto che il numero delle comunicazioni che oggigiorno vengono scambiate avrebbe notevolmente innalzato il limite entro cui può ritenersi che un comportamento possa essere considerato petulante, o comunque idoneo a turbare la quiete individuale. Nel caso in esame, inoltre, mancherebbe ogni parvenza di dolo specifico, e ciò proprio in forza del fatto che E. appartiene a una generazione che avrebbe mutato profondamente il modo di intendere la misura delle comunicazioni individuali. Quel comportamento, pertanto, non poteva avere il fine di turbare o ledere la sfera di libertà dell’odierna parte offesa, sia per l’inidoneità dei mezzi, che per l’assoluta e generale convinzione che quindici S.M.S. in più di due mesi non sarebbero idonei a turbare nessuno. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta vizio della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui viene affermato che E. effettuava numerose telefonate all’utenza della C. ed inviava numerosi messaggi, spesso anche con contenuto offensivo . Il ricorrente ritiene che l’imputato era stato chiamato a rispondere solo dell’invio di alcuni S.M.S. e non per aver effettuato telefonate che l’aggettivo spesso , utilizzato dal Tribunale per dare un ordine di grandezza al contenuto offensivo delle comunicazioni intercorse, sarebbe usato in maniera illogica, posto che a fronte di 15 messaggi inviati, era stato accertato che solo 2 di essi avevano contenuto valutabile come offensivo. Il ricorrente, inoltre, lamenta vizio di motivazione, perché il Tribunale avrebbe omesso di argomentare la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche da lui richieste ai sensi all’articolo 62 bis c.p., nonostante il soggetto fosse incensurato. 2.3. Con l’ultimo motivo, denuncia erronea applicazione della legge penale con riferimento all’articolo 131 bis c.p., perché il Tribunale avrebbe mancato di considerare la richiesta dell’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, nonostante la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi necessari per l’applicazione di tale istituto. Considerato in diritto 1. Giova premettere che il reato di molestie o di disturbo alla persona mira a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità, attuato mediante l’offesa alla quiete privata. Pertanto, rispetto alla contravvenzione in discorso, viene in considerazione l’ordine pubblico, pur trattandosi di offesa alla quiete privata onde l’interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa, cosicché la tutela penale viene accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate Sez. 1, numero 32165 del 27/06/2014, Terzi, Rv. 261234 . La giurisprudenza di legittimità ha precisato successivamente che il reato di cui all’articolo 660 c.p., è configurabile non già in riferimento a qualsivoglia condotta che interferisca sul piano oggettivo nell’altrui sfera di quiete personale, ma si caratterizza, per le sue modalità e sostegno psicologico, in termini di petulanza o altro biasimevole motivo , sicché esso va identificato in concreto come il contegno intollerabile ed incivile verso la persona molestata, tale da determinarla ad invocare aiuto, e il modo di agire arrogante o vessatorio, privo di riguardo per la libertà o la quiete altrui Sez. 1 numero 12251 del 07/10/1986, Held, Rv. 174192 Sez. 1 numero 13555 del 26/11/1998, Faedda, Rv. 212059 Sez. 1, numero 8198 del 19/01/2006, Paolini, Rv. 233438 . Esso, pur non essendo necessariamente abituale, perché può essere realizzato anche con una sola azione di disturbo, può assumere tale forma, quando è proprio la reiterazione delle condotte a creare disturbo Sez. 1, numero 11514 del 16/03/2010, P.G. in proc. Zamò, Rv. 246792 . Sotto il profilo soggettivo, è richiesto che la volontà della condotta e la direzione della volontà siano direzionate verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà Sez. 1, numero 19071 del 30/03/2004, Gravina, Rv. 228217 , senza che possa rilevare, in quanto pertinente alla sfera dei motivi, l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole Sez. 1, numero 33267 del 11/06/2013, Saggiomo, Rv. 256992 Sez. 1, numero 50381 del 07/06/2018, Vidoni, Rv. 274537 . Si consideri, infatti, che ai fini della sussistenza del reato de quo, gli intenti persecutori dell’agente sono del tutto irrilevanti, una volta che si sia accertato che, a prescindere dalle motivazioni che sono alla base del comportamento, esso è connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone. 2. In forza dei principi giurisprudenziali sopra evidenziati, la Corte ritiene che nel fatto concreto descritto dalla sentenza impugnata non sia ravvisabile il dolo, in quanto il Tribunale ha evidenziato che la condotta dell’imputato si colloca nella fase di cessazione di una relazione personale in cui la persona offesa aveva continuato a ricevere i messaggi e le telefonate dell’ex fidanzato, senza attivare sul proprio apparecchio cellulare alcun sistema di blocco dei messaggi provenienti da quella determinata utenza inoltre, solo due dei 15 messaggi hanno un obiettivo contenuto offensivo, mentre gli altri sono mera manifestazione di gelosia verso i nuovi frequentatori della donna, come si evince dal chiaro significato dei messaggi indicati nella sentenza impugnata. Il Tribunale non ha evidenziato profili che possono assumere rilievo per caratterizzare il dolo di petulanza dei messaggi, ma solo i tratti della possibile molestia degli stessi. Assume certamente rilievo il fatto oggettivo evidenziato dalla difesa dell’imputato che sul telefono della persona offesa non sia stato attivato il blocco dei messaggi. Questi, infatti, erano tutti generati dall’utenza intestata all’imputato, per come ha accertato il Tribunale a pag. 3 della sentenza impugnata, sicché E. aveva effettuato gli ulteriori invii nella situazione psicologica di colui che sa che gli stessi continuavano ad essere ricevuti dalla donna, con la quale intendeva superare quella fase di allontanamento e continuare così il rapporto sentimentale e, per come si evince dalla complessiva descrizione della vicenda che il giudice di merito colloca nella relazione personale sospesa per volontà unilaterale della donna, costei aveva continuato a ricevere dall’imputato non telefonate come erroneamente scritto in sentenza bensì alcuni SMS 15 in 75 giorni, che esprimevano essenzialmente amarezza provocata dalla interruzione del rapporto, gelosia e volontà di incontrare di nuovo l’ex fidanzata per riallacciare la relazione. In definitiva, impediscono la configurabilità stessa del reato contestato l’assenza di motivazione nella sentenza impugnata sul profilo della petulanza del reato in oggetto e l’impossibilità di ravvisare nei fatti esposti il tipico atteggiamento psicologico inerente alla petulanza del comportamento o ad altro biasimevole motivo che possa caratterizzare l’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 660 c.p., consistente nella volontà effettiva dell’imputato di interferire nella sfera di libertà dell’altro, fino al punto di determinarlo ad invocare aiuto. 3. Ne segue che, in difetto dell’elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.