È legittimo l’esercizio del diritto di cronaca attraverso la diffusione, a mezzo stampa, di notizie che, sebbene siano riportate con toni duri e irridenti, forniscano notizie oggettivamente vere, senza indurre nel lettore un giudizio di sicura colpevolezza del soggetto incriminato.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza numero 11092 del 20 maggio 2014. Il caso. Una donna citava in giudizio una s.p.a., chiedendo il risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, con riferimento a un articolo pubblicato su un quotidiano nel quale era narrato l’arresto dell’attrice e le relative vicende. Il Tribunale e la Corte d’Appello di Genova respingono la domanda. La donna ricorre in Cassazione, denunciando l’incontinenza e la non veridicità dei fatti ai fini del legittimo esercizio del diritto di cronaca se da un lato, infatti, era stato riconosciuto il carattere irridente delle espressioni utilizzate, dall’altro se ne era riconosciuta la legittimità. Tra l’altro l’articolo conteneva il riferimento ad ipotesi criminose mai contestate in sede penale. Veridicità e continenza dei fatti esposti. Il ricorso è infondato la sentenza impugnata, infatti, ha fatto buon governo dei principi che regolano il diritto di cronaca veridicità dei fatti esposti, continenza formale e sostanziale delle espressioni usate e interesse pubblico alla conoscenza dei fatti stessi . È innegabile l’interesse pubblico della notizia, soprattutto nel contesto dell’epoca la c.d. tangentopoli in cui vicende del genere erano destinate a suscitare scalpore e riprovazione nell’opinione pubblica. E se è vero che una serie di espressioni utilizzate erano connotate da un carattere fortemente irrisorio, il contesto del messaggio non conteneva «espressioni suggestive e maliziose o anche solo surrettiziamente dubitative idonee ad orientare l’opinione dei lettori nel senso di una indebita anticipazione di un giudizio condannatorio». L’articolo si è limitato a fornire la notizia dell’incriminazione. Correttamente, dunque, il Giudice ha tenuto conto del fatto che l’articolo, nonostante i toni, si era limitato a fornire la notizia dell’incriminazione e dell’arresto, senza indurre nel lettore un giudizio di sicura colpevolezza del soggetto incriminato. Il ricorso, quindi, deve essere respinto.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 20 marzo – 20 maggio 2014, numero 11092 Presidente Segreto – Relatore Spirito Svolgimento del processo La B. citò in giudizio la SEP spa per risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, con riferimento ad un articolo pubblicato sul quotidiano omissis del omissis , dal titolo È nata miss tangente nel quale era narrato dell'arresto dell'attrice e delle vicende relative. Il Tribunale di Genova respinse la domanda con sentenza poi confermata dalla locale Corte d'appello. Propone ricorso per cassazione la B. attraverso tre motivi. Risponde con controricorso la SEP spa. Ambedue le parti hanno depositato memorie per l'udienza. Motivi della decisione I motivi censurano violazione di legge e vizi della motivazione. In particolare, nel primo motivo la ricorrente sostiene l'insussistenza dei requisiti della continenza e della verità dei fatti ai fini del legittimo esercizio del diritto di cronaca. Le espressioni utilizzate sarebbero incontinenti ed il giudice si sarebbe contraddetto allorquando, per un verso, riconosce il carattere irridente delle espressioni utilizzate dal giornalista mentre, dall'altro, ne riconosce la legittimità. Inoltre, l'articolo conterrebbe il riferimento ad ipotesi criminose mai contestate in sede penale, farebbe riferimento alle manette ai polsi , benché la B. non fosse stata mai tradotta in manette, accosterebbe la sua vicenda ad altre persone affatto estranee, riferirebbe di persone altrettanto estranee al fatto di cronaca trattato. Il secondo motivo tende a dimostrare la falsità di alcune circostanze contenute nell'articolo ed, in particolare che la ricorrente non fu mai latitante, bensì, semmai, irreperibile che nell'articolo viene omesso di riferire che ella spontaneamente comparve innanzi all'A.G. che viene fatto riferimento a reati mai contestati in sede penale corruzione e concussione , mentre l'effettiva contestazione riguardò il reato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa che alla ricorrente vengono attribuiti fatti materiali diversi da quelli effettivamente posti alla base dell'istruttoria. Inoltre, si contesta alla sentenza impugnata di non avere affatto motivato in ordine alla errata menzione dei capi d'imputazione attribuiti alla B. . Il terzo motivo ribadisce, sotto il profilo della violazione degli articolo 115 e 116 c.p.c., l'insussistenza dei requisiti legittimanti il diritto di cronaca e riferisce dell'ordinanza della Corte d'appello di Venezia, che ha riconosciuto alla ricorrente il risarcimento del danno per l'ingiusta detenzione patita, dalla quale dovrebbe dedursi la rilevanza della campagna diffamatoria subita dalla ricorrente . I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati. Sono inammissibili laddove tendono a conseguire dal giudice di legittimità un diverso e favorevole giudizio intorno al merito della vicenda. Sono infondati, laddove lamentano violazione di legge e vizi della motivazione. Occorre premettere, in proposito, che, in ipotesi di azione risarcitoria da diffamazione a mezzo stampa, il potere di controllo della Corte di cassazione sul provvedimento impugnato è limitato alla verifica dell'accertamento, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei canoni legittimanti il diritto di cronaca e, dunque, la compressione del diritto costituzionale alla riservatezza. Sotto un secondo profilo, il controllo è poi esteso alla congruità ed alla logicità della motivazione, secondo la previsione dell'articolo 360, numero 5, c.p.c. applicabile ratione temporis . È escluso, invece, che la Corte stessa possa sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine all'effettiva capacità diffamatoria delle espressioni utilizzate. Ebbene, quanto ai suddetti canoni che la stessa ricorrente ha ricordato essere quelli della veridicità dei fatti esposti, della continenza formale e sostanziale delle espressioni usate e dell'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti stessi , la sentenza impugnata ne ha fatto attenta ricognizione, spiegando, quanto alla veridicità dei fatti, che - Nell'atecnica sede giornalistica la figura del latitante è quella di colui che si sottrae all'esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare in carcere, pur poi ponendosi a disposizione della giustizia - L'incriminazione della B. implicava la configurazione di reati in danno di un ente pubblico, che necessariamente presupponevano l'abuso di posizioni politiche. Quanto all'interesse pubblico alla notizia, la sentenza rappresenta che, nel contesto dell'epoca la c.d. tangentopoli , vicende del genere erano destinate a suscitare interesse e riprovazione nell'opinione pubblica, tali da giustificare l'attribuzione alla B. di essere la prima donna eccellente in Italia a finire con le manette ai polsi . Poi, quanto alla continenza, la sentenza argomenta che effettivamente una serie di espressioni contenute nell'articolo erano ispirate ad uno spirito di irrisione , tuttavia il contesto del messaggio non era connotato da espressioni suggestive e maliziose o anche solo surrettiziamente dubitative idonee ad orientare l'opinione dei lettori nel senso di una indebita anticipazione di un giudizio condannatorio . In altri termini, il giudice correttamente tiene conto del fatto che l'articolo, benché attraverso i toni menzionati, si limitava a fornire la notizia dell'incriminazione e dell'arresto, senza indurre nel lettore un giudizio di sicura colpevolezza del soggetto incriminato. Quella esposta si manifesta come una motivazione congrua, in quanto appaga tutte le doglianze della ricorrente, e logica, in quanto offre una ricostruzione concreta ed attendibile della vicenda. Tutte queste circostanze rendono, dunque, incensurabile la sentenza impugnata da parte della Corte di legittimità. Il ricorso deve essere, all'esito, respinto, con condanna della ricorrente a rivalere la controparte delle spese sopportate nel giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4200,00, di cui Euro 4000,00 per compensi, oltre spese ed accessori di legge.