Sul dipendente che chiede il risarcimento del danno, per aver prestato servizio di reperibilità passiva, incombe l'onere di provare il pregiudizio concretamente subito.
L'obbligo di reperibilità passiva è prestazione strumentale e accessoria rispetto a quella lavorativa e non incide sul tessuto psicofisico del lavoratore, così da configurare un danno in re ipsa per ottenere un risarcimento serve la prova del pregiudizio patito in concreto. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza dell'8 settembre, numero 18310.La fattispecie. Un dipendente ASL chiedeva il risarcimento del danno derivatogli dall'usura psicofisica subita per le giornate lavorative effettuate nei giorni destinati a riposo compensativo, a seguito di turni di reperibilità passiva. La domanda veniva rigettata in primo e secondo grado e il lavoratore proponeva, quindi, ricorso per cassazione.Il riposo compensativo non riduce l'orario di lavoro settimanale. Nell'affrontare il ricorso, la S.C. ricostruisce la vicenda individuando la normativa applicabile in caso di servizio di reperibilità passiva al lavoratore spetta un riposo compensativo, senza che questo comporti una riduzione del debito orario settimanale. La reperibilità passiva è prestazione strumentale, diversa da quella lavorativa. La S.C. prosegue analizzando la natura della reperibilità passiva, che si configura come prestazione strumentale ed accessoria qualitativamente diversa dalla effettiva prestazione di lavoro, consistendo nell'obbligo del lavoratore di mettersi a disposizione in vista di una eventuale necessità, che può anche non concretizzarsi il servizio di reperibilità, infatti, può anche esaurirsi nella mera disponibilità. Il servizio di reperibilità passiva non configura un danno in re ipsa. Ciò comporta che al servizio di reperibilità non può essere applicato il principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità in tema di ristoro della prestazione lavorativa resa nel settimo giorno consecutivo, di presunzione del danno per la maggiore gravosità del lavoro prestato nel giorno destinato a riposo. Poiché, come detto, l'obbligo di mera disponibilità, non seguito dal riposo compensativo, non equivale alla prestazione lavorativa resa nel giorno festivo, deve escludersi che esso sia di per sé idoneo ad incidere sul tessuto psicofisico del lavoratore, così da configurare un danno in re ipsa .Il lavoratore deve provare il danno concretamente patito. Il disagio patito per la reperibilità passiva nei giorni festivi, osserva la Corte, può assumere dimensioni tali da incidere sul piano psicofisico del lavoratore , ma occorre provarlo non basta sostenere di non aver potuto godere del giorno di riposo a causa del connesso obbligo di reperibilità è necessario allegare e provare il danno provocato da tale reperibilità.Il danno da usura psicofisica è non patrimoniale. In conclusione, la S.C. richiama un recente orientamento della giurisprudenza in base al quale il danno da usura psicofisica rientra nella categoria unitaria del danno non patrimoniale, causato da fatto illecito o da inadempimento contrattuale. Perché esso sia risarcibile occorre che il titolare dimostri e provi il pregiudizio concretamente subito. Ciò non è avvenuto nel caso di specie e il ricorso del lavoratore viene, pertanto, rigettato.Sullo stesso argomento leggi anche Il riposo compensativo non riduce l'orario di lavoro settimanale, DirittoeGiustizi@ 20 luglio 2011