I destinatari delle norme incriminatrici della bancarotta sono da individuare sulla base delle concrete funzioni esercitate e alla rilevanza degli atti realizzati in adempimento della qualifica ricoperta.
Il caso. L’imputato era condannato per bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e dissipazione, nonché per bancarotta fraudolenta documentale in quanto ritenuto non già un mero socio, quale formalmente appariva, della società dichiarata fallita, bensì l’amministratore di fatto. Veniva dunque condannato alla pena principale ed accessoria nonché al risarcimento dei danni in favore del “fallimento”, costituito parte civile. Chi assume la qualifica di amministratore di fatto? Secondo la giurisprudenza di legittimità consolidata ricopre la qualifica di amministratore di fatto – nozione presupposta all’articolo 2639 c.c. – chi eserciti in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti la qualifica e la funzione di amministratore. In altri termini, l’attività gestoria deve essere apprezzabile, anche se non svolta in modo assoluto, ben bastando che non sia episodica od occasionale. Per effetto della norma menzionata vi è dunque un’estensione della disciplina penalistica a coloro i quali siano tenuti a svolgere la stessa funzione, pur se qualificati in modo diverso. Chi è destinatario delle norme incriminatrice dei delitti di bancarotta? È indispensabile, come risaputo, guardare alle norme civilistiche che disciplinano la qualifica di imprenditore e di amministratore, anche ai fini di individuare chi sia il soggetto cui possono essere addebitate le condotte specifiche di bancarotta sanzionate dalla legge penale. I soggetti che possono essere imputati dei delitti di bancarotta, pertanto, devono essere identificati in coloro che concretamente svolgano funzioni gestorie, valutando altresì la rilevanza degli atti realizzati in adempimento della qualifica ricoperta. Come individuare gli elementi sintomatici di gestione o cogestione della società? È evidente che, poiché si versa in un ambito in qualche modo sommerso, informale, prasseologico, la qualifica di amministratore di fatto deve essere ricavata quale esito di un processo che genera dall’individuazione e dalla valutazione di indici sintomatici dai quali dedurre che il soggetto, fuori dalle apparenze formali, è intraneus alla società e svolge funzioni gerarchiche e direttive. L’accertamento di tali indici costituisce apprezzamento di fatto, perciò di competenza del giudice di merito e dunque sottratto al sindacato dei giudici di legittimità se motivato in modo congruo e logico. Plurimi indicatori della qualifica di amministratore di fatto. Le fonti di prova erano valorizzate dai giudici di merito nel senso della qualifica di amministratore di fatto in capo all’imputato. Oltre alle dichiarazioni rese dalle c.d. “teste di legno”, vale a dire gli amministratori “di facciata”, valutate con prudenza perché rese da soggetti coimputati, la corte territoriale individuava adeguati riscontri esterni. Invero, l’imputato aveva partecipato in prima persona, pur nell’assenza di cariche o incarichi formali, al rapporto con altra società finanziatrice della società poi fallita. La corte ha ritenuto che quella in esame costituisse un’attività incompatibile con il ruolo di mero socio ricoperto formalmente dall’imputato, atteso che si apprendeva che quest’ultimo era giunto ad offrire il proprio patrimonio personale a garanzia dei debiti della società poi fallita. L’imputato, poi, rivestiva cariche nelle società con cui la fallita aveva intrattenuto rapporti commerciali, nell’alveo dei quali si erano realizzate le operazioni distrattive e dissipative. Dulcis in fundo, i “formali” amministratori non avevano mai compiuto alcun atto gestorio. Secondo la Cassazione, correttamente i giudici territoriali avevano conclusivamente ritenuto che l’imputato avesse avuto un ruolo affatto irrilevante e marginale nella gestione della società poi fallita, avendo partecipato con gli amministratori di diritto e con il fiduciario alle scelte decisive per la vita della società, in quanto, in realtà, ne era il vero gestore. Il principio della c.d. autosufficienza del ricorso è stato violato. Nell’argomentare in ordine al ruolo svolto dall’imputato nel rapporto con la società finanziatrice, e segnatamente nel fatto che l’imputato non avrebbe aderito alla richiesta – asseritamente proveniente dalla finanziatrice – di garantire i debiti della fallita con il proprio patrimonio personale, il ricorso ha violato il principio della c.d. autosufficienza del ricorso, non essendo stato allegato o trascritto integralmente il contenuto degli atti processuali di cui è stata lamentata l’omessa o travisata valutazione. Come noto, infatti, al giudice di legittimità è precluso l’esame diretto di tali atti, salvo che il fumus del vizio dedotto non emerga dal ricorso stesso. Non convince perché una garanzia personale sia stata chiesta ad un mero socio. Peraltro, riguardo al profilo appena accennato, la Corte di cassazione rileva che la censura difensiva non spiega per quale ragione la società finanziatrice avrebbe dovuto chiedere una garanzia personale ad un semplice socio, quale era formalmente l’imputato. Più logico è ritenere che una simile richiesta – se proveniente dalla finanziatrice – costituisse l’effetto di un disegno coerente nel quale l’imputato non era mero socio, bensì vero dominus della società, pertanto interessato in modo incisivo alla sopravvivenza della stessa, tanto da negoziare una garanzia con offerta del proprio patrimonio personale.
Corte di Cassazione ,sez. V Penale, sentenza 8 luglio 2014 – 14 gennaio 2015, numero 1667 Presidente Marasca – Relatore Guardiano Fatto e diritto 1. Con sentenza pronunciata il 27.2.2012 la corte di appello di Milano confermava, con riferimento alla posizione dell'appellante U.A. , la sentenza con cui il tribunale di Milano, in data 17.7.204, aveva condannato quest'ultimo, nella sua qualità di amministratore di fatto della società Montello srl , dichiarata fallita in data omissis , alle pene, principale ed accessoria, ritenute di giustizia, oltre che al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore del fallimento, costituito parte civile, per una pluralità di fatti i di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e dissipazione, nonché di bancarotta fraudolenta documentale. 2. Avverso la decisione della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto ricorso per cassazione, personalmente, l'imputato, lamentando la mancanza ovvero la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, sotto diversi profili. In particolare il ricorrente contesta la qualifica di amministratore di fatto della società fallita, che gli è stata attribuita sulla base di semplici presunzioni, non essendo stato dimostrata la sua partecipazione ad atti di gestione, ma solo i suoi rapporti con altre società, entrate in relazioni di affari con la fallita, di per sé inidonei a provare un ruolo dell'imputato diverso da quello di semplice socio della Montello non risulta rispondente al vero, inoltre, evidenzia il ricorrente, che l'imputato si sia detto disponibile con la IPI Spa principale finanziatrice della Montello , a garantire con il proprio patrimonio i debiti della società fallita contesta, altresì, l'U. l'esistenza delle dichiarazioni dei coimputati P. ed A. , nonché, in relazione a tali dichiarazioni, la violazione dei criteri di valutazione di cui all'articolo 192, co. 3, c.p.p., che andavano rispettati, trattandosi di chiamate in reità ovvero in correità sottolinea ancora l'U. come, in relazione all'unico caso in cui egli era amministratore di una delle società entrate in rapporti di affari con la fallita, quello relativo alla cessione delle quote della Agricola Piombese , di proprietà della fallita, alla Finrex , l'imputato sia stato assolto, contestando anche sia la ritenuta dimostrazione dell'esistenza di un accordo tra l'U. , la P. , l'A. ed il D.A. , che la corte territoriale, con motivazione contraddittoria, definisce fiduciari dell'U. , sia la circostanza che le attività distrattive abbiano avuto come beneficiario il ricorrente stesso lamenta, infine, il ricorrente la mancata dimostrazione della partecipazione dell'U. ai singoli atti distrattivi e dissipativi. Con memoria depositata in cancelleria dall'avv. Ugo Genesio, difensore di fiducia dell'U. , dopo una ricostruzione dell'intera vicenda processuale, si evidenziano alcune criticità del percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale, riguardanti la reale natura dei rapporti tra l'imputato e la IPI , in relazione ai quali, si sottolinea come l'U. rifiutò di accedere alla richiesta della suddetta società di porre il suo patrimonio a garanzia dei debiti della Montello la manifesta illogicità dell'affermazione della corte territoriale, secondo cui l'imputato controllava la fallita per mezzo degli amministratori ed, al tempo stesso, li aveva indotti a compiere una serie di operazioni, il cui risultato era stato quello di pregiudicare il patrimonio della Montello , dallo stesso U. garantito la manifesta illogicità della tesi fatta propria dalla corte di appello milanese, secondo cui l'U. avrebbe concorso con gli amministratori di facciata alla commissione delle operazioni fraudolente, pur essendo essi ignari delle iniziative assunte dall'imputato ed estranei agli illeciti da quest'ultimo commessi, ragione per la quale erano stati assolti la mancanza della prova che l'U. si sia avvantaggiato dal compimento delle operazioni distrattive. 3. Il ricorso non può essere accolto. 4. Infondato, in particolare, deve ritenersi il rilievo in ordine alla mancata dimostrazione del ruolo di amministratore di fatto della società fallita svolto dall'U. . Al riguardo si osserva che, come affermato da tempo nella giurisprudenza di legittimità, in tema di reati fallimentari, il soggetto che, ai sensi della disciplina dettata dall'articolo 2639, c.c., assume la qualifica di amministratore di fatto della società fallita è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto , per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili come i fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale , tra i quali vanno ricomprese le condotte dell'amministratore di diritto , anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali condotte, in applicazione della regola di cui all'articolo 40, co. 2, c.p. cfr. Cass., sez. V, 20/05/2011, numero 39593, rv 250844 Cass., sez. V, 2/3/2011, numero 15065, Guadagnoli e altro, rv. 250094 . Consolidato appare all'interno della giurisprudenza di legittimità anche l'orientamento secondo cui la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall'articolo 2639 c.c., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione, anche se significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale. La posizione dell'amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, dunque, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l'attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell'accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall'organico inserimento del soggetto, quale intraneus che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi - rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti - in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare. Peraltro l'accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica cfr. Cass., sez. V, 14.4.2003, numero 22413, Sidoli, rv. 224948 Cass., sez. I, 12.5.2006, numero 18464, Ponciroli, rv. 234254 . In conclusione può dunque affermarsi che in tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli articolo 216 e 223 l. fall., vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta cfr. Cass., sez. V, 13.4.2006, numero 19145, Binda e altro, rv. 234428 . Orbene la corte di appello di Milano, con motivazione articolata, esauriente ed immune da vizi, si è mossa nel solco interpretativo tracciato dalla giurisprudenza di legittimità. La corte territoriale, infatti, ha individuato una pluralità di indici di assoluto valore sintomatico della qualifica di amministratore di fatto rivestita dall'U. , esplicitati dalle fonti probatorie, evidenziando come 1 l'imputato ha partecipato in prima persona, pur non rivestendo cariche formali, al rapporto economico con la I.P.I. , principale finanziatrice della società fallita, giungendo al punto di offrire il suo patrimonio a garanzia dei debiti della Montalto , attività che, correttamente, la corte territoriale, con motivazione logicamente ineccepibile, ha considerato incompatibile, in considerazione del carattere decisivo che essa rivestiva per la vita della società poi fallita, con il ruolo di semplice socio dell'U. , apparendo del tutto anomalo che egli rischiasse il proprio patrimonio personale a garanzia dei debiti di Montello srl senza garantire a se stesso la possibilità di influire sulle scelte del debitore principale , laddove, se avesse agito in qualità di semplice socio avrebbe limitato il rischio di perdite economiche al solo valore della sua quota di partecipazione, oggettivamente ben svalutato dalla complessiva situazione patrimoniale in cui si dibatteva la Montello srl 2 l'U. ha rivestito cariche nelle diverse società con cui la fallita ha intrattenuto rapporti commerciali, nel cui ambito sono state poste in essere le operazioni distrattive e dissipative indicate nei capi di imputazione 3 l'esistenza di amministratori di facciata P. e A. della Montello , che non hanno mai compiuto atti sostanzialmente gestori, e di un soggetto, R.D.A. , che operava all'interno della suddetta società come fiduciario dell'U. 4 le dichiarazioni delle teste di legno sul ruolo dell'U. , valutate con particolare prudenza, proprio perché provenienti da coimputati, dalla corte territoriale, che ha individuato negli ulteriori elementi di prova innanzi indicati adeguati riscontri esterni a tali dichiarazioni cfr. pp. 12-13 della sentenza oggetto di ricorso . Appare, dunque, evidente, come affermato dalla corte territoriale, che, contrariamente a quanto preteso dalla difesa, l'U. non può essere relegato in un ruolo irrilevante, partecipando, in realtà egli, a fianco degli amministratori di diritto di diritto ed il suo fiduciario, alle scelte decisive per la vita della società poi fallita, di cui era di fatto il vero gestore. A fronte di tale limpido argomentare i rilievi difensivi non solo non colgono nel segno, ma appaiono in larga misura inammissibili, in quanto attraverso di essi il ricorrente prospetta, in definitiva, censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse, in quanto tali, in sede di giudizio di cassazione cfr. Cass., sez. I, 16.11.2006, numero 42369, rv. 235507 Cass., sez. VI, 3.10.2006, numero 36546, rv. 235510 Cass., sez. Ili, 27.9.2006, numero 37006, rv. 235508 . Non può non rilevarsi, infatti, come il controllo del giudice di legittimità, pur dopo la novella dell'articolo 606, c.p.p., ad opera della l. numero 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità, come si è detto, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, numero 22256, rv. 234148 . Inconferente, inoltre, è il rilievo difensivo sul ruolo svolto nel rapporto con la società I.P.I. dall'imputato, che, secondo la versione dell'U. , non avrebbe aderito alla richiesta di garantire con il proprio patrimonio personale i debiti della Montello , proveniente dalla suddetta società finanziatrice, in relazione al quale non può non rilevarsi la violazione, da parte del ricorrente, del principio della c.d. autosufficienza del ricorso, secondo cui anche in sede penale, allorché venga lamentata l'omessa o travisata valutazione di specifici atti processuali, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa allegazione ovvero la trascrizione dell'integrale contenuto di tali atti, dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, salvo che il fumus del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso cfr. Cass., sez. I, 17/01/2011, numero 5833, G. . D'altro canto lo stesso rilievo difensivo pecca di evidente illogicità, non fornendo una convincente spiegazione delle ragioni che avrebbero dovuto spingere la I.P.I. a formulare ad un semplice socio, come si pretende che l'U. sia, una siffatta impegnativa richiesta, che, invece, appare rispondere ad un disegno coerente se non di un semplice socio si trattava, ma del vero dominus della società, in quanto tale interessato alla sopravvivenza della Montello . Così come relativi a profili di merito non scrutinabili in questa sede di legittimità, sono gli ulteriori argomenti sviluppati nella memoria del difensore dell'U. . Nemmeno coglie nel segno il motivo riguardante la violazione dei criteri fissati dall'articolo 192, co. 3, c.p.p., che, anzi, appare inammissibile, perché genericamente formulato. Al riguardo deve, peraltro, osservarsi come, da un lato le dichiarazioni delle teste di legno , ed, in particolare, del D. , sul ruolo di effettivo gestore dell'U. , non assumono un carattere decisivo per ritenere dimostrato il suo ruolo di amministratore di fatto, che risulta adeguatamente provato già alla luce delle sole circostanze di fatto in precedenza indicate dall'altro che la corte territoriale ha indicato specificamente gli elementi a sostegno dell'attendibilità estrinseca delle dichiarazioni dei coimputati, con una valutazione che rende implicito il giudizio positivo della stessa corte sulla credibilità soggettiva dei propalanti e sull'attendibilità intrinseca delle loro dichiarazioni atteso che, per ogni prova dichiarativa, l'uno aspetto influenza necessariamente l'altro e la valutazione non può che essere unitaria e relativa, non indicando l'articolo 192, comma 3, c.p.p., sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria cfr. Cass., sez. I, 17/05/2011, numero 19759 , profili, quelli anzidetti, che, come già evidenziato, non hanno formato oggetto di specifica critica da parte del ricorrente. 5. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell'interesse dell'U. , va, dunque, rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell'articolo 616, c.p.p., al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.