Sussiste il delitto di tentata estorsione nel caso in cui le espressioni minacciose siano dotate di un potenziale offensivo di oggettiva incidenza. Ricorrendo tale ipotesi, risulta ininfluente la valutazione della effettiva coercitività della condotta minacciosa.
Così ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Seconda Penale, con la sentenza numero 23369 depositata il 25 maggio 2018. La Cassazione non entra nel merito. Potrebbe sembrare una banalità, eppure accade molto spesso che le declaratorie di inammissibilità siano originate da ricorsi con i quali si tenta di sollecitare il giudice di legittimità a ragionare sulla coerenza della valutazione probatoria compiuta nei precedenti gradi di giudizio. Evidentemente, di fronte a casi nei quali il materiale probatorio si assume che non sia stato valutato correttamente, i difensori non sanno resistere alla tentazione di attaccare anche su tale aspetto la motivazione della sentenza impugnata. Gli Ermellini, dal canto loro, si trincerano dietro l'inammissibilità con monocordi argomentazioni non sono ammissibili quelle censure con cui si tenda ad attaccare «la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta ». Insomma, se il giudice dell'appello, motivando il proprio convincimento, si appiattisce sulle stesse valutazioni del collega di primo grado – vien da dire – non c'è più nulla da fare. A meno che la decisione non sia inficiata da vizi di altra natura. Il processo che ha originato la sentenza in commento aveva ad oggetto una tentata estorsione commessa da un datore di lavoro nei confronti di una propria ex dipendente con lo scopo di farla desistere dal recupero di alcuni crediti derivanti dall'attività svolta. Dalla lettura della sentenza, risulta che il titolare dell'attività commerciale presso cui la vittima lavorava abbia cercato di far abbandonare i propositi recuperatori utilizzando espressioni piuttosto inquietanti. Una valga per tutte «se mi fai una denuncia ti brucio la macchina». L'oggettività minacciosa rende ininfluente la valutazione sull'efficacia coercitiva. Nel caso che ci occupa, dopo avere concluso la solita rampogna sulla impossibilità di riproporre in Cassazione doglianze relative all'interpretazione del materiale probatorio acquisito nel corso del processo, i Supremi Giudici si dedicano ad una brevissima rassegna dei presupposti del delitto di tentata estorsione. In particolare, si soffermano sulla valutazione del comportamento minatorio. Certe espressioni – questo, in buona sostanza il loro ragionamento – sono caratterizzate da un potenziale offensivo «di “oggettiva” incidenza». Ciò rende, conseguentemente, irrilevante la valutazione di merito degli effetti di dette espressioni sulla psiche della vittima. La componente soggettiva, che può essere certamente influenzata da una maggiore o minore impressionabilità quella che la Cassazione definisce, appunto, “resilienza” in casi del genere passa del tutto in secondo piano. In effetti, a prescindere dal grado di “resilienza”, prospettare l'incendio dell'autovettura non può considerarsi, al di là delle regole di buona creanza, una espressione di gentile preghiera ad astenersi dal compiere una determinata azione giudiziaria. La valorizzazione degli aspetti soggettivi, però, non è del tutto assente nel ragionamento che la Corte compie per dimostrare che espressioni come quella incriminata devono considerarsi oggettivamente minacciose un soggetto passivo vulnerabile, ad esempio, vale certamente a confermare il giudizio sulla natura concretamente minacciosa di una certa condotta. La presenza di altri indici dello stesso tenore, poi, può militare senza dubbio in questo senso la condizione di straniero, l'essere un lavoratore dipendente, l'avere un figlio sono tutti elementi che concorrono nel far ritenere che un'espressione contenente la prospettazione di un male ingiusto debba – oseremmo dire necessariamente – rivestire natura concretamente minacciosa proprio perché il suo destinatario corre maggiormente il rischio di subirne gli effetti coercitivi.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 24 aprile – 25 maggio 2018, numero 23369 Presidente Davigo – Relatore Aielli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 12/7/2017 la Corte d’appello di Reggio Calabria confermava la sentenza di condanna emessa dal GUP del Tribunale di Reggio Calabria che, in esito al giudizio abbreviato aveva condannato R.L.M.A. alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 800,00 di multa in ordine al delitto di tentata estorsione. 1.1. Avverso tale sentenza propone due distinti ricorsi per cassazione R.L.M.A. per mezzo dei difensori indicati in epigrafe i quali deducono vizio di nullità della sentenza per violazione di legge e manifesta illogicità ella motivazione avuto riguardo alla consistenza delle prove dichiarazioni delle persone offese , ad avviso del ricorrente affette da imprecisioni e discrasie tali da non giustificare la pronuncia di condanna tanto più che l’episodio dell’incendio dell’autovettura, da cui la Corte avrebbe tratto un elemento di riscontro, non poteva essere con certezza ricondotto all’odierno ricorrente, mentre il teste addotto dalla difesa B. che aveva riferito di incontri bonari intercorsi tra le parti, sarebbe stato ingiustificatamente svalorizzato. Ad avviso del ricorrente la condotta tenuta dal R. , essendo priva di connotazioni minacciose, non sarebbe idonea ad integrare la fattispecie estorsiva nemmeno sotto forma di tentativo. Considerato in diritto 1. I ricorsi sono inammissibili. 1.1. Le doglianze riproducono pedissequamente gli argomenti prospettati nel gravame ai quali la Corte d’appello, attraverso una lettura critica delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale per come interpretate dal giudice di prime cure, ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente non considera e si limita a censurare genericamente. In tema di motivi di ricorso per Cassazione deve ribadirsi il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui sono inammissibili tutte le doglianze che attaccano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, delle credibilità dello spessoreòdella valenza probatoria del singolo elemento Sez. VI, 31 marzo 2015, numero 13809, rv. 262965 Sez. VII 24 marzo 2015 numero 12406, rv. 262948 . 2. Nel caso in esame la Corte territoriale ha scandagliato tutti dubbi prospettati dalla difesa in fase di appello, giungendo a ratificare la sentenza di primo grado, avuto riguardo al racconto delle persone offese che, in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è stato posto a fondamento della decisione di condanna avendone verificata la credibilità soggettiva ed oggettiva. Sul punto occorre ribadire che in tema di valutazione della prova testimoniale, è costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, che a base del libero convincimento del giudice possono essere poste le dichiarazioni della persona offesa, la cui deposizione, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva Sez. Unite 41461/2012, Rv. 253214 Sez, 6 27322/2008, Rv. 240524 Sez. 6, 443/2004, Rv. 230899 Sez. 3, numero 3348/2003, Rv. 227493 . Nel caso di specie la Corte d’appello non ha acriticamente recepito il racconto di D.L.M. , lavoratrice presso il bar gestito dalla famiglia R. in omissis la quale vantava un credito per le prestazioni lavorative svolte nei confronti del R. , la quale ha riferito che questi per farla desistere dalla sua pretesa legittima, l’aveva più volte minacciata, ma lo ha valutato in maniera rigorosa ed approfondita, riscontrandone l’attendibilità intrinseca ed estrinseca, ponendolo in relazione con dati oggettivi quali l’effettiva pendenza debitoria del R. , l’episodio dell’incendio dell’autovettura della p.o., la testimonianza di S.I. . Inoltre la Corte di merito ha preso atto di tutte le doglianze difensive, riguardanti la presunta contraddittorietà delle dichiarazioni della D. e la incidenza, quale elemento difensivo favorevole, delle dichiarazioni del teste B. , giungendo a conclusioni che il ricorrente mostra di non condividere sollecitando la Corte di Cassazione, inammissibilmente, ad una diversa comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove ed evidenziando ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti della attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento Sez. 6, 31/3/20215, Rv. 262965 . 3. Quanto poi alla configurabilità del delitto di tentata estorsione va precisato che i giudici merito correttamente hanno inquadrato le esplicite minacce del R. consistite nel profferire frasi quali se ti sparo qua a omissis , non ti trova nessuno se mi fai una -denuncia ti brucio la macchina , nell’ambito della fattispecie estorsiva tentata atteso che il comportamento minatorio posto in essere, era di consistenza tale da avere un potenziale offensivo di oggettiva incidenza, tale da rendere non rilevante la verifica dell’efficacia in concreto della minaccia, con conseguente ininfluenza sulla valutazione della efficacia coercitiva dei comportamenti dell’indice di resilienza soggettiva della vittima sulla irrilevanza della effettiva capacità coercitiva Sez. 6, numero 3298/1999, Rv. 212945 Sez. 2 27/02/2015, Rv. 265821 Sez. 2 36698/2012, Rv. 254048 . Nel caso di specie la Corte di appello ha evidenziato che il contenuto delle frasi profferite dal R. , unitamente all’incendio effettivo dell’autovettura, poco importa se riconducibile con certezza all’imputato, avevano un effettivo contenuto intimidatorio, anche tenuto conto dello stato di vulnerabilità della persona offesa, lavoratrice dipendente, straniera, con una figlia. Si tratta di una valutazione di merito che non presenta fratture logiche manifeste e decisive, è coerente con le emergenze processuali. 4. Ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento nonché al pagamento in favore della cassa delle ammenda della somma di Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.