Confermato l’addebito, così come inquadrato in primo e in secondo grado, anche tenendo presente le ripercussioni psico-fisiche sulla dipendente. Ritenuto legittimo anche il ricorso alla citazione diretta in giudizio.
Gerarchie da rispettare, sì, ma forme e vivere civile vanno sempre tenuti in debito conto altrimenti il comportamento del dirigente nei confronti del dipendente è punibile a livello penale. E il procedimento può essere legittimamente avviato con la citazione cosiddetta diretta a giudizio Cassazione, sentenza numero 28415, Seconda sezione Penale, depositata oggi . Risorse umane. A finire sotto accusa è il responsabile del personale di una piccola ditta, che opera nel mercato delle attrezzature sportive. Casus belli è l’atteggiamento tenuto nei confronti di una dipendente, richiamata con gli sguardi, con espressioni offensive e addirittura con la minaccia del licenziamento. Evidente, per la giustizia, l’abuso dei «mezzi di correzione e di disciplina», aggravato da due elementi le «funzioni dirigenziali» svolte dal responsabile del personale le lesioni personali subite dalla vittima e sfociate in una «neurosi depressiva ansiosa». Conseguenziale è la condanna, sia in primo che in secondo grado, a sei mesi di reclusione. Procedura. Per l’uomo, però, la condanna è illegittima ecco spiegato il ricorso in Cassazione, e fondato su due cardini, ossia il mancato passaggio in udienza preliminare e l’errata valutazione dei fatti. Due fronti strettamente connessi, su cui i giudici di Cassazione forniscono una valutazione tranchant, rigettando in toto il ricorso. Più precisamente, viene ritenuta non fondata la richiesta delle «vie ordinarie» con la «fissazione di udienza preliminare» difatti, viene chiarito che «il Pubblico Ministero ha esercitato la azione penale in modo corretto poiché, quand’anche il fatto lesivo fosse stato riconducibile alla fattispecie di cui al secondo comma dell’articolo 583 c.p., il reato sarebbe stato punibile con pena edittale massima di quattro anni» cioè entro i «limiti edittali» previsti dall’articolo 550 c.p. per la «citazione diretta a giudizio». Assolutamente legittima, quindi, la procedura seguita, e altrettanto legittima anche la condanna nei confronti del responsabile del personale della piccola ditta.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 5 aprile – 16 luglio 2012, numero 28415 Presidente Cosentino – Relatore Crescienzo Motivi della decisione M.V., tramite il difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza 31.3.2011 con la quale la Corte di Appello di Caltanissetta, confermando la decisione 23.6.2009 dei Tribunale di Nicosia, lo ha condannato alla pena di mesi sei di reclusione per la violazione degli articolo 571 I^ e II^ comma c.p. fatti commessi in Regalbuto il 3.10.2003 . La difesa, richiedendo l’annullamento della decisione impugnata, deduce 1. - ex articolo 606 1^ comma lett. b ed e c.p.p. la violazione dell’articolo 550 c.p.p., perché l’imputato è stato tratto a giudizio con citazione c.d. “diretta”, dovendosi invece disporre l’udienza preliminare, tenuto conto della natura della contestazione e del fatto che la questione era stata posta entro i termini previsti dall’ultimo comma dell’articolo 550 c.p,p. udienza del 18.10.2006 nella quale veniva compiute, dopo numerosi rinvii, le formalità di apertura del dibattimento . 2. - ex articolo 606 I^ comma lett. b ed e c.p.p., la violazione dell’articolo 192 c.p.p. in riferimento allo articolo 546 c.p.p., perché la Corte territoriale avrebbe reso una motivazione manifestamente illogica, travisando i fatti e il contenuto della deposizione della parte offesa, così disattendendo le censure contenute nell’atto di appello. 3. - ex articolo 606 1^ comma lett. b c.p.p. la violazione dell’articolo 533 c.p.p., perché la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare la colpevolezza dello imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e in applicazione del suddetto principio assolverlo per mancanza di una prova idonea ad affermarne la responsabilità. 4. - ex articolo 606 I^ comma lett. b c.p.p., la erronea applicazione degli articolo 157 e 158 cp, non essendo stata dichiarata la estinzione del reato per prescrizione. Il primo motivo di ricorso, erroneamente inquadrato dalla difesa, essendo riconducibile alla lett. c dell’articolo 606 c.p.p., è comunque infondato. L’imputato è stato tratto a giudizio sulla base del seguente capo di imputazione “del reato previsto e punito dall’articolo 571 I^ e II^ comma c.p., mediante condotte consistite nel fissarla con lo sguardo in modo insistente e continuo, nell’iniuriarla ribolgendole espressioni offensive quali ad es. “cretina”, “puoi chiamare chi cazzo vuoi” e nel minacciarla di licenziamento ingiustificatamente condotte tutte poste in essere con atteggiamento aggressivo, alzando la voce e in presenza di tutti gli altri dipendenti , abusava dei mezzi di correzione o di disciplina nei confronti di T.R., persona sottoposta alla sua autorità o comunque o lui affidata in quanto dipendente della ditta TECNo JACKET s.r.l. in cui il M svoge di fatto, funzioni dirigenziali e di controllo del personale. Dal fatto derivava una lesione personale dalla quale derivava una malattia consistente in una neurosi depressiva ansiosa o, comunque il pericolo di una malattia” In Regalbuto in data 3.10.2003.” La difesa assume che la natura della contestazione imponeva che il giudizio seguisse le vie ordinarie attraverso la richiesta di fissazione di udienza preliminare e non già con le forme di cui all’articolo 550 c.p.p. Dalla lettura del capo di imputazione, nonché della decisione di primo grado e di quella dell’appello, non si ravvisano ragioni per ritenere errata la decisione del Pubblico Ministero di procedere con il giudizio previsto dall’articolo 550 c.p.p. di conseguenza sono corrette le decisioni rese sul punto dai giudici di merito. Infatti, l’articolo 571. c.p. prevede al secondo comma che, se dai fatti di abuso di mezzi di correzione deriva una lesione personale, si devono applicare le pene previste dagli articolo 582 e 583 c.p. ridotte a un terzo. L’articolo 550 c.p.p. prevede che il Pubblico Ministero eserciti la azione penale con la citazione diretta a giudizio quando si tratta di contravvenzioni o di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni. Nel caso di specie, il Pubblico Ministero ha esercitato la azione penale in modo corretto, poiché, quand’anche il fatto lesivo fosse stato ritenuto riconducibile alla fattispecie di cui al II^ comma dell’articolo 583 c.p., il reato contestato sarebbe stato punibile con pena edittale massima di anni quattro, cioè entro i limiti edittali previsti dall’articolo 550 c.p.p. Pertanto il motivo va rigettato. Parimenti infondata è la seconda censura per le seguenti ragioni. La possibilità di dedurre, in sede di legittimità, il vizio di motivazione per travisamento della prova è limitata all’ipotesi in cui il giudice del merito abbia fondato il suo convincimento su di una prova inesistente ovvero su di un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale di qui consegue che, qualora la prova che si assume travisata provenga dall’escussione di una fonte dichiarativa, l’oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile. [Cass. sez. V, 12.2.2008 in Ced Cass., rv. 239533]. Nello svolgimento della attività di controllo sulla motivazione, questo giudice di legittimità deve pertanto limitarsi a verificare se il senso probatorio, attribuito dal ricorrente in contrasto con quello eletto nel provvedimento impugnato, presenti una verosimiglianza non immediatamente smentibile e non imponga, per il suo apprezzamento, ulteriori valutazioni in relazione al contenuto complessivo dell’esame del dichiarante. [Cass. sez. VI, 24.2.2010, numero 18491]. Nel caso in esame la difesa non ha posto in evidenza un “travisamento della prova” nel senso anzidetto, ma attribuisce alla stessa una valutazione personale così imponendo in sede di legittimità una valutazione di merito delle prove, che è attività preclusa nella presente sede. Va inoltre aggiunto che la valutazione della prova, operata dalla Corte d’Appello sul contenuto della deposizione della parte offesa non è manifestamente illogica, essa è stata raffrontata con i contenuti delle altre fonti probatorie di natura testimoniale, ritenute convergenti, con giudizio non sindacabile nel merito, siccome né manifestamente illogico né carente, né contraddittorio. Pertanto il motivo va rigettato. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato perché generico e riconducibile ad una indefinita ed indeterminata denuncia di vizio della motivazione, non essendo suscettibile di considerazione il motivo dedotto sotto il profilo della denuncia di violazione dell’articolo 533 c.p.p. infatti possano essere prese in considerazioni le violazioni delle norme processuali penali, ex articolo 606 I^ comma lett. c c.p.p., solo nel caso in cui la legge preveda quale conseguenza della violazione della norma processuale, la sanzione della nullità, inutilizzabilità, decadenza o inammissibilità. Nessuna delle suddette sanzioni è prevista per la violazione dell’articolo 533 c.p.p. La quarta doglianza è manifestamente infondata, l’illecito ascritto all’imputato è stato commesso in data 3.10.2003 e il termine di prescrizione, tenuto conto del compimento degli atti interruttivi matura alla data del 3.4.2011. A tale termine devono essere aggiunti i periodi nei quali il decorso della prescrizione è stato dichiarato sospeso per un complessivo termine di anni uno, mesi 7 e gg. 19 conseguentemente il termine di prescrizione del delitto ascritto maturerà il 22.11.2012. Pertanto la Corte d’Appello, al momento della decisione non poteva prendere in considerazione un fatto estintivo del reato che non si era ancora verificato. Il ricorso va quindi rigettato e l’imputato condannato alle ulteriori spese di giudizio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.