Non è stato rinvenuto alcun elemento idoneo a provare la volontà ritorsiva del datore, che in quel periodo si stava separando dalla moglie, sorella del licenziato al contrario, è stato accertato che le mansioni espletate da quest’ultimo erano state effettivamente trasferite a professionisti esterni e ciò rientra senza dubbio nella fattispecie della riorganizzazione aziendale.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6710/13 depositata il 18 marzo. Il caso tensioni in famiglia. Un lavoratore ricorre contro il licenziamento intimatogli per ragioni di carattere organizzativo dalla società della quale erano azionisti sua sorella e il marito di quest’ultima. Egli, pur essendo inquadrato come impiegato amministrativo, aveva in realtà svolto le più svariate attività, anche eccedenti lo specifico settore della contabilità e del bilancio dopo un lungo periodo di armonia familiare, però, era stato costretto a informare la sorella di una vicenda personale che vedeva coinvolto suo marito e che aveva portato alla separazione tra i due. Il cognato datore voleva vendicarsi? A detta del ricorrente, pertanto, il licenziamento sarebbe stato determinato dalla volontà ritorsiva del datore, che riteneva il ricorrente responsabile della fine del matrimonio. Egli lamenta, inoltre, che non ci sarebbe stata l’asserita riorganizzazione aziendale, posto che la struttura non aveva subito nessuna altra modifica e i suoi compiti erano stati poi assunti dallo stesso cognato. Il Tribunale non accoglie la domanda dell’attore e la pronuncia è confermata in sede di appello i giudici di merito ritengono infatti sufficientemente provata dalla resistente la riorganizzazione aziendale in occasione della quale diverse competenze erano state affidate a consulenti esterni, legittimando così il licenziamento del ricorrente. Non provata la volontà ritorsiva. La questione è posta al vaglio della S.C., ma a giudizio degli Ermellini le doglianze del ricorrente non sono fondate in particolare non si ravvisa l’asserita pretestuosità del licenziamento, in quanto non è stato rinvenuto alcun elemento idoneo a provare la volontà ritorsiva del datore. A tal proposito, infatti, è insufficiente il rilievo che il licenziamento sia avvenuto subito dopo un’udienza della causa di separazione. Legittima la riorganizzazione aziendale. Quanto al giustificato motivo oggettivo, la Corte di merito ha correttamente osservato che le mansioni espletate dal licenziato erano state effettivamente trasferite a professionisti esterni e ciò rientra senza dubbio nella fattispecie della riorganizzazione aziendale, rimessa alle decisioni dell’imprenditore il giudice, infatti, in questo caso può solo verificare l’effettiva sussistenza del motivo addotto, mentre non può entrare nel merito della scelta dei criteri di gestione dell’impresa, che costituiscono un’espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 gennaio 18 marzo 2013, n. 6710 Presidente Lamorgese Relatore Amoroso Svolgimento del processo 1. All'esito infruttuoso del tentativo obbligatorio di conciliazione D.F.G. conveniva in giudizio innanzi il tribunale di Bari, giudice del lavoro, Ranieri Lorenzo nella qualità di amministratore unico della Nuova Villa Romanazzi Carducci s.p.a. per sentire dichiarare illegittimo con le conseguenze di legge il licenziamento intimatogli il 6 luglio 2001 asseritamente per ragioni di carattere organizzativo che ci inducono a sopprimere la sua figura professionale . Chiariva il ricorrente che fin dal 1985 aveva prestato attività lavorativa in favore della società COGENA, esercente attività edile e alberghiera e che, in occasione della separazione dei due rami di attività, con creazione di distinte società, era passato alle dipendenze della Nuova Villa Romanazzi Carducci s.p.a., che aveva assunto il ramo alberghiero della vecchia unica società, per essere gli azionisti della stessa la propria sorella Rosa e il di lei marito ingegner L R. . Era stato inquadrato come impiegato amministrativo di primo livello ed era l'unico impiegato amministrativo perché altri due impiegati si occupavano esclusivamente delle operazioni di cassa e degli acquisti, mentre più tardi gli era stato assegnato in aiuto un giovane acquisito con contratto di formazione lavoro. La propria attività in favore della società si era svolta ai livelli più vari, sia con sofisticate ardue operazioni finanziarie volte al procacciamento di linee di credito rese indispensabili dalla situazione finanziaria gravissima in cui in un determinato periodo la società si era venuta a trovare sia, per spirito di collaborazione familiare, in attività più minute eccedenti il proprio specifico settore della contabilità e bilancio e delle questioni fiscali. Infatti provvedeva alla compilazione di fogli di presenza e delle buste paga, alla registrazione e protocollo delle fatture, alla imputazione dei dati societari in contabilità. Gestiva altresì i rapporti finanziari con banche e istituti di credito, enti e professionisti, si occupava della cosiddetta finanza agevolata e, a dimostrazione della particolare fiducia di cui godeva, era munito di procura speciale per la rappresentanza della società in giudizio si occupava altresì del controllo degli estratti conto e della contabilizzazione delle operazioni bancarie. Esso ricorrente sosteneva la illegittimità del licenziamento per molteplici ragioni. In primo luogo per nullità dello stesso in quanto determinato da motivo illecito. Chiariva che dopo un lungo periodo di generale armonia familiare, era stato costretto a mettere al corrente la propria sorella di una vicenda personalissima, peraltro già di dominio pubblico, nella quale era coinvolto il di lei marito che aveva indotto essa D.F. a manifestare l'intento di chiedere la separazione personale, incontrando però notevole resistenza da parte del coniuge che avrebbe più volte minacciato la consorte di licenziare il di lei fratello se effettivamente avesse adito il giudice civile per ottenere la separazione. Sta di fatto che la donna si era mostrata irremovibile l'udienza di comparizione, poi rinviata di qualche giorno per motivi formali, era stata fissata alla data del 4 luglio 2001 e 48 ore più tardi al D.F. veniva intimato il licenziamento. Asseriva il ricorrente che, ad onta della motivazione comunicatagli, il reale motivo del provvedimento andava ricercato nella volontà ritorsiva del datore di lavoro che lo riteneva responsabile della non voluta separazione dalla moglie. Eccepiva altresì il ricorrente l'assenza di giustificato motivo atteso che da un canto non corrispondeva al vero la asserita riorganizzazione aziendale posta a fondamento della soppressione della sua figura professionale, giacché nessuna altra modifica era stata apportata alla struttura aziendale, di guisa che la sua posizione non poteva considerarsi in esubero in quanto proprio nella lettera di licenziamento si affermava che i compiti direttivi svolti da esso ricorrente erano stati assunti dallo stesso amministratore unico. Quanto alla attribuzione a professionisti esterni delle questioni concernenti le problematiche di ordine fiscale, di gestione del personale e di relazioni industriali, tale provvedimento, contrariamente a quanto affermato nella lettera di licenziamento, non era finalizzato al contenimento dei costi atteso che i compensi erogati ai tre professionisti erano, sommati tra loro, di gran lunga superiori allo stipendio percepito da esso ricorrente, addirittura inferiore al compenso mensile di uno solo dei tre consulenti, né poteva ritenersi espressione dell'asserita esigenza riorganizzativa atteso che tali collaborazioni esterne risalivano al gennaio 2001 e quindi a molti mesi prima del licenziamento. Concludeva pertanto il ricorrente chiedendo dichiararsi il licenziamento nullo per illiceità del motivo reale e per carenza del requisito del giustificato motivo oggettivo e chiedendo altresì la tutela prevista dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori. Sotto il profilo istruttorio chiedeva ammettersi interrogatorio formale di controparte e prova per testi sulle circostanze dedotte in ricorso. 2. Si costituiva la Nuova Villa Romanazzi Carducci s.p.a. e resisteva al ricorso contestandone tutti i passaggi e chiedendone il rigetto. Escludeva che il ricorrente avesse svolto qualsivoglia attività nelle complesse operazioni di ingegneria finanziaria dedotte in ricorso che sarebbero state invece curate personalmente dall'ingegner Ranieri e affermava che le mansioni svolte erano esattamente quelle corrispondenti al suo inquadramento di impiegato amministrativo. Aggiungeva la resistente che non vi era alcuna possibilità di collocare diversamente il ricorrente nell'ambito dell'azienda rifacendosi alla giurisprudenza, ormai dominante, secondo la quale è pur vero che la prova di tale impossibilità incombe sul datore di lavoro, ma il lavoratore ha pur sempre l'onere di indicare, sia pure in via di larga approssimazione, le differenti collocazioni possibili in caso contrario l'onere probatorio a carico del datore di lavoro si rivelerebbe diabolico e impossibile da adempiere. A conferma delle proprie tesi la resistente offriva in visione i propri libri paga e matricola dai quali era possibile rilevare che nessun impiegato amministrativo era stato assunto dopo il licenziamento del D.F. il quale ultimo, in quanto laureato in economia e commercio, non sarebbe stato certamente collocabile in mansioni ad esempio di portierato o di dattilografia. Insisteva la resistente circa la reale sussistenza di ristrutturazione organizzativa nell'ambito della quale collocare anche l'affidamento a professionisti esterni di delicati settori di consulenza, operazione conveniente sia sul piano qualitativo per il più elevato spessore di tali professionisti, sia sul piano economico poiché il compenso a costoro corrisposto era in realtà inferiore a quanto percepito dal ricorrente considerando nel costo di quest'ultimo gli oneri contributivi e previdenziali. Anche la resistente chiedeva interrogatorio formale di controparte e prova per testi sulle circostanze dedotte in comparsa di risposta. 3. All'esito dell'istruttoria il tribunale di Bari, con sentenza emessa il 2 dicembre 2004, rigettava la domanda e compensava le spese di lite. Il primo giudice ha ritenuto non provata la dedotta ragione ritorsiva come causa unica del licenziamento, mentre ha ritenuto sufficientemente provata dalla resistente la riorganizzazione aziendale legittimante la soppressione del posto di lavoro del ricorrente. 4. Avverso tale pronuncia proponeva appello il D.F. con ricorso depositato il 16 dicembre 2005 chiedendone la riforma mentre la Nuova Villa Romanazzi Carducci s.p.a., nuovamente costituitasi, ne invocava la conferma. La corte d'appello di Bari con sentenza del 12 dicembre 2006-31 maggio 2007 rigettava l'appello e confermava la pronuncia di primo grado, compensando tra le parti le spese del grado di giudizio. 5. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l'originario ricorrente con due motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione Il ricorso è articolato in due motivi. 1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1345, 1418, 2697, 2729 c.c. e art. 116 c.p.c. nonché vizio di motivazione. Sostiene che i giudici di merito non abbiano considerato gli elementi gravi, precisi e concordanti, emergenti dalle risultanze processuali, che confermavano l'inesistenza o la pretestuosità delle ragioni del licenziamento impugnato, che quindi doveva ritenersi ritorsivo. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, nonché vizio di motivazione. Sostiene il ricorrente che le mansioni da ultimo svolte erano sintomatiche del carattere ritorsivo del licenziamento e della mancanza delle ragioni indicate dalla società come giustificative del recesso. 2. Il ricorso - i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente - è infondato. Il ricorrente esprime un mero dissenso valutativo delle risultanze di causa e invoca, nella sostanza, un diverso apprezzamento di merito delle stesse. La denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte v., per tutte, Cass. S.U. n. 13045 del 1997 e più recentemente Cass. n. 21680 del 2008 - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logicogiuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità dall'art. 360 c.p.c., n. 5 - non equivale alla revisione del ragionamento decisorio , ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. 3. Nella specie, non ravvisandosi nell'iter argomentativo del Giudice d'appello violazioni di legge ed incongruenze o deficienze motivazionali, il motivo deve essere disatteso. La Corte d'appello ha preso in considerazione la doglianza secondo la quale il licenziamento sarebbe stato nullo per illiceità del reale motivo che lo avrebbe determinato e cioè per la volontà ritorsiva del Ranieri che aveva dovuto subire la separazione personale dalla moglie, da costui non voluta, per essere la consorte stata informata dal fratello, odierno ricorrente, di intime vicende di esso Ranieri peraltro, secondo il Di Ponza, già di dominio pubblico. Ha però osservato che non esisteva un solo concreto elemento in atti che valesse quale supporto probatorio dell'allegato motivo ritorsivo, salva la mera sequenza temporale del licenziamento intimato poco dopo un'udienza della causa civile di separazione tra i coniugi elemento questo insufficiente a provare il motivo ritorsivo. Inoltre la Corte territoriale - quanto al giustificato motivo oggettivo allegato dalla società datrice di lavoro a fondamento del recesso - ha osservato che le mansioni espletate dal D.F. risultavano effettivamente essere state affidate non già ad altri dipendenti bensì a professionisti esterni. Ha correttamente considerato la Corte d'appello che il trasferimento all'esterno di una serie di attività aziendali rientrasse nella fattispecie della riorganizzazione aziendale rimessa alle decisioni dell'imprenditore. In proposito deve considerarsi che la soppressione di posti di lavoro è giustificata quando l'imprenditore persegue con essa una effettiva scelta di riorganizzazione aziendale piuttosto che una mera contrazione del costo del lavoro. In proposito può ribadirsi quanto già affermato da questa Corte Cass., sez. lav., 14 maggio 2012, n. 7474, secondo cui in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice - che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'effettività delle ragioni che giustificano l'operazione di riassetto. 4. Il ricorso va quindi rigettato. Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 50 per esborsi oltre Euro 3.000,00 tremila per compensi d'avvocato ed oltre accessori di legge.