Dirigente messo alla porta: punta alla reintegrazione, ma deve dimostrare la discriminazione

Legittima la scelta dei giudici di considerare, automaticamente, la richiesta di reintegrazione come domanda di accertamento della natura discriminatoria del recesso messo in atto dall’azienda dopo due anni di lavoro. E viste le mancanze di prove a sostegno della discriminazione, le richieste del lavoratore si rivelano assolutamente inutili.

Dirigente messo alla porta dall’azienda. Inevitabile lo scontro in un’aula di giustizia. Ma il percorso scelto dal dipendente, e finalizzato a riconquistare il posto di lavoro, è poco chiaro da un lato la reintegrazione, dall’altro lato l’ipotesi del licenziamento discriminatorio Ma proprio quest’ultimo punto è valutato come prioritario dai giudici, i quali, nonostante le contestazioni mosse dal lavoratore, sanciscono la legittimità del licenziamento, alla luce della carenza di elementi concreti a sostegno della ipotesi della discriminazione Cassazione, sentenza numero 215, sez. Lavoro, depositata oggi . A casa. Assunzione a inizio 2006, come «dirigente», ma il rapporto di lavoro non è a lieto fine Difatti, a settembre 2008 il dipendente viene «licenziato» per «i fatti contestati» in una lettera dell’agosto 2008. Scontata la reazione del lavoratore, il quale contesta la decisione dell’azienda, sostenendo la «illegittimità del licenziamento» e chiedendo la «reintegrazione» e il «risarcimento di tutti i danni subiti». Negativa la risposta dei giudici di merito. In Tribunale, innanzitutto, viene affermato che il lavoratore, in «qualità di dirigente», aveva «proposto una domanda di reintegrazione, intesa come richiesta di accertamento della natura discriminatoria del recesso» da parte dell’azienda, «natura discriminatoria che sola avrebbe potuto costituire il presupposto, previa declaratoria di nullità del licenziamento, per l’affermazione dell’obbligo di ripristino del rapporto di lavoro e di corresponsione di tutte le retribuzioni maturate». Di conseguenza, poiché il lavoratore non ha messo sul tavolo alcun elemento a sostegno della «natura discriminatoria del licenziamento», è inutile la richiesta di «reintegrazione» e di «risarcimento». E tale visione è condivisa, poi, anche in Appello, laddove viene chiarito che «pur mantenendosi la stessa causa petendi illegittimità del licenziamento , diverso era il petitum, proprio in relazione alla qualifica di dirigente licenziato, comportante», secondo i giudici, «un diverso apparato sanzionatorio, modulabile, da un punto di vista quantitativo, in base all’esercizio della discrezionalità del giudice». Licenziamento. Secondo il lavoratore, però, è evidente l’errore compiuto dai giudici di merito. In sostanza, l’uomo, col ricorso in Cassazione, sostiene che «in modo arbitrario» è stata qualificata la sua «domanda originaria» come «intesa ad ottenere l’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento», mentre essa era finalizzata a evidenziare «circostanze tendenti a dimostrare, semplicemente, l’illegittimità del licenziamento». Ma anche nell’ultimo round della battaglia giudiziaria il lavoratore è costretto a soccombere Per i giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, «il giudice ha il potere di riqualificare la domanda, dando al rapporto dedotto in giudizio un nomen iuris anche in difformità rispetto alla prospettazione formulata dalle parti, purché lasci inalterati il petitum e la causa petendi azionati, non attribuisca quindi un bene diverso e non introduca nuovi elementi di fatto». Ebbene, in questa ottica, il percorso logico seguito dai giudici di merito è assolutamente chiaro e lineare la domanda del dirigente non poteva che essere catalogata come «richiesta di accertamento della natura discriminatoria del recesso», «natura discriminatoria» assolutamente non sussistente, «non essendo state allegate e provate le relative ragioni». Tutto ciò conduce, in chiusura, alla conferma della «legittimità» del licenziamento. Respinta definitivamente, quindi, la richiesta del lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 novembre 2014 – 12 gennaio 2015, numero 215 Presidente Roselli – Relatore De Renzis Svolgimento del processo I. Con ricorso, ritualmente notificato, C.R. esponeva di essere stato assunto dalla CEVA LOGISTICI ITALIA S.r.l. il 20.02.06 ed inquadrato come dirigente e di essere stato licenziato il 9.09.2008 per i fatti contestat nella lettera del 7.08.2008. Ciò premesso, conveniva l'anzidetta società per sentir acccertare l'illegittimità del licenziamento, con tutte le conseguenti statuizioni in ordine alla sua reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento di tutti i danni subiti. Con sentenza numero 10081 del 13.04.2010 il Tribunale di Pinerolo rigettava il ricorso, ritenendo che il R., nella sua qualità di dirigente, avesse proposto una domanda di reintegrazione, che non poteva che essere intesa come richiesta di accertamento della natura discriminatoria del recesso da parte della datrice di lavoro, che sola avrebbe potuto costituire il presupposto - previa declaratoria di nullità del licenziamento - per l'affermazione dell'obbligo di ripristino del rapporto di lavoro e di corresponsione di tutte le retribuzioni maturate. Ciò posto, il Tribunale precisava che, siccome nessuna delle deduzioni del ricorrente deponeva nel senso della natura discriminatoria dell'impugnato licenziamento, la domanda doveva essere disattesa, così come infondata era la richiesta volta ad ottenere il risarcimento per gli ulteriori danni rivendicati, in assenza di specifiche allegazioni. II. Tale decisione, impugnata dal R., è stata confermata dalla Corte di Appello di Torino con sentenza numero 280 del 2011, la quale ha ribadito che le domande originariamente formulate in relazione alla dedotta illegittimità del licenziamento non potevano trovare accoglimento in relazione alla qualità soggettiva del lavoratore e del regime giuridico conseguente all'annullamento del recesso della datrice di lavoro, pena la violazione, da parte dei primo giudice, del principio di cui all'articolo 112 CPC., che impone la corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In sostanza nel caso di specie, ad avviso del giudice di appello, pur mantenendosi la stessa causa petendi illegittimità del licenziamento , diverso era il petitum, proprio in relazione alla qualifica di dirigente licenziato, comportante un diverso apparato sanzionatorio, modulabile da un punto di vista quantitativo in base all'esercizio della discrezionalità dei giudice, che comunque deve muoversi nell'ambito delle specifiche deduzioni delle parti a proposito degli elementi sulla scorta dei quali giungere alla liquidazione della pretesa indennità. III. Il R. ricorre per cassazione con due motivi. La società resiste con controricorso. Motivi della decisione 1. In via preliminare va preso atto che l'Avv. C.N., difensore della controricorrente Ceva Logistics Italia S.r.l., ha depositato - in data 24.05.2013 - rinuncia al mandato a lui conferito da detta società. Va rilevato al riguardo che detta rinuncia non ha effetto - ex articolo 85 CPC - nei confronti dell'altra parte, non risultando documentata la sostituzione del difensore. 2. Con il primo motivo il R. lamenta violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 CPC, sostenendo che i giudici di merito in modo arbitrario hanno qualificato la domanda originaria come intesa ad ottenere l'accertamento della natura discriminatoria dell'impugnato licenziamento ed in tal modo d'ufficio hanno sostituito una diversa azione a quella formalmente proposta, con cui si evidenziavano circostanze tendenti a dimostrare semplicemente l'illegittimità dello stesso licenziamento. Il motivo è infondato. Secondo consolidata giurisprudenza il giudice ha il potere di riqualificare la domanda dando al rapporto dedotto in giudizio un nomen iuris anche in difformità rispetto alla prospettazione formulata dalle parti, purché lasci inalterati il petitum e la causa petendi azionati, non attribuisca quindi un bene diverso e non introduca nel tema controverso nuovi elementi di fatto cfr Cass. numero 10922 del 2005 Cass. numero 15925 del 2007 Cass. numero 13945 del 2012 . Orbene in questo solco si è mossa la Corte territoriale, che ha dato ha dato ampia contezza e giustificazione della decisione assunta di conferma di quella di primo grado, il quale, come già detto in precedenza, aveva ritenuto non sussistente una ipotesi di discriminazione nel ricorso introduttivo, non essendo state allegate e provate le relative ragioni. 3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell'articolo 345 CPC, contestando alla sentenza impugnata di non avere rilevato l'inammissibilità della modificazione della domanda in appello riguardante sia la causa petendi sia il petitum. Anche questo motivo non coglie nel segno e non merita di essere condiviso, dal momento che la sentenza impugnata pagine 10 e 11 ha posto in evidenza come l'appellante proprio in sede di gravame pretende di sostituire al petitum, avente ad oggetto la reintegrazione nel posto di lavoro e le retribuzioni perse, quello corrispondente alle indennità di legge e di contratto preavviso e supplementare spettanti al dirigente in caso di ritenuta illegittimità del recesso. Trattasi di statuizione immune da vizi logico e giuridici e quindi meritevole di conferma. 4. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 2.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.