Nessuna sanzione al privato che, a seguito del bando indetto dal Comune, si aggiudica la gestione di una caffetteria ed inizia immediatamente l'attività su sollecito dell'Ente, pur non avendo ancora materialmente richiesto né ottenuto l'autorizzazione. Ciò in quanto legittimamente nello stesso può essere maturato il convincimento che con il verbale di consegna della struttura, implicitamente, non servivano più ulteriori adempimenti burocratici.
E’ quanto deciso dal Consiglio di Stato con la sentenza numero 2457/14, depositata il 13 maggio scorso. L'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande è disciplinata dalla legge numero 287/1991, successivamente sostanzialmente modificata dal d.lgs. numero 59/2010 con il quale è stata recepita la direttiva comunitaria Servizi 2006/123/CE. Con le più recenti modifiche, al previgente sistema autorizzatorio, è stata sostituita la SCIA, segnalazione certificata di inizio attività, ex articolo 19, legge numero 241/1990. Nel senso che l'esercizio legittimo dell'attività è consentito a coloro i quali dimostrano di possedere i requisiti morali e professionali prescritti, oltre alla dimostrazione che i locali interessati sono a norma per quanto riguarda gli aspetti edilizi, urbanistici ed in materia di sicurezza sul lavoro. Unica eccezione alla liberalizzazione disposta dal legislatore, l'apertura di esercizi pubblici all'interno delle aree che il Comune ha deciso di tutelare perché di particolare interesse storico, architettonico e per altre particolari motivazioni legate ai cosiddetti motivi imperativi di interesse pubblico, così come individuati dall'articolo 8 del sopraindicato d.lgs. numero 59/2010. La sentenza numero 2457/2014 del Consiglio di Stato pone, in questo nuovo quadro giuridico, alcuni interessanti elementi di novità non soltanto perché viene chiamato in causa il principio di affidamento del privato, e allo stesso assegnato maggior peso rispetto la rigida e formale osservanza della legge, ma anche sopratutto perché consente una intrigante lettura delle più recenti disposizioni in materia di semplificazione amministrativa che dovrebbe indurre la PA ad una maggior attenzione alla sostanza piuttosto che alla forma. Il fatto. Ai fini della partecipazione ad una gara per l’affidamento della gestione del servizio di caffetteria presso il Belvedere sito in un Comune, l'impresa che, successivamente, era stata ritenuta aggiudicataria della gara stessa, aveva dichiarato e documentato il possesso dei requisiti di capacità economica e tecnica prescritti dal capitolato, tra i quali quello dell’essere «in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione». Ed era stata giudicata dal Comune effettivamente in possesso di tali requisiti, tanto da risultare aggiudicataria. Dopo l’aggiudicazione della concessione, e nelle more della stipula del relativo contratto, l’Amministrazione comunale ed il legale rappresentante della società, sottoscrivevano un processo verbale di consegna dei locali interessati vistato dal dirigente responsabile del procedimento di gara . Tanto sull’impulso dell’esigenza «urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale Belvedere di S. Leucio», e sulla premessa che «l’aggiudicataria del servizio si è dichiarata disponibile ad iniziare l’attività di gestione». La gestione del servizio da parte della ricorrente prendeva dunque avvio dalla data del citato verbale. E mai sarebbe stata contestata alla società la carenza dell’autorizzazione amministrativa prima dell’adozione degli atti impugnati, sopraggiunti solo ad oltre due anni di distanza. I controlli della Polizia locale ed il punto di vista del Comune. Sulla base di questi elementi il Giudice di primo grado, aveva ritenuto che il Comune, affidando concretamente all’aggiudicataria i locali del servizio di caffetteria, dopo aver preteso in occasione della gara che i concorrenti si dimostrassero «in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione», avesse con ciò accordato implicitamente alla società anche l’autorizzazione amministrativa all’esercizio della caffetteria, titolo del quale anni dopo aveva invece contestato la carenza. Questa interpretazione del Tar non è stata condivisa dall'Ente interessato, il quale ha negato che un’autorizzazione fosse stata a suo tempo implicitamente conferita. In pratica, l’Amministrazione ha messo in discussione l’esistenza del necessario collegamento biunivoco ed esclusivo che sarebbe dovuto esistere tra il controverso atto implicito ed il suo atto presupponente, e che avrebbe dovuto configurare il primo come conseguenza necessitata del secondo. A tale proposito, il Comune interessato, ha rilevato che il bando della gara a monte stabiliva espressamente che «l’aggiudicatario gestirà la caffetteria munendosi di tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., ed osservando le prescrizioni di legge» e, analogamente, disponeva che «al fine di esercitare il servizio di gestione della caffetteria il concessionario avrà l’onere di acquisire le autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento delle attività previste nella concessione». Prescrizioni che non avrebbero permesso di ravvisare nella condotta tenuta dall’Amministrazione l’implicito conferimento di un’autorizzazione. La sostanza. Ma il Collegio ha respinto tali considerazioni, con ciò condividendo la motivazione della sentenza del Giudice di primo grado. Se è vero, infatti, ha affermato, che la lex specialis della procedura a monte indubbiamente richiamava i concorrenti alla necessità di possedere tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., e di osservare le prescrizioni di legge, attinenti alle attività previste nella concessione, è altrettanto vero, tuttavia, che le concorrenti erano state richieste dalla stessa legge di gara di dimostrare di essere già in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio, e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione. Requisiti la cui titolarità da parte della ditta aggiudicataria avrebbe potuto reputarsi quindi già accertata. Pur tenendosi conto, pertanto, degli elementi che l’appello comunale ha segnalato, i contenuti della lex specialis non cessano di delineare un quadro complessivo che si è presentato, come minimo, equivoco ed ingannatorio per il privato. Laddove del tutto univoco è poi il comportamento successivo tenuto dall’Amministrazione, che, come si è detto, nelle more della stipula del contratto aveva preso l’iniziativa di addivenire senz’altro, poco dopo, alla consegna dei locali, in nome dell’esigenza “urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale” del Belvedere, sì da determinare l’immediato avvio dell’attività di somministrazione. E poiché, come la stessa Amministrazione aveva convenuto, ai relativi fini occorreva che la società fosse munita anche dell’autorizzazione comunale alla somministrazione ai sensi della legge numero 287/1991, non può non ritenersi implicito nella condotta complessiva del Comune, debitamente interpretata secondo buona fede, anche il conferimento del relativo titolo del quale erano stati del resto già accertati i requisiti , come condivisibilmente deciso dal T.A.R Il Collegio ha infine affermato che, nel caso in questione, non considerato dal Tar c'è stata violazione del legittimo affidamento che la vicenda nel suo insieme occorsa aveva consolidato nel privato. A tale proposito, ha osservato, infatti, l’attività della ricorrente, avviata subito dopo la redazione del verbale più volte menzionato, suggellante il comportamento concludente dell’Amministrazione, si era dipanata lungo l’arco di più di due anni durante i quali erano esistiti continui rapporti tra le parti, senza che l’Ente segnalasse mai la necessità, da parte della società, di qualsivoglia ulteriore autorizzazione, assenso o segnalazione.
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 1° aprile – 13 maggio 2014, numero 2457 Presidente Torsello – Estensore Gaviano Fatto e diritto La soc. coop. a r. l. Angelica Real Sito, concessionaria del servizio di caffetteria presso il Belvedere di San Leucio CE , a seguito di procedura di gara indetta dal Comune di Caserta e sfociata in un verbale di aggiudicazione del 24.8.2009, impugnava con ricorso al T.A.R. per la Campania il provvedimento del Dirigente del Settore attività produttive del predetto Ente numero 12415 del 16.2.2012, con il quale era stata ordinata la cessazione immediata dell'attività di pubblico esercizio di somministrazione di bevande da essa gestita. Contestualmente, veniva gravato anche il prodromico verbale di accertamento del 7.2.2012 con il quale la locale Polizia municipale le aveva contestato l’esercizio della somministrazione di bevande presso il detto complesso senza la prescritta autorizzazione comunale, in violazione dell’articolo 3 della legge numero 287/1991. La ricorrente spiegava altresì una domanda di risarcimento dei danni sofferti in ragione della disposta cessazione dell’attività. Resisteva all’impugnativa il Comune di Caserta. Il Tribunale adìto accoglieva la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati con ordinanza cautelare dell’8.6.2012. Poco dopo, con verbale di accertamento della Polizia municipale del 20.7.2012, veniva nuovamente contestato alla ricorrente l’esercizio senza titolo dell’attività di somministrazione in controversia, da essa ripresa in forza della predetta ordinanza cautelare, irrogandole una sanzione amministrativa di € 5.000 e questo malgrado l’esercente avesse esibito quale proprio titolo legittimante una copia della stessa ordinanza . Il legale della ricorrente diffidava indi il Comune dall’intraprendere ulteriori azioni interdittive in contrasto con l’indicata pronuncia cautelare. Il Tribunale adìto, all’esito, con la sentenza numero 2227/2013 in epigrafe, accoglieva il ricorso, annullando i provvedimenti impugnati. Ciò sul rilievo di fondo che il Comune, affidando a suo tempo all’aggiudicataria, con verbale del 28 ottobre 2009, i locali del servizio di caffetteria per cui è causa, e questo dopo aver preteso in sede di gara che i concorrenti si dimostrassero “in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione”, aveva compiuto così un atto integrante un equipollente della formale autorizzazione amministrativa all’esercizio della caffetteria, titolo del quale anni dopo, con gli atti impugnati, contraddittoriamente aveva perciò contestato la carenza. Anche la domanda risarcitoria della ricorrente trovava accoglimento. La società aveva denunziato che la condotta tenuta dall’Ente mediante l’impugnata ordinanza di cessazione dell’attività, come pure il suo comportamento successivo all’ordinanza cautelare numero 814/2012, parimenti lesivo, le avevano arrecato rilevanti danni economici, impedendole di svolgere per un intero anno l’attività per cui è causa. E per tale ragione l’Amministrazione veniva condannata alla corresponsione alla società, a titolo di risarcimento dei danni, della somma di € 32.357,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal 7.2.2012 all’effettivo soddisfo. Ne seguiva la proposizione del presente appello alla Sezione ad opera del Comune soccombente, che contestava gli argomenti fondanti la decisione del Giudice locale tanto nella parte di accoglimento dell’avversa domanda impugnatoria quanto rispetto a quella risarcitoria. L’originaria ricorrente si costituiva in giudizio in resistenza all’appello difendendo la correttezza della pronuncia del T.A.R. e controdeducendo alle censure dell’Ente appellante venivano inoltre riproposti i motivi del ricorso di prime cure finiti assorbiti. La Sezione, con ordinanza del 12-13 novembre 2013, accoglieva la domanda cautelare proposta dal Comune. Con successiva memoria l’appellata ribadiva e sviluppava ulteriormente le proprie obiezioni ai rilievi dell’Amministrazione. Alla pubblica udienza del 1° aprile 2014 la causa è stata trattenuta in decisione. L’appello è fondato solo per quanto attiene alla misura del risarcimento dovuto dall’Ente appellante. 1 Per una più lineare esposizione della materia del contendere è utile richiamare preliminarmente le principali precisazioni operate in punto di fatto dal primo Giudice, rimaste ex adverso incontestate. 1a Ai fini della partecipazione alla gara per l’affidamento della gestione del servizio di caffetteria presso il Belvedere la ricorrente era stata richiesta di dichiarare e documentare il possesso dei requisiti di capacità economica e tecnica prescritti dal capitolato, tra i quali quello dell’essere “in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione” capitolato, Sez. III, punto III.2.3. . Ed era stata giudicata dal Comune effettivamente in possesso di tali requisiti, tanto da risultare aggiudicataria. 1b Dopo l’aggiudicazione della concessione, e nelle more della stipula del relativo contratto, l’Amministrazione comunale ed il legale rappresentante della società, in data 28.10.2009, sottoscrivevano un processo verbale di consegna dei locali interessati vistato dal dirigente responsabile del procedimento di gara . Tanto sull’impulso dell’esigenza “urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale Belvedere di S. Leucio”, e sulla premessa che “l’aggiudicataria del servizio si è dichiarata disponibile ad iniziare l’attività di gestione”. La gestione del servizio da parte della ricorrente prendeva dunque avvio dalla data del citato verbale. E mai sarebbe stata contestata alla società la carenza dell’autorizzazione amministrativa prima dell’adozione degli atti impugnati, sopraggiunti solo ad oltre due anni di distanza. 1c Sulla base di questi elementi il T.A.R. ha ritenuto, come si è anticipato, che il Comune, affidando concretamente all’aggiudicataria i locali del servizio di caffetteria, dopo aver preteso in occasione della gara che i concorrenti si dimostrassero “in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione”, avesse con ciò accordato implicitamente alla società anche l’autorizzazione amministrativa all’esercizio della caffetteria, titolo del quale anni dopo aveva invece contestato la carenza. 2a Con il presente appello il Comune nega che un’autorizzazione fosse stata a suo tempo implicitamente conferita. L’Amministrazione mette in discussione l’esistenza del necessario collegamento biunivoco ed esclusivo che sarebbe dovuto esistere tra il controverso atto implicito ed il suo atto presupponente, e che avrebbe dovuto configurare il primo come conseguenza necessitata del secondo. All’uopo viene fatto notare che il bando della gara a monte stabiliva espressamente, all’articolo 2, lett. I, che “l’aggiudicatario gestirà la caffetteria munendosi di tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., ed osservando le prescrizioni di legge” e che l’articolo 8, analogamente, disponeva che “al fine di esercitare il servizio di gestione della caffetteria il concessionario avrà l’onere di acquisire le autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento delle attività previste nella concessione.” Prescrizioni che non avrebbero permesso di ravvisare nella condotta tenuta dall’Amministrazione l’implicito conferimento di un’autorizzazione. 2b La Sezione, sul punto, non può però non aderire all’avviso del primo Giudice. Se è vero, infatti, che la lex specialis della procedura a monte indubbiamente richiamava i concorrenti alla necessità di possedere tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., e di osservare le prescrizioni di legge, attinenti alle attività previste nella concessione, è altrettanto vero, tuttavia, che le concorrenti erano state richieste dalla stessa legge di gara di dimostrare di essere già in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio, e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione. Requisiti la cui titolarità da parte della ditta aggiudicataria avrebbe potuto reputarsi quindi già accertata. Pur tenendosi conto, pertanto, degli elementi che l’appello comunale ha segnalato, i contenuti della lex specialis non cessano di delineare un quadro complessivo che sotto il profilo in rilievo si presenta, come minimo, equivoco ed ingannatorio per il privato. Laddove del tutto univoco è poi il comportamento successivo tenuto dall’Amministrazione, che, come si è detto, nelle more della stipula del contratto con l’attuale appellata ha preso l’iniziativa di addivenire senz’altro, il 28.10.2009, alla consegna dei locali, in nome dell’esigenza “urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale” del Belvedere, sì da determinare l’immediato avvio dell’attività di somministrazione. E poiché, come la stessa Amministrazione conviene, ai relativi fini occorreva che la società fosse munita anche dell’autorizzazione comunale alla somministrazione ai sensi della legge numero 287/1991, non può non ritenersi implicito nella condotta complessiva del Comune, debitamente interpretata secondo buona fede, anche il conferimento del relativo titolo del quale erano stati del resto già accertati i requisiti , come condivisibilmente deciso dal T.A.R 2c Le doglianze dell’originaria ricorrente risultano fondate anche sotto un ulteriore e pur complementare profilo, assorbito dal Tribunale ma in questa sede riproposto quello della violazione del legittimo affidamento che la vicenda nel suo insieme occorsa aveva consolidato nel privato. A quanto testé esposto deve infatti aggiungersi, da questa angolazione, che l’attività della ricorrente, avviata subito dopo la redazione del verbale più volte menzionato, suggellante il comportamento concludente dell’Amministrazione, si era indi dipanata lungo l’arco di più di due anni durante i quali erano esistiti continui rapporti tra le parti, senza che l’Ente segnalasse mai la necessità, da parte della società, di qualsivoglia ulteriore autorizzazione, assenso o segnalazione. 2d Le ragioni fin qui esposte esigono, pertanto, la conferma dell’accoglimento del ricorso di prime cure nella sua componente impugnatoria. 3 Occorre ora procedere all’esame delle contestazioni che il corrente appello muove al capo della pronuncia in epigrafe recante la condanna del Comune al risarcimento del danno. 3a L’appellante si richiama all’acquisizione giurisprudenziale secondo la quale non esiste un’automatica correlazione tra accertamento dell’illegittimità di un provvedimento amministrativo ed insorgenza del diritto al risarcimento, occorrendo per questo secondo, da un lato, la concorrenza dei presupposti indicati dall’articolo 2043 cod.civ., e dall’altro una valutazione della specifica natura della causa di illegittimità riscontrata e della sua incidenza sulla spettanza all’amministrato del relativo c.d. bene della vita. A quest’ultimo riguardo viene precisato che l’accertamento del vizio dell’eccesso di potere non comporta normalmente un esaurimento della potestà dell’Amministrazione, la quale può quindi ben rinnovare il proprio procedimento onde l’annullamento di un suo atto per tale vizio non implicherebbe un accertamento della spettanza all’interessato dello specifico vantaggio da questi perseguito. Osserva il Collegio, tuttavia, che il Giudice di prime cure ha svolto una puntuale motivazione in merito all’esistenza delle condizioni per l’insorgenza della contestata obbligazione risarcitoria cfr. le pagg. 12-18 della pronuncia . Il Tribunale ha posto in evidenza, in particolare, che nella vicenda era emersa in modo chiaro -in pratica, con i connotati del dolo intenzionale la consapevole volontà del Comune di impedire alla ricorrente l’esercizio dell’attività per cui è causa questo vieppiù per il periodo successivo all’ordinanza cautelare concessa alla società l’8.6.2012, ma dall’Amministrazione tenuta in non cale . E che la società per tale via era stata illegittimamente incisa nel proprio diritto di esercitare il servizio di caffetteria presso il Belvedere. Va poi rammentato che i provvedimenti impugnati, all’esito del corretto scrutinio condotto dal T.A.R., erano risultati affetti, oltre che da contraddittorietà e sviamento, anche e soprattutto da carenza dei presupposti, con la conseguenza che la relativa azione interdittiva del Comune risultava avere illegittimamente sacrificato il diritto in godimento del privato procurandogli un vero e proprio danno ingiusto. Infine, non risulta controvertibile l’esistenza del nesso di causalità tra gli stessi atti impugnati ed il danno così generato all’appellata, la cui perdita economica da forzata inattività integra una diretta conseguenza della preclusione illegittimamente impostale. Per quanto precede, la Sezione deve confermare la sentenza di primo grado anche in ordine all’esistenza delle condizioni per la condanna del Comune di Caserta al risarcimento dei danni. 3b Rimane da intrattenersi sulla misura del danno che l’Amministrazione deve essere chiamata a risarcire alla società ed è sotto questo aspetto che, come si è anticipato, l’appello è suscettibile di un parziale accoglimento. 3c Il percorso logico del Tribunale è stato, sul piano in esame, il seguente. Il T.A.R. è partito dalla considerazione che l’Amministrazione aveva arrecato rilevanti danni economici alla società, impedendole di svolgere per un intero anno l’attività per cui è causa. Ha indi osservato che la ricorrente, al fine di quantificare i propri mancati incassi nel periodo in rilievo, aveva prodotto una dichiarazione del proprio legale rappresentante, corredata da un prospetto delle pertinenti fatture, relativamente ai tre esercizi antecedenti, dalla quale si desumeva che negli anni 2009 – 2011 la società aveva conseguito incassi per il servizio caffetteria pari ad € 81.044,73, ed incassi dal servizio banqueting parimenti compreso nell’oggetto della gara aggiudicatale per un importo di € 113.099,62, per un totale di € 194.144,35 che tale complessivo ammontare, diviso per i tre anni di riferimento, conduceva ad individuare un incasso medio annuo pari ad € 64.714 che secondo la società tale importo avrebbe rappresentato la perdita economica da essa subita per l’illegittima inibizione dello svolgimento della sua attività per un anno che, sempre secondo l’attuale appellata, il suo danno sarebbe coinciso con i suoi mancati incassi, poiché essa aveva dovuto comunque corrispondere la retribuzione ai dipendenti ed affrontare le ulteriori spese di gestione anche nel periodo interessato che la ricorrente non aveva però offerto in proposito alcun principio di prova “quale ad esempio un prospetto di buste paga raffiguranti lo stipendio comunque erogato ai dipendenti” donde la necessità di applicare per la quantificazione del danno un criterio equitativo, che conduceva alla conclusione del riconoscimento, a titolo di ristoro dei danni subiti, di una somma pari al 50% dei predetti mancati incassi, vale a dire dell’importo di € 32.357,00. 3d Al cospetto di questo iter logico l’appellante oppone, in sostanza, che il primo Giudice avrebbe quantificato il pregiudizio sofferto dall’appellata sulla base di presunzioni semplici senza, però, aver fornito una giustificazione logica del ricorso da esso fatto a tale mezzo, e, soprattutto, senza che l’apprezzamento del T.A.R. risultasse assistito dai requisiti legali di gravità, precisione e concordanza. 3e La Sezione ritiene che siffatte deduzioni giustifichino effettivamente una revisione al ribasso della liquidazione equitativa del danno effettuata in primo grado. Tanto tenuto conto, più precisamente, per un verso, dell’obiettiva modestia degli elementi probatori forniti dalla società per la quantificazione dei propri incassi del triennio precedente soprattutto sul versante delle attività di banqueting per l’altro, della necessità di dedurre dagli incassi, oltre che le spese di personale e gli altri oneri fissi, anche gli oneri per l’acquisto della materia prima che sarebbe stata impiegata per l’erogazione dei servizi. Per la ragione indicata, il danno riconoscibile deve essere equitativamente ridotto alla soglia di ventimila euro di sorte capitale, cui dovranno aggiungersi interessi legali e rivalutazione monetaria con le modalità già fissate dalla sentenza in epigrafe. 4 In conclusione, con la rettifica relativa alla misura del risarcimento dovuto tra le parti, la sentenza oggetto d’appello deve trovare conferma. Le spese del giudizio, tenuto conto dell’esito di questo grado, sono liquidate dal seguente dispositivo secondo la soccombenza nella misura del 50 % a carico del Comune, e compensate per la metà residua. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta , definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe, lo accoglie con esclusivo riguardo alla misura del risarcimento dovuto dall’Ente appellante, rideterminata come da motivazione respinge l’appello sotto ogni altro profilo. Condanna il Comune di Caserta al rimborso all’appellata del 50 % delle spese processuali del presente grado, liquidate in euro duemila oltre gli accessori di legge compensa le spese per il 50 % residuo. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.