Foto osé online del consulente della Regione: legittimi i resoconti giornalistici. A rischio gli equilibri politico-amministrativi...

Evidente l’ironia, anche nei titoli, utilizzata dal giornalista del quotidiano locale che ha affrontato la vicenda relativa alla pubblicazione online di alcune foto in mutande di un consulente regionale. Ma la questione è considerata di rilevante interesse pubblico essa, difatti, è oggetto della interrogazione di un consigliere, e in ballo ci sono gli equilibri politici della giunta regionale e il ruolo dell’opposizione.

Come cambia la società, come cambia la politica Anche il ‘privato’ – reso ‘pubblico’ on line – di un consulente della Regione può diventare argomento da dibattere in Consiglio, e da offrire in pasto ai media. Così, i ‘riflettori’ accesi da un quotidiano locale, e puntati sulle – presunte – preferenze sessuali del consulente, sono assolutamente legittimi evidente, per la giustizia italiana, il collegamento tra una foto in mutande – pubblicata su un social network – e gli equilibri politici della giunta regionale. Cassazione, sentenza n. 46319, Quinta sezione Penale, depositata oggi ‘Grande fratello’. A dare il ‘la’ alla – pruriginosa – vicenda è la pubblicazione, su un social network, delle foto – alcune in mutande – di un consulente della Regione, pubblicazione accompagnata, peraltro, dalla indicazione, sul ‘profilo’ on line, di tendenze sessuali ‘complesse’, comprensive di uomini, donne, coppie, amici, prostitute, gruppi, modelle . A sorpresa – o forse no – lo ‘scandalo’ approda in Consiglio regionale, grazie alla interrogazione presentata da un consigliere dell’opposizione, e viene subito ripresa dal giornalista di un quotidiano locale, che racconta la pubblicazione delle fotografie su internet e riporta la notizia della interrogazione presentata da un consigliere di minoranza, aggiungendo peraltro anche la ricostruzione proposta dal consulente, che presenta quel ‘profilo’ on line come frutto di uno scherzo o di una vendetta trasversale . Ma, ovviamente, a ‘condire’ l’articolo anche una spruzzata di – sana o insana, fate voi – ironia, parlando di consulente osé e di piccanti esigenze in internet Nonostante tutto, però, nonostante le rimostranze del consulente, il giornalista – assieme al direttore della testata – viene assolto, in Corte d’Appello, dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa . Decisivo, secondo i giudici, l’evidente interesse pubblico a conoscere la vicenda, per i potenziali riflessi sull’ operato dell’amministrazione regionale. Pubblico-privato . Ebbene, l’ottica adottata in secondo grado viene ritenuta legittima, in maniera definitiva, e fatta propria anche dai giudici della Cassazione indiscutibile, in sostanza, è l’ interesse pubblico alla divulgazione della notizia , rappresentata dalla interrogazione presentata dal consigliere regionale e dalle ricadute politiche potenziali per la giunta regionale, in conseguenza della polemica avente ad oggetto il comportamento di un suo consulente . Ciò spiega, chiariscono i giudici, l’interesse pubblico per la vicenda , e, quindi, il collegamento fra la pubblicazione, su un social network, delle fotografie in mutande del consulente e gli equilibri politici riguardanti l’operato della giunta e l’atteggiamento critico dell’opposizione . Rispetto a tale quadro, peraltro, viene ritenuto legittimo il ricorso, da parte del giornalista, a una sintesi ironica , richiamando i termini sarcastici dell’interrogazione consiliare. Mentre è da escludere, concludono i giudici, che il giornalista – una volta acclarata la veridicità della pubblicazione delle foto on line – dovesse indagare sull’identità dell’autore effettivo di quella squallida iniziativa , essendosi limitato, correttamente, riportare che il consulente si era immediatamente dichiarato estraneo .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 9 aprile - 20 novembre 2013, n. 46319 Presidente Zecca – Relatore Oldi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 24 giugno 2010 la Corte d'Appello di Trieste, riformando la decisione assunta dal locale Tribunale, ha assolto P.C. e A.S. dalle rispettive imputazioni di diffamazione a mezzo stampa e omesso controllo sulla pubblicazione, in danno di M.C., consulente della Giunta Regionale del Friuli-Venezia Giulia, con la formula perché il fatto non costituisce reato ha conseguentemente rigettato l'appello della parte civile sul quantum dell'obbligazione risarcitoria, ponendo a carico della stessa le spese processuali. 1.1. L'accusa mossa agli imputati si riferiva alla pubblicazione sul quotidiano IL Piccolo - del quale lo S. era direttore responsabile - di due articoli a firma del C. nei quali, riferendo su un'interrogazione presentata al Consiglio Regionale giuliano dal consigliere G.D., si era commentata la vicenda che aveva riguardato la pubblicazione, su un sito Internet appartenente alla categoria del social network, di alcune fotografie che ritraevano il C. in mutande, evidenziando che il profilo registrato al server indicava quali sue esigenze uomini, donne, coppie, amici, prostitute, gruppi, modelle nel primo articolo si avanzava, fin dal titolo, il dubbio che la pubblicazione in Internet fosse il frutto di uno scherzo o dì una vendetta trasversale , dando conto delle dichiarazioni della persona offesa, che aveva negato di essersi iscritta al sito e di aver autorizzato la pubblicazione delle fotografie nel secondo si riferiva delle polemiche seguite all'interrogazione del D., che avevano anche visto l'intervento dell'associazione Arcigay. 1.2. Secondo la Corte d'Appello sussistevano tutte le condizioni per l'applicabilità della scriminante del diritto di cronaca, in quanto gli articoli riportavano notizie vere, sia con riferimento alla pubblicazione delle fotografie sul sito Internet, sia con riferimento alla presentazione dell'interrogazione da parte del consigliere D. la pertinenza all'interesse pubblico sussisteva, non tanto in relazione a un preteso interesse a conoscere la vita privata di M.C., quanto per i riflessi pubblicistici ricollegati all'operato dell'amministrazione in carica e dell'opposizione i limiti della continenza non erano superati, in quanto l'impiego dell'ironia in espressioni come piccanti esigenze in Internet del C. , consulente osé e pose ammiccanti era bilanciato dal risalto giustamente conferito alla versione della persona offesa. 2. Ha proposto ricorso per cassazione la parte civile, affidandolo a due motivi. 2.1. Col primo motivo il ricorrerete contrasta punto per punto i passaggi argomentativi della sentenza volti a giustificare l'applicazione dell'esimente del diritto di cronaca osserva che nella motivazione non è spiegato in che cosa sia consistito il collegamento tra le fotografie pubblicate in Internet e l'operato dell'amministrazione in carica, ovvero le iniziative politiche intraprese o, in generale, l'attività politica sostiene che la ricerca della verità della notizia avrebbe dovuto riguardare l'autore della registrazione del C. nel social network, sul quale il giornalista non aveva per nulla indagato afferma che il titolo e il contenuto degli articoli non erano aderenti al tenore dell’interrogazione consiliare contesta che sia stato rispettato il limite della continenza, mancando la neutralità dell'articolista, che si era invece espresso in termini allusivi, fuorvianti e diffamatori, insinuando anche l'omosessualità della persona offesa sicché - così sostiene - lo spazio dedicato alle dichiarazioni del C. è rimasto eliso dal tenore complessivo degli articoli, che avallavano la riferibilità a costui di preferenze omosessuali, ambigue o trasgressive. 2.2. Col secondo motivo il ricorrente impugna la propria condanna al parlamento delle spese processuali richiama il disposto dell'art. 541, comma 2, cod. proc. pen. osserva che gli imputati non avevano fatto richiesta della rifusione delle spese lamenta la mancata compensazione. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è da disattendere in quanto infondato. È invero del tutto congrua, ed immune da vizi logici o giuridici, la motivazione sulla quale la Corte di merito ha basato il proprio giudizio circa l'applicabilità della scriminante ex art. 51 cod. pen., sotto il profilo dell'esercizio del diritto di cronaca. 1.1. È agevole, innanzi tutto, trarre dall'impianto argomentativo della sentenza l’individuazione dell'interesse pubblico alla divulgazione della notizia. Al riguardo occorre tener presente che la notizia offerta ai lettori del giornale era costituita in primis dall'interrogazione, presentata dal consigliere D. al consiglio regionale, e dalle ricadute politiche che da essa potevano derivare alla giunta regionale in conseguenza della polemica avente ad oggetto il comportamento di un suo consulente ciò spiega l'interesse che poteva nutrire per la vicenda il pubblico attento alla politica locale e rende ragione, al contempo, dell'esistenza di quel collegamento , che il ricorrente ingiustificatamente contesta, fra la pubblicazione su un social network delle fotografie ritraenti il C. in mutande e gli equilibri politici riguardanti l'operato della giunta e l'atteggiamento critico dell'opposizione. 1.2. Sotto il profilo della verità, apparteneva ai doveri del giornalista soltanto quello di accertarsi che realmente fosse stato pubblicato in Internet il post ivi attribuito al C., con le fotografie compromettenti e col corredo di un profilo orientato all'ambivalenza sessuale, poiché questo era il fatto riferito nell'articolo mentre non era certo suo compito indagare sull'identità dell'autore effettivo di quella squallida iniziativa, alla quale il C. si era immediatamente dichiarato estraneo, come del resto correttamente riferito dal giornale già nel titolo stesso, come osservato dalla Corte d'Appello . 1.3. La sentenza dà atto, altresì, dell'osservanza del requisito della continenza, rimarcando che gli accenni alle piccanti esigenze in Internet del C. con evidente riferimento al profilo pubblicato sul sito , alle pose osé delle fotografie e alla qualifica di consulente osé , apparsi negli occhielli o nei titoli degli articoli in questione, avevano solo ripreso con ironica sintesi giornalistica l'oggetto dell'interrogazione del D. a sua volta espressa, va rilevato, in termini alquanto sarcastici , senza aggiungervi un'autonoma connotazione offensiva. Il fatto, poi, che un ampio spazio del primo servizio giornalistico sia stato dedicato ad illustrare la posizione del C., le sue proteste di estraneità al post pubblicato in Internet e la sua comprovata eterosessualità, depone in senso contrario all'accusa di mancanza di neutralità mossa dal ricorrente all'autore del pezzo. Quanto al secondo articolo, pertinente è la considerazione svolta nella sentenza, con l'osservare che in esso si dava conto delle prese di posizione di associazioni che, in evidenza ricerca di visibilità, avevano commentato l'accaduto e contestato l'interrogazione proposta dal consigliere di minoranza. 1.4. Alla stregua di quanto fin qui evidenziato, deve concludersi che la motivazione addotta dal giudice di appello spiega esaurientemente, nel rispetto dei canoni logici e giuridici, le ragioni della ritenuta applicabilità della causa di giustificazione fondata sull'esercizio del diritto di cronaca onde resiste al controllo proprio del giudizio di legittimità. 2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, essendo il risultato di una palese confusione fra l'obbligo del pagamento delle spese processuali, che secondo l'inequivocabile disposto dell'art, 592, comma 4, cod. proc. pen. deve far carico alla parte privata soccombente senza possibilità di compensazione trattandosi di obbligo verso l'Amministrazione della Giustizia , e la rifusione delle spese di difesa sostenute dall'imputato questa è prevista da tutt'altra norma art. 541, comma 2, cod. proc. pen. , che richiede l'istanza di parte e consente la compensazione totale o parziale in presenza di giusti motivi ma che non è invocata a proposito nel caso di specie, in cui la condanna pronunciata dalla Corte d'Appello a carico della parte civile si riferisce esclusivamente alle spese del procedimento anticipate dallo Stato, onde ricade nella previsione del succitato quarto comma dell'art. 592 cod. proc. pen 3. Il rigetto del ricorso, che pianamente consegue a quanto fin qui argomentato, comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.