La cessione di un credito in funzione solutoria costituisce un mezzo anormale di pagamento, come tale soggetto a revocatoria fallimentare ex articolo 67, comma 1, l. fall. la conoscenza dello stato di insolvenza si presume, e per vincere tale presunzione il cessionario deve fornire la prova di circostanze tali da far ritenere che l’imprenditore versasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa.
È il principio espresso dalla Cassazione, con la sentenza numero 25284 depositata l’11 novembre 2013. Il caso. Il fallimento di una società chiedeva la revocatoria della cessione di un credito Iva ad una banca, ma l’azione veniva rigettata in primo e secondo grado. La Corte d’Appello osservava che la cessione del credito Iva, pur non assimilabile al pagamento in contanti o titoli di credito, costituisce per prassi commerciale un pagamento per certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, tale da escludere la presunzione, in capo all’accipiens, della conoscenza dello stato di insolvenza del cedente. Riteneva, comunque, non provata adeguatamente la stessa situazione di insolvenza. Il fallimento proponeva ricorso per cassazione. La cessione del credito Iva è mezzo anomalo di pagamento, soggetto a revocatoria. La S.C., accogliendo i motivi di ricorso, censura la sentenza impugnata, e afferma che la cessione di un credito, anche se di sicura esigibilità, costituisce un mezzo anomalo di pagamento. Infatti questa operazione negoziale, che sostituisce o aggiunge un debitore ad un altro, si traduce in un modo di estinzione dell’obbligazione non di pronta soluzione, trattandosi in ogni caso di un atto solutorio non considerato dalla legge e dalla prassi come mezzo ordinario di pagamento sul punto, Cass. numero 12736/2011 . Si presume la scientia decoctionis del cessionario. Una volta esclusa la normalità del mezzo di pagamento de quo, come peraltro ha fatto la stessa Corte territoriale, si sarebbe dovuta presumere la conoscenza dello stato di insolvenza, in capo alla banca, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, l. fall., non potendo addossare l’onere probatorio della scientia decoctionis al fallimento. Lo stato di insolvenza rappresenta solo da un punto di vista logico un presupposto dell’azione. Del pari infondata l’affermazione della Corte d’Appello relativa alla mancata prova dello stato di insolvenza esso, infatti, rappresenta un requisito oggettivo della revocatoria fallimentare solo da un punto di vista logico, ma viene assorbito, dal punto di vista giuridico, “nel requisito soggettivo della conoscenza dei relativi segni esteriori”. È vero che se la conoscenza dello stato di insolvenza è una condizione dell’azione revocatoria, allora tale stato deve effettivamente sussistere, ma, precisa la Cassazione, quest’ultimo non assurge ad autonomo requisito dell’azione e non può, pertanto, essere oggetto di uno specifico onere di allegazione e di prova. Per evitare la revocatoria, il cessionario deve provare che ignorava l’insolvenza. In conclusione, per vincere la presunzione di scientia decoctionis di cui all’articolo 67 l. fall. ed evitare che la cessione di un credito sia revocata, il cessionario non è tenuto a fornire una prova diretta dell’insussistenza dello stato d’insolvenza del cedente, bensì a dimostrare che non ne conosceva i relativi segni esteriori, mediante «la prova di circostanze tali da far ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza che l’imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell’impresa».
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 3 ottobre - 11 novembre 2013, numero 25284 Presidente Salmè – Relatore Di Amato Svolgimento del processo Con sentenza del 12 giugno 2006 la Corte di appello di Roma confermava la sentenza in data 3 ottobre 2002 con la quale il Tribunale di Frosinone aveva rigettato l'azione revocatoria promossa dal fallimento della s.r.l. LO.CA. 2 nei confronti del Banco di Napoli, ai sensi dell'articolo 67, primo comma, numero 2, l. fall., e, in subordine ai sensi del secondo comma dello stesso articolo. In particolare, la Corte di appello - premesso che la revocatoria aveva ad oggetto la cessione del credito di rimborso IVA, effettuata dalla fallita società al Banco di Napoli in data 9 ottobre 1996 e che, in esecuzione della cessione, il successivo 13 maggio 1997 era stata accreditata alla banca la somma di lire 600.000.000 - osservava, per quanto ancora interessa, che 1 l'azione revocatoria ex articolo 67, primo comma, numero 2 l. fall., era infondata poiché, anche a non voler condividere l'assunto secondo cui la cessione del credito IVA non costituirebbe mezzo anormale di pagamento, la detta cessione pur non assimilabile al pagamento in danaro contante o titoli di credito, costituisce per prassi commerciale un pagamento per certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, tale cioè da escludere, proprio per tale sua qualità, l'indice presuntivo di consapevolezza da parte dell'accipiens dello stato di insolvenza del cedente pertanto, doveva darsi rilievo alla situazione di inscientia proclamata dalla banca, non contraddetta da altri elementi e non escludibile solo per il fatto che cessionaria del credito fosse una banca, soggetto dotato di particolari strumenti di indagine, anche perché la situazione di insolvenza del cedente era stata indicata genericamente e non comprovata dall'appellante fallimento 2 l'azione revocatoria ai sensi dell'articolo 67, secondo comma, l. fall., proposta in via subordinata, era infondata in quanto l'atto revocabile, da individuare nella cessione e non nel successivo pagamento da parte dell'Ufficio IVA, era avvenuta oltre l'anno dalla dichiarazione di fallimento. Il fallimento della s.r.l. LO.CA. 2 propone ricorso per cassazione avverso detta sentenza, deducendo due motivi. La s.p.a. S.G.A. - Società per la Gestione di Attività, quale cessionaria del credito in virtù del contratto stipulato in data 31 dicembre 1996, e la s.p.a. Intesa San Paolo, società incorporante la s.p.a. San Paolo IMI, a sua volta incorporante il Banco di Napoli, resistono con distinti controricorsi. Motivi della decisione Con il primo motivo il fallimento ricorrente deduce la violazione dell'articolo 67, primo comma, numero 2 l. fall., ed il vizio di motivazione lamentando che la sentenza impugnata aveva contraddittoriamente affermato sia che la cessione di crediti non era assimilabile al pagamento in denaro contante o in titoli di credito, sia che la cessione di un credito IVA non consentiva, per la certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, l'operatività di una presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza in capo alla banca cessionaria. Pertanto, non era chiaro se la Corte territoriale aveva ritenuto che la cessione de qua doveva considerarsi un mezzo normale di pagamento ovvero se aveva ritenuto che la cessione pur essendo un mezzo anormale di pagamento non consentiva al fallimento di valersi della presunzione di cui all'articolo 67, comma primo, l. fall. Entrambe le affermazioni erano, tuttavia, infondate. La prima perché il soddisfacimento del creditore non era immediato, ma avveniva in via mediata e indiretta quale effetto finale di altre forme negoziali. La seconda perché l'anormalità del mezzo di pagamento rendeva operante la presunzione juris tantum di conoscenza dello stato di insolvenza e, quindi, non poteva essere addossato al fallimento alcun onere probatorio. Il motivo è fondato. Invero, una volta esclusa la normalità del mezzo di pagamento, la Corte territoriale avrebbe dovuto presumere la conoscenza dello stato di insolvenza, secondo quanto prevede l'articolo 67, comma primo, l. fall., e non avrebbe potuto addossare l'onere probatorio della scientia decoctionis al fallimento. Inoltre, del tutto incongruamente la sentenza impugnata assume che nella specie mancava la prova dello stato di insolvenza, atteso che lo stato di insolvenza è un requisito oggettivo della revocatoria fallimentare soltanto da un punto di vista logico, mentre da un punto di vista giuridico detto stato viene assorbito nel requisito soggettivo della conoscenza dei relativi segni esteriori, la cui mancanza o insufficienza finisce, perciò, per rilevare non come prova della mancanza dello stato di insolvenza, ma come prova della mancanza della relativa conoscenza Cass. 28 febbraio 2007, numero 4766, in motivazione . In proposito, si può ragionevolmente pensare che se la conoscenza dello stato di insolvenza è una condizione dell'azione dell’azione revocatoria è necessario che lo stato di insolvenza sussista effettivamente, poiché, altrimenti, non potrebbe essere conosciuto. Tuttavia, la giurisprudenza più risalente - partendo dall'incontrovertibile assunto che nel giudizio sulla revocatoria fallimentare non si può certo porre in discussione la sussistenza dello stato di insolvenza, accertato dalla sentenza dichiarativa di fallimento che rappresenta la fonte dell'azione revocatoria - ebbe a orientarsi, dopo una iniziale incertezza ed a far tempo da Cass. 28 gennaio 1972, numero 198 conf. Cass. 14 dicembre 1973, numero 3397 Cass. 9 agosto 1983, numero 5334 contra Cass. 14 dicembre 1973, numero 3397 nel senso di una presunzione assoluta dell'esistenza dell'insolvenza al momento del compimento dell'atto. Successivamente la giurisprudenza, pur confermando la presunzione di legge sull'esistenza obiettiva dello stato di insolvenza, ha dato ulteriore senso all'affermazione, precisando che nell'azione revocatoria ha esclusivo rilievo l'indagine sulla conoscenza o meno dello stato medesimo da parte del terzo Cass. 13 giugno 1975, numero 2370 Cass. 23 novembre 1976, numero 4426 Cass. 13 giugno 1978, numero 2936 Cass. 29 novembre 1985, numero 5953 Cass. 24 febbraio 2011, numero 4559 . Questo orientamento merita di essere ulteriormente precisato. Invero, l'accertamento dell'insolvenza, sebbene sia indiscutibile che l'insolvenza è sempre anteriore al momento in cui viene accertata, non si può estendere, in assenza di una esplicita previsione, sino al momento del compimento dell'atto oggetto della revocatoria. Al riguardo, sulla base dell'id quod plerumque accidit è possibile soltanto una presunzione variamente articolata sulla base della natura dell'atto e, in particolare, della presenza o meno di elementi di anormalità. Questa presunzione, peraltro, non può avere e non ha carattere assoluto poiché gli elementi di anormalità possono trovare moventi diversi da quelli dell'insolvenza Cass. numero 3397/1973 cit. . Tuttavia, pur potendosi escludere, come si è detto, una presunzione assoluta di sussistenza dello stato di insolvenza, quest'ultimo non assurge ad autonomo requisito dell'azione revocatoria. Infatti, il legislatore del 1942, abbandonata la rigida via di una determinazione giudiziale dell'inizio dell'insolvenza già seguita dal codice di commercio del 1882 e scartata la via di una retrodatazione legale non ha certamente seguito la strada dell'accertamento, volta per volta, della data di inizio dell'insolvenza, suscettibile di evidenti diseconomie e di possibili pronunzie contrastanti. Il legislatore ha scelto la strada di non dare rilievo autonomo alla sussistenza dello stato di insolvenza, preferendo inglobare tale elemento in quello soggettivo della sua conoscenza. Con il che, poiché l'insolvenza si manifesta con segni esteriori, ciò che conta è la conoscenza o meno di tali segni esteriori e, quindi, l'esistenza o meno di tali segni esteriori. La conseguenza di tale scelta del legislatore consiste nel fatto che lo stato di insolvenza non si può considerare oggetto di uno specifico onere di allegazione e di prova, ma è compreso nell'elemento della conoscenza dello stato di insolvenza del quale segue il regime di allegazione e di prova. Pertanto, non esiste una presunzione iuris et de iure di sussistenza dello stato di insolvenza, ma un regime di allegazione e probatorio differenziato in relazione alla esistenza o meno nell'atto impugnato di elementi di anormalità. In conclusione lo stato di insolvenza soltanto da un punto di vista logico è un requisito oggettivo della revocatoria fallimentare, mentre da un punto di vista giuridico viene assorbito nel requisito soggettivo della conoscenza dei relativi segni esteriori. La mancanza di questi segni esteriori finisce, perciò, per rilevare non come prova della mancanza dello stato di insolvenza che pure in ipotesi particolari potrebbe egualmente sussistere , ma come prova della mancanza della relativa conoscenza Cass. numero 4766/2007 cit. . In contrario non si potrebbe obiettare che, così ragionando, in presenza di apparenti segni esteriori di una insolvenza in realtà insussistente, il convenuto in revocatoria subirebbe egualmente la revoca dell'atto. Infatti, in questo caso, spostando sempre il rilievo delle circostanze dal piano oggettivo a quello soggettivo, il convenuto sarebbe ammesso a provare l'inscientia decoctionis attraverso la prova delle circostanze specifiche ed obiettive che dimostrano l'insussistenza dell'insolvenza e che sorreggono l'inscientia decoctionis. Il che, del resto, nella sostanza è stato affermato più volte dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il convenuto in revocatoria è ammesso a provare la sussistenza di “circostanze tali da fare ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza che l'imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell'impresa” Cass. 7 agosto 1996, numero 7231 Cass. 20 giugno 1997, numero 5540 Cass. 9 gennaio 1998, numero 119 Cass. 23 aprile 2002, numero 5917 Cass. 18 maggio 2005, numero 10432 Cass. 9 maggio 2007, numero 10629 Cass. 6 agosto 2009, numero 17998 . Tanto premesso in via generale, non può esservi dubbio sulla anormalità di un pagamento tramite cessione di un credito, anche se questo è di sicura esigibilità. Infatti, la cessione di credito, sostituendo o aggiungendo un debitore ad un altro, lascia il credito almeno temporaneamente insoddisfatto e si traduce, quindi, in un modo di estinzione dell'obbligazione solo potenziale, e comunque non di pronta soluzione, rispetto al quale risulta irrilevante l'eventuale conseguimento degli effetti sperati, trattandosi in ogni caso di un atto solutorio che non è considerato dalla legge né dalla prassi come un mezzo ordinario di pagamento Cass. 10 giugno 2011, numero 12736 con specifico riferimento ad un credito IVA Cass. 5 luglio 1997, numero 6047 Cass. 23 aprile 2002, numero 5917 Cass. 22 gennaio 2009, numero 1617 Cass. 5 marzo 2007, numero 5057 . La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata sul punto con rinvio alla Corte di appello che si atterrà al seguente principio di diritto “in tema di azione revocatoria fallimentare la cessione di credito in funzione solutoria, quando non sia prevista al momento del sorgere dell'obbligazione ovvero non sia attuata nell'ambito della disciplina della cessione dei crediti di impresa di cui alla legge numero 52/1991, integra sempre gli estremi di un mezzo anormale di pagamento, indipendentemente dalla certezza di esazione del credito ceduto ne consegue la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza in capo al cessionario, che può vincere tale presunzione non con una prova diretta dell'insussistenza dello stato di insolvenza, che rappresenta solo da un punto di vista logico un presupposto dell'azione, ma con la prova di circostanze tali da fare ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza che l'imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell'impresa”. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione degli articolo 67, secondo comma, l. fall., 2697 c.c. nonché 115 e 116 c.p.c., lamentando che la Corte d'appello erroneamente aveva individuato l'atto revocabile nella sola cessione poiché quest'ultima aveva natura pro solvendo e, pertanto, l'effetto estintivo del debito della fallita società si era verificato soltanto al momento del pagamento da parte del debitore ceduto. Ne conseguiva che erroneamente la Corte di appello non aveva ammesso i mezzi istruttori riportati in ricorso diretti a provare la scientia decoctionis in capo alla banca cessionaria. Il motivo è infondato. Invero, la cessione di credito, che si perfeziona col solo consenso dei contraenti, produce immediatamente l'effetto reale tipico di trasferire al cessionario la titolarità del credito indipendentemente dal fatto che il contratto venga stipulato in funzione solutoria o a scopo di garanzia pertanto, il pagamento del debitore ceduto al cessionario estingue un credito di quest'ultimo. Ne consegue che l'atto revocabile, rispetto al quale deve sussistere il requisito temporale del c.d. periodo sospetto, è solo la cessione di credito mentre resta indifferente il fatto che soltanto il successivo pagamento da parte del debitore ceduto estingue, in caso di cessio pro solvendo, l'obbligazione del cedente verso il cessionario. Infatti, dopo la cessione il debitore ceduto adempie, con il pagamento, una obbligazione propria verso il cessionario e la liberazione del cedente è soltanto l'effetto finale del negozio di cessione, condizionato al pagamento del debitore ceduto Cass. 7 febbraio 1991, numero 1295 Cass. 16 marzo 1991, numero 2821 Cass. 18 agosto 1992, numero 9603 Cass. 19 gennaio 1995, numero 575 . P.Q.M. accoglie il primo motivo del ricorso e rigetta il secondo cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.