Censurata la condotta della dipendente a cui è stata affidata la gestione di un negozio. Riflettori puntati sull’artifizio allestito per ottenere più rapidamente nuove forniture. Comportamento discutibile ma che non ha arrecato alcun danno all’azienda.
Non rispettate le rigide istruzioni fornite dall’azienda, operativa nel settore dell’abbigliamento. Risolto il rapporto con la dipendente a cui era affidata la gestione di un ‘punto vendita’ ella ottiene una indennità pari a ventiquattro mensilità. Rilevante il fatto che le condotte contestate alla lavoratrice fossero prive di un tornaconto personale e, anzi, avessero come obiettivo un aumento del fatturato Cassazione, sentenza numero 14759/2017, Sezione Lavoro, depositata oggi . Scontrino. Riflettori puntati sulla gestione del negozio. In particolare, la lavoratrice viene censurata dalla società perché «nel periodo delle vendite natalizie» ella «ha consegnato a una compratrice, abbinato al capo di abbigliamento per cui aveva pagato l’intero prezzo, uno scontrino per vendita in acconto di pari importo ma contenente una sigla corrispondente ad una diversa causale». Il bluff messo in pratica è risultato essere finalizzato a «caricare su quel singolo affare vendite in acconto fittizie», così da «ottenere celermente uno o più capi assenti nell’assortimento del negozio» e che «sarebbero arrivati ben dopo o non sarebbero arrivati affatto, seguendo la via ordinaria» con connessa «ampia probabilità di perdere clienti». Per i giudici del Tribunale la condotta della donna è sicuramente discutibile ma non sufficiente per giustificarne il licenziamento. Risoluzione. Quasi sulla stessa falsariga anche i giudici d’Appello. Essi evidenziano che il sistema utilizzato dalla lavoratrice, pur «scevro da qualsiasi tornaconto personale» e «finalizzato unicamente a realizzare un maggior fatturato nell’interesse aziendale», non era «conforme alle istruzioni della società, che rimaneva esposta al rischio di sanzioni fiscali in caso di verifiche da parte della Guardia di Finanza», vista «la non corrispondenza dello scontrino ai documenti di contabilità interna». A fronte di questo quadro, è eccessivo il licenziamento, concordano i magistrati della Cassazione, ma va comunque dichiarato «risolto il rapporto di lavoro». Alla dipendente dell’azienda di abbigliamento rimane solo un’indennità pari a «ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione di fatto».
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 febbraio – 14 giugno 2017, numero 14759 Presidente Nobile – Relatore Manna Fatti di causa Con sentenza numero 259/15 il Tribunale di Reggio Calabria annullava il licenziamento disciplinare intimato nel febbraio 2014 da Lu. Sp. S.p.A. a Ma. Ba. gerente di un punto vendita societario , della quale ordinava la reintegra nel posto di lavoro con le conseguenze di cui all'articolo 18, comma 4, legge numero 300 del 1970. Con sentenza pubblicata il 17.11.15 la Corte d'appello di Reggio Calabria, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, applicava alla lavoratrice la sola tutela indennitaria pari a 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, dichiarando risolto il rapporto. Per la cassazione della sentenza ricorre Ma. Ba. affidandosi a due motivi. Lu. Sp. S.p.A. resiste con controricorso e spiega ricorso incidentale basato su due motivi, cui a sua volta resiste la ricorrente principale. Le parti depositano memoria ex articolo 378 cod. proc. civ. Ragioni della decisione 1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di contratto collettivo, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la condotta addebitata alla ricorrente fosse stata dolosa anziché meramente negligente e ha trascurato che l'infrazione contestata poteva al più qualificarsi come lieve violazione delle regole che presiedevano allo svolgimento del suo rapporto di lavoro, come tale sanzionabile con il mero biasimo verbale o, al massimo, con la multa, vale a dire con sanzioni conservative e conseguente applicabilità del regime di tutela reale cd. attenuata di cui all'articolo 18, comma 4, legge numero 300 del 1970. Doglianza sostanzialmente analoga viene fatta valere con il secondo motivo, sotto forma di denuncia di omesso esame d'un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. 2. Il primo motivo del ricorso incidentale deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 225 c.c.numero l. settore terziario, distribuzione e servizi, per avere la sentenza impugnata escluso la sussistenza d'una giusta causa di recesso poiché la condotta addebitata alla lavoratrice non aveva cagionato danno alcuno obietta, invece, quest'ultima che la condotta de qua doveva qualificarsi come «grave violazione degli obblighi di cui all'articolo 220, 1. e 2. comma», sanzionata con il licenziamento senza preavviso ai sensi dell'articolo 225 cit. c.c.numero l., a prescindere dall'esistenza o meno d'un concreto danno per il datore di lavoro, trattandosi di inadempimento tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario proprio del rapporto, considerati anche i rischi cui aveva esposto la società. Con il secondo motivo ci si duole di violazione dell'articolo 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia sulla domanda di conversione del licenziamento per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo. 3. I due motivi del ricorso principale e il primo di quello incidentale vanno esaminati congiuntamente perché sostanzialmente speculari. Si premetta che i giudici di merito hanno accertato in punto di fatto la seguente infrazione addebitata alla ricorrente principale in 13 operazioni di vendita, concentrate in un complessivo arco di 35 giorni nel periodo delle vendite natalizie, ella aveva consegnato alla cliente compratrice, abbinato al capo di abbigliamento per cui aveva pagato l'intero prezzo, uno scontrino per vendita in acconto di pari importo, ma contenente una sigla corrispondente ad una diversa causale. In tal modo l'odierna ricorrente principale poteva caricare su quell'affare vendite in acconto fittizie e ottenere celermente uno o più capi assenti nell'assortimento del proprio punto vendita, capi che -seguendo la via ordinaria - sarebbero arrivati ben dopo o non sarebbero arrivati affatto, con ampia probabilità di perdere le clienti che a quei capi erano interessate. Correttamente la Corte territoriale ha affermato che tale sistema, pur essendo scevro da qualsiasi tornaconto personale per la lavoratrice o per persone sue amiche e pur essendo finalizzato unicamente a realizzare un maggior fatturato nell'interesse aziendale, nondimeno non era conforme alle istruzioni della società, che rimaneva esposta al rischio di sanzioni fiscali in caso di verifiche da parte della G.d.F., vista la non corrispondenza dello scontrino ai documenti di contabilità interna. E l'essersi trattato d'un contegno doloso - secondo un apprezzamento in punto di fatto riservato ai giudici di merito - ne esclude la riconducibilità al novero delle infrazioni punite con sanzione conservativa dallo stesso c.c.numero l., sempre come accertato dalla gravata pronuncia. Altrettanto esattamente la sentenza impugnata ha concluso con lo statuire che la condotta sopra descritta non era tale da integrare neppure giusta causa di recesso oltre a non essere riconducibile - come detto -ad una delle ipotesi che il c.c.numero l. sanziona in via conservativa , con la conseguente applicabilità della sola tutela indennitaria cd. forte prevista dall'articolo 18, comma 5, legge numero 300 del 1970. Sostiene la società che potrebbe attagliarsi al caso di specie l'ipotesi della «grave violazione degli obblighi di cui all'articolo 220, 1. e 2. comma» è quel che si invoca nel primo motivo del ricorso incidentale . I commi 1 e 2 del cit. articolo 220 così recitano «Il lavoratore ha l'obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri e il segreto di ufficio, di usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri. II lavoratore ha l'obbligo di conservare diligentemente le merci e i materiali, di cooperare alla prosperità dell'impresa.». Come ben si vede l'infrazione contestata alla ricorrente principale non ha nulla a che vedere con il segreto d'ufficio, con i modi da usare con il pubblico, con la conservazione di merci e materiali, né con una violazione del dovere di cooperare alla prosperità dell'impresa anzi, la stessa sentenza impugnata riconosce che la condotta della lavoratrice si era di fatto risolta in un vantaggio per l'azienda . Residua la violazione dei doveri d'ufficio, che però, ai sensi del combinato disposto degli articoli 220, comma 1, e 225 cit. c.c.numero l. deve essere grave. In proposito la sentenza impugnata ha motivatamente escluso tale gravità considerato che la condotta della lavoratrice, lungi dall'essere ispirata da tornaconti personali, mirava esclusivamente ad incrementare le vendite nel periodo dell'anno più propizio quello che immediatamente precede le festività natalizie , il che, pur essendo contabilmente scorretto, di fatto non aveva arrecato danno alcuno alla società, ma -anzi - le aveva procurato un vantaggio grazie all'aumento delle vendite . La valutazione sulla gravità in concreto della condotta addebitabile al lavoratore importa apprezzamenti di fatto riservati ai giudici di merito. 4. Anche il secondo motivo del ricorso incidentale va disatteso. In realtà non vi è stato alcun omesso esame da parte della Corte territoriale, che nel momento stesso in cui ha negato la gravità in concreto dell'inadempimento con valutazione di fatto non surrogabile - giova ribadire - da parte di questa Corte ha altresì implicitamente asserito l'inesistenza di quel notevole inadempimento che pur sempre integra il concetto di giustificato motivo soggettivo di licenziamento. 5. In conclusione, i ricorsi sono da rigettarsi. Ciò consiglia di compensare per intero fra le parti le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. rigetta i ricorsi e compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell'articolo 13 co. 1 quater D.P.R. numero 115/2002, come modificato dall'articolo 1 co. 17 legge 24.12.2012 numero 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.