Esce di casa mentre è in malattia: no al licenziamento

Il lavoratore in malattia che venga sorpreso a uscire da casa mantiene il posto di lavoro se camminate e passeggiate gli son state consigliate dal medico.

Il lavoratore che, mentre è in malattia per problemi ad una gamba, venga sorpreso ad uscire da casa sia in macchina che a piedi per fare la spesa, o per le normali incombenze della sua vita quotidiana, non può essere licenziato se è proprio il medico ad avergli prescritto lunghe camminate.Il caso. Lo stabilisce la Corte Suprema con la sentenza numero 6375 che ha confermato il mantenimento del posto di lavoro per il dipendente di una società piemontese di Alba addetto al controllo degli acquisti. Il datore di lavoro aveva mandato gli investigatori privati sotto casa dell'impiegato e aveva scoperto che, ogni tanto, il dipendente usciva dalla sua abitazione anche se aveva un certificato con una lunga prognosi di malattia per una complicata infiammazione a un tendine. Alla luce di quanto emerso lo aveva licenziato.Il lavoratore ha impugnato il licenziamento che, sia in primo grado che in appello, è stato dichiarato illegittimo. I giudici del merito hanno ricostruito la vicenda medica del lavoratore sottolineando che al lavoratore è stato prescritto proprio dal medico curante, in particolare nell'ultimo periodo della sua astensione lavorativa, di compiere del movimento e camminare a lungo.Contro il verdetto dei giudici torinesi si è rivolta alla Cassazione la società datrice di lavoro, ma il ricorso è stato rigettato. Licenziamento disciplinare escluso. La Cassazione è netta no al licenziamento se non c'è prova che il lavoratore svolgesse altri lavori. L'uomo sembra avesse solo ripreso alcune attività della vita privata spostamenti in città a piedi e in auto per acquisti e altro , cioè attività di una gravosità di cui non è evidente la comparabilità a quella di una attività lavorativa a tempo pieno .La sentenza impugnata - osserva la Suprema Corte - è sorretta da una motivazione adeguata e logica, oltre che immune da errori di diritto circa la mancanza di prova di una violazione disciplinare a fondamento del licenziamento intimato.Sostanzialmente il lavoratore non può essere ripreso con nessuna sanzione per essersi adeguato alle prescrizioni del metodo curante.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 gennaio - 21 marzo 2011, numero 6375Presidente Vidiri - Relatore ToffoliSvolgimento del processoG G. agiva con ricorso davanti al Tribunale di Alba nei confronti della sua datrice di lavoro s.p.a. SIRE impugnando il licenziamento intimatogli con lettera del 29.12.2004 che faceva seguito ad una contestazione disciplinare. Con la relativa lettera gli era stato addebitato di avere tenuto almeno nei giorni dal 29 novembre al 12 dicembre un comportamento incompatibile con la verosimile sussistenza dello stato patologico distorsione della caviglia destra denunciato come conseguente all'infortunio del 6.7.2004, chiuso il 12.8.2004 e riaperto il successivo 4 novembre, con prognosi di 20 giorni ripetutamente prorogata fino al 21 dicembre, oppure e comunque di avere tenuto un comportamento pregiudizievole per un buono e rapido recupero della integrità ed efficienza fisica.La domanda era accolta dal Tribunale, che dichiarava l'illegittimità del licenziamento e condannava il datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento del danno.A seguito di appello della soc. SIRE, la Corte d'appello di Torino confermava la sentenza di primo grado.La Corte di merito affermava l'inammissibilità, per la sua tardi vita, della produzione in appello da parte della SIRE di una perizia di parte, peraltro redatta da medico che non aveva mai visitato il G. . Riteneva infondate le critiche mosse alle certificazioni mediche con cui era stato accertato in più occasioni e sedi lo stato di invalidità del lavoratore, le quali rappresentavano una serie coerente di documenti medici e attestavano anche il diligente sottoporsi del paziente a terapie orientate a favorirne la guarigione. Vi erano anche riscontri delle diagnosi nei rilievi strumentali eseguiti radiografia del 27.7.2004, attestante flogosi estesa a carico del tendine flessore lungo il livello del cavo plantare, con versamento peritendineo radiografia effettuata tre mesi dopo, pochi giorni prima della riapertura dell'infortunio, evidenziante notevole infiltrazione edematoso - flogistica a livello della sinoviale nei recesso peroneo - astragalico e con diagnosi attestante una discreta flogosi articolare tendinea in remota lesione legamentosa al momento da ritenere non risolta dei tutto, almeno dal punto di vista funzionale risonanza magnetica del 16.11.2004, confermativa delle diagnosi precedenti, evidenziante la presenza di raccolta all'interno della guaina del tendine del flessore lungo dell'alluce e di os trigonum posteriormente all'astragalo, circondato da una modesta raccolta endoarticolare.La Corte inoltre escludeva i dubbi sull'attendibilità del medico curante del G. sentito come teste e autore del certificato datato 22.12.2004, e quindi successivo alla contestazione disciplinare, con il quale egli aveva ricostruito la vicenda medica del lavoratore nei suoi vari passaggi, vicenda peraltro caratterizzata anche dall'attestazione dell'Inail. La Corte ricordava che tale medico aveva confermato di avere prescritto al G. , in particolare nell'ultimo periodo della sua astensione lavorativa, di compiere del movimento e, in particolare, di camminare. Secondo la Corte non doveva tanto discutersi circa l'appropriatezza o meno di detta prescrizione terapeutica, quanto rilevarsi, rispetto al fatto pacifico che il G. era stato visto mentre compiva delle uscite dalla propria abitazione pur essendo in infortunio, che tali uscite erano state ispirate da un parere del medico curante.In definitiva, la Soc. SIRE, che non aveva richiesto una visita di controllo ex articolo 5 L. numero 300/1970 - come avrebbe potuto e dovuto al fine di contestare lo stato di inabilità lavorativa - avanzava ingiustificati dubbi riguardo alla vicenda, senza avere assolto l'onere della prova gravante sul datore di lavoro in materia di giustificazione del licenziamento e insisteva per l'ammissione di una consulenza tecnica, implicitamente ritenuta dalla Corte non giustificata dal quadro probatorio. Quanto ai rilievi dell'appellante riguardo alle mansioni del G. indicate dal giudice di primo grado addetto al reparto scelte speciali e ad attività da svolgersi costantemente in piedi, con continuo movimento dei corpo, sollevamento e spostamento dei carichi , osservava che, a parte che l'insieme dei compiti lavorativi indicati nel ricorso introduttivo non risultava essere mai stato contestato fino al giudizio di appello, sarebbe stato onere della Soc. SIRE fornire la prova della compatibilità delle mansioni con le condizioni di salute del ricorrente.La s.p.a. SIRE ricorre per cassazione con tre articolati motivi. Il G. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato una memoria.Motivi della decisioneIl primo motivo del ricorso denuncia violazione degli articolo 116, 421 e 61 c.p.c. e insufficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento alla rilevanza e alla attendibilità attribuita alla deposizione del medico curante del lavoratore. Si sostiene la dimostrazione della compatibilità di attività extra lavorative svolte dal lavoratore durante la malattia con le esigenze terapeutiche non può essere basata su una deposizione testimoniale, anche se di un medico, invece che su una c.t.u Si lamenta anche che non si sia dato rilievo alla prova, quanto meno indiziaria, dello svolgimento di attività incompatibile, fornita dalla SIRE, e che si sia affermata l'imprescindibilità della richiesta di una visita di controllo.Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'articolo 5 l. numero 300/1970, dell'articolo 5. l. numero 604/1966 e dell'articolo 2697 c.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione.Si ribadisce sotto il profilo della violazione dell'articolo 5 legge numero 300/1970 la tesi della non necessità per il datore di lavoro del ricorso alle visite di controllo ivi previste per la dimostrazione di circostanze di fatto evidenzianti l'inesistenza della malattia, l'insussistenza di un'incapacità lavorativa o l'adozione di comportamenti comportanti la violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare o rallentare la guarigione. Al riguardo si ricorda l'esito delle constatazioni compiute dal personale investigativo incaricato dalla azienda. Si sostiene anche che una volta provata da parte del datore di lavoro l'attività svolta durante il periodo di malattia dai lavoratore, spetti a quest'ultimo provarne la compatibilità con la malattia impeditiva dell'attività lavorativa, risultandone altrimenti l'assenza ingiustificata.Il terzo motivo denuncia omessa o insufficiente motivazione su un atto controverso e decisivo per il giudizio e violazione degli articolo 1175, 1375, 2104, 2105 c.c., nonché dell'articolo 2119 c.c. e dell'articolo 3 della l. numero 604/1966.Si sostiene che il lavoratore, una volta verificato, anche a seguito delle direttive, terapeutiche del suo medico curante, di poter svolgere una vita normale, avrebbe dovuto evitare di sollecitare ulteriori certificazioni di 5 inabilità al lavoro e quanto meno rendere nota tale situazione all'ente previdenziale e al datore di lavoro.Il ricorso, i cui tre motivi sono esaminati congiuntamente per la loro connessione, non è fondato.In effetti la sentenza impugnata è sorretta da una motivazione adeguata e logica, oltre che immune da errori di diritto, circa la mancanza di prova di una violazione disciplinare a fondamento del licenziamento intimato. In particolare è stato bene evidenziato come la malattia posta a giustificazione dell'assenza del lavoratore abbia trovato ampio riscontro non solo nelle certificazioni mediche relative, provenienti anche dall'Inail, ente previdenziale pubblico, ma anche in puntuali esami strumentali corredati da analitiche diagnosi. In questo quadro, il rilievo del giudice di merito riguardo al fatto che il datore di lavoro avrebbe potuto e anche dovuto ricorrere alla procedura di controllo della malattia prevista dall'articolo 5 legge numero 300/1970, oltre a non avere evidentemente un ruolo essenziale nella complessiva motivazione, è interpretabile nel senso non di una affermazione di principio di carattere generale - che come tale sarebbe inesatto, in quanto come è pacifico in giurisprudenza l'effettiva insussistenza della malattia certificata è dimostrabile anche al di fuori del ricorso a detta procedura - ma nel senso che, in relazione ai margini di opinabilità sul piano medico legale eventualmente sussistenti, come spesso accade, riguardo alla più congrua misura della prognosi di inabilità temporanea, in pratica solo il ricorso alla visita di controllo avrebbe potuto offrire ulteriori rilevanti elementi di valutazione, tanto più essendo in questione un'ipotesi di illecito disciplinare, rispetto al quale rileva anche l'elemento soggettivo.Riguardo all'addebito al lavoratore di avere tenuto una condotta contrastante con le esigenze terapeutiche e di un rapido recupero, la motivazione è in via assorbente basata sui rilievo che nessun addebito al riguardo poteva essere mosso al lavoratore che si era adeguato alle prescrizioni del suo medico curante. Rispetto a tale motivazione, e tenuto anche presente che dalle indagini investigative richieste dall'attuale ricorrente non era emerso lo svolgimento di attività lavorative ma la ripresa di alcune attività della vita privata spostamenti in città a piedi e in auto per acquisti e altro , cioè di attività di una gravosità di cui non è evidente la comparabilità a quella di un'attività lavorativa a tempo pieno, non può ritenersi che, neanche su un piano logico e di fatto aspetto rilevante ai fini della logicità della motivazione , sussistesse l'onere per il lavoratore di provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all'attività lavorativa. Né, alla stregua della sentenza e del ricorso per cassazione, la società datrice di lavoro risulta avere fornito, come in linea di principio sarebbe stato suo onere, la prova di una natura degli impegni lavorativi dell'attuale resistente idonea ad evidenziare aspetti di illogicità e malafede nel comportamento del lavoratore.In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.Le spese del giudizio vengono regolate facendo applicazione del criterio legale della soccombenza articolo 91 c.p.c. .P.Q.M.La Corte rigetta il ricorso e condanna la s.p.a. SIRE a rimborsare a G.G. le spese del giudizio determinate in Euro trentacinque oltre Euro tremila per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA secondo legge.