La divulgazione di informazioni eccedenti il criterio di minimizzazione dei dati comporta il risarcimento del danno (grave e serio)

Dei danni determinati dall’illecita divulgazione di dati personali, ai sensi dell’articolo 15, comma 1, d.lgs. numero 196/2003 applicabile ratione temporis , ne risponde chiunque, con la propria condotta, li abbia eziologicamente provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita, sia di titolare o sia di responsabile del trattamento dati secondo l’accezione ante GDPR, Reg. Ue 679/2016 .

La vicenda. La signora S. presenta un esposto presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati denunciando che l’avvocato M., in sede di audizione di un procedimento disciplinare a carico di una dipendente del Tribunale di Firenze, in qualità di difensore di quest’ultima, avrebbe tenuto dei comportamenti deontologicamente scorretti e in particolare avrebbe cercato di intimidirla nella propria funzione di titolare del potere sanzionatorio. Ciò che rileva nel caso di specie è il fatto che la signora S., in sede di esposto, rappresentava come l’avvocato M. fosse stato fino a tempo recente un dipendente del Tribunale di Firenze e dalla stessa più volte sottoposto a procedimento disciplinare. La signora S., tuttavia, non riferiva come tutti i procedimenti disciplinari fossero stati impugnati dall’avvocato M. e annullati. Ricorrendo al Tribunale di Firenze, l’avvocato M. lamentava quindi l’ illecita divulgazione di dati personali coperti da riservatezza, in possesso della signora S. quale superiore gerarchico dello stesso quando era impiegato presso il Tribunale, con conseguente danno non patrimoniale. Il Tribunale. Il Tribunale di Firenze accoglieva la domanda dell’avvocato M. e condannava la signora S. al pagamento della somma richiesta di € 5.200,00 a titolo di danno non patrimoniale per l’illecita divulgazione di dati personali, nonché al pagamento d’ufficio della somma di € 8.550,00 ai sensi dell’articolo 96, comma 3, c.p.c. In particolare, il Tribunale aveva ritenuto che la presentazione dell’esposto, che tra l’altro era stato archiviato perché ritenuto infondato, aveva violato il diritto di riservatezza dell’avvocato M. poiché erano stati divulgati «dati sensibili riguardanti alcuni precedenti giudizi disciplinari promossi dalla stessa, quale dirigente del Tribunale di Firenze e superiore gerarchica, nei confronti dell’allora cancelliere M., senza dar conto degli annullamenti delle sanzioni dalla stessa irrogate e quindi con una comunicazione finalizzata a gettare discredito sull’immagine e sulla reputazione del legale proprio nel ristretto ambiente lavorativo in cui era da breve tempo entrato due anni ». Ricorso in Cassazione. Avverso la sentenza del Tribunale di Firenze, la S. proponeva ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso l’avvocato M. eccependo l’improcedibilità del ricorso rigettata dalla Suprema Corte . La ricorrente si affidava a quattro motivi 1 Violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 10 d.lgs. 196/2003 vigente Codice Privacy al momento del fatto eccependo il difetto di legittimazione passiva in quanto l’azione giudiziaria avrebbe dovuto essere svolta nei confronti del titolare del trattamento dei dati, nella fattispecie il Presidente del Tribunale, e non nei propri confronti agente in qualità di dirigente di cancelleria, rivestendo la figura di mero responsabile del trattamento secondo l’accezione ante GDPR . 2 Violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 23 d.P.R. 10.01.1957 in relazione all’articolo 28 Cost In particolare, la ricorrente lamenta come il riferimento ai precedenti procedimenti disciplinari non potevano essere estrapolati dal contesto e sorreggevano l’esposto non potendo quindi essere ritenuto tale comportamento caratterizzato da dolo o colpa grave. 3 Violazione dell’articolo 15 d.lgs. 196/2003 vigente Codice Privacy al momento del fatto e degli articoli 2050 e 2697 c.c. Con il terzo motivo viene contestata l’assenza di violazione dell’articolo 15 Codice Privacy poiché la divulgazione della notizia riservata era avvenuta non in un ambiente generico, ma in un ambiente qualificato e deputato per disposizione di legge ad esercitare una funzione paragiurisdizionale quale è il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. 4 Violazione dell’articolo 96, comma 3, c.p.c. poiché ritiene la ricorrente che non possa essere riproverato l’aver resistito in giudizio, costituendo un diritto costituzionalmente garantito. La Corte di Cassazione rigetta i primi tre motivi e accoglie il quarto. La pronuncia della Cassazione. Primo motivo. La Suprema Corte ritiene infondato il motivo in quanto l’articolo 10 Codice Privacy costituisce una norma sulla competenza e non sulla legittimazione passiva in relazione alla quale deve farsi riferimento all’articolo 15, comma 1, sempre del Codice Privacy vigente a suo tempo. Pertanto, la Corte riafferma il principio di diritto secondo cui «dei danni determinati dall’illecita divulgazione di dati personali, ai sensi dell’articolo 15 comma 1, D.Lgs. numero 196/2003 applicabile ratione temporis , deve rispondere chiunque, con la propria condotta, li abbia eziologicamente provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita, sia di titolare o sia di responsabile del trattamento dati». Secondo motivo. Il motivo è ritenuto inammissibile poiché il Tribunale, con una motivazione congrua ed immune da vizi logici, ha ritenuto sussistente il requisito dell’elemento soggettivo dolo o colpa grave avendo la ricorrente fatto riferimento a precedenti procedimenti disciplinari senza tuttavia dare conto degli annullamenti delle sanzioni dalla stessa irrogate. A questo si aggiunga che tali circostanze erano irrilevanti rispetto all’oggetto dell’esposto e pertanto il fatto era da ricondursi alla volontà di gettare discredito sull’avvocato M. con conseguente lesione della di lui reputazione. Terzo motivo. Il motivo viene dichiarato in parte infondato e in parte inammissibile. Pur confermando la Suprema Corte di come le informazioni fossero state divulgate nell’ambito di un procedimento innanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in relazione di una condotta asserivamente scorretta sotto il profilo deontologico, è necessario tuttavia che ciò avvenga nel rispetto del principio di minimizzazione nell’uso dei dati personali circoscrivendoli a quelli indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono stati raccolti e trattati. Tale principio è rinvenibile nell’articolo 3 e dall’articolo 11, lett. d, Codice Privacy vigente ratione temporis . Pertanto, il Tribunale ha correttamente ritenuto illecita la divulgazione di informazioni relative all’ avvocato M. trattandosi di dati non funzionali né pertinenti rispetto allo scopo per cui erano stati trattati ossia accertare l’esistenza di eventuali illeciti disciplinari nell’esercizio della professione in oggetto, per di più esposti in modo parziale e malizioso tacendo il fatto che tali procedimenti erano stati archiviati e le sanzioni erano state annullate. Il fatto che la divulgazione della notizia sia avvenuta nell’ambito di un procedimento di rilevanza pubblica è irrilevante ai fini dell’integrazione della violazione dell’articolo 15 Codice Privacy. Sul punto risarcimento del danno, la Suprema Corte, ricordando come il danno alla privacy non sia in “ re ipsa ” come ogni danno non patrimoniale, richiama il principio di diritto secondo cui «il danno non patrimoniale risarcibile, ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgs. numero 196 del 2003 codice privacy , pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli articolo 2 e 21 Cost. e dall’articolo 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex articolo 2 Cost., da cui deriva come intrinseco precipitato quello di tolleranza della lesione minima, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’articolo 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito». Il Tribunale aveva infatti accertato la gravità della lesione e la serietà del danno avendo le informazioni divulgate inciso sulla sfera emotiva dell’avvocato M. e sulla sua reputazione sociale nel ristretto ambiente lavorativo in cui era da breve tempo entrato due anni . Sul punto, la Cassazione mette in luce quanto ha rilevato il Tribunale ossia della «condizione di particolare fragilità in cui si trova un avvocato iscritto all’Ordine forense solo da un paio d’anni, il quale è soprattutto impegnato nella costruzione di una propria immagine e credibilità professionale non solo in relazione ai potenziali clienti, ma anche rispetto a quei colleghi che possono così sensibilmente incidere sulla sua attività, anche per il futuro». Quarto motivo. L’ultimo motivo viene accolto dalla Suprema Corte che, partendo dal presupposto di come l’articolo 96, comma 3, c.p.c. non sia conseguenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente, rileva come nella sentenza del Tribunale non vi fosse evidenziata la sussistenza di tale presupposto. Ossia, la Corte rileva come il Tribunale non abbia in alcun modo individuato un “abuso del processo” che andasse al di là della fisiologica confutazione delle deduzioni della controparte processuale. In conclusione , la Suprema Corte accoglie solo il quarto motivo, decidendo la causa nel merito ex articolo 384, comma 2, c.p.c., escludendo la condanna ex articolo 96, comma 3, c.p.c., confermando la sentenza di primo grado per il resto, infine, e compensando le spese di lite del giudizio di legittimità stante la reciproca soccombenza.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 26 febbraio – 26 aprile 2021, numero 11020 Presidente Genovese – Relatore Fidanzia Fatti di causa L’avv. M.G. , già funzionario di cancelleria presso il Tribunale di Firenze - incarico cessato nel 2008 per sue dimissioni volontarie - ha proposto ricorso D.Lgs. numero 196 del 2003, ex articolo 152, finalizzato ad ottenere la condanna di S.R. al pagamento a suo favore della somma di Euro 5.200,00, quale risarcimento del danno non patrimoniale subito per l’illecita divulgazione, ad opera di costei, di dati personali riguardanti il legale, ex dipendente coperti da riservatezza. In particolare, la sig.ra S. , nel presentare un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze - nel quale aveva denunciato che l’avv. M. , in sede di audizione in un procedimento disciplinare di una dipendente del Tribunale di Firenze, e quale difensore di quest’ultima, aveva tenuto comportamenti deontologicamente scorretti - aveva esordito nello stesso esposto evidenziando che il M. , prima di esercitare, la professione di avvocato, era stato un dipendente del Tribunale di Firenze dalla stessa più volte sottoposto a procedimento disciplinare. Il Tribunale di Firenze ha accolto la domanda dell’avv. M. , condannando S.R. al pagamento della somma richiesta a titolo di danno non patrimoniale, nonché al pagamento d’ufficio della somma di Euro 8.550,00, ex articolo 96 c.p.c., comma 3. Il giudice monocratico fiorentino ha ritenuto che con la presentazione dell’esposto all’Ordine degli Avvocati di Firenze - archiviato perché ritenuto infondato - la S. aveva violato il diritto alla riservatezza del M. , divulgando i propri dati sensibili riguardanti alcuni precedenti giudizi disciplinari promossi dalla stessa, quale dirigente del Tribunale di Firenze e superiore gerarchica, nei confronti dell’allora cancellerie M. , senza dar conto degli annullamenti delle sanzioni dalla stessa irrogate, e quindi con una comunicazione finalizzata a gettare discredito sulla immagine e sulla reputazione del legale proprio nel ristretto ambiente lavorativo in cui era da breve tempo entrato due anni . Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione S.R. , affidandolo a quattro motivi. M.G. resiste con controricorso, con il quale ha eccepito l’improcedibilità del ricorso, ai sensi dell’articolo 369 c.p.c., comma 2, numero 1, per mancato deposito, unitamente al ricorso, della copia autentica della sentenza impugnata. Il controricorrente ha depositato la memoria ex articolo 380 bis c.p.c., comma 1. Ragioni della decisione 1. Prima di illustrare i motivi del ricorso, deve esaminarsi l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dall’avv. M. , che deve essere rigettata per infondatezza. In proposito, va osservato che questa Corte Cass. numero 26520 del 09/11/2017 ha stabilito che, in tema di ricorso per cassazione, fino all’attivazione del processo civile telematico, il difensore del ricorrente assolve all’onere, previsto a pena di improcedibilità dall’articolo 369 c.p.c., di depositare copia conforme all’originale del provvedimento impugnato, ove non abbia disponibilità della stessa con attestazione di conformità rilasciata dalla cancelleria, estraendo una copia analogica dall’originale digitale presente nel fascicolo informatico ed attestando la conformità dell’una all’altro, ai sensi del D.L. numero 179 del 2012, articolo 16-bis, comma 9-bis. Nel caso di specie, il ricorrente ha adempiuto tale formalità, avendo l’avv. Piergiorgio Masi, difensore della ricorrente, attestato come emerge dai documenti uniti alla sentenza impugnata , ai sensi del D.L. numero 179 del 2012, articolo 16 bis, comma 9 bis e articolo 16 undecies, comma 3, che la copia della sentenza depositata è conforme all’originale telematico della sentenza del Tribunale di Firenze numero 2475/2016 estratto dal fascicolo informatico RG 213/2015 del Tribunale di Firenze. 2. Quanto ai motivi proposti dalla ricorrente, con il primo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 10. Ha eccepito la ricorrente il proprio difetto di legittimazione passiva, atteso che l’azione giudiziaria ex articolo 152 legge cit. avrebbe dovuto essere rivolta contro il titolare del trattamento dati, che si identifica nel Presidente del Tribunale, mentre Ella, avendo agito nella sua qualità di dirigente della cancelleria del Tribunale di Firenze, rivestiva la diversa funzione di mero responsabile del trattamento. 3. Il motivo è infondato. Il giudice di primo grado ha già correttamente rilevato che il D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 10, costituisce una norma sulla competenza e non sulla legittimazione passiva, in relazione alla quale deve, invece, farsi riferimento all’articolo 15 comma 1 legge cit, secondo cui chiunque cagiona danno per effetto del trattamento dei dati personali è tenuto al risarcimento dei danni ai sensi dell’articolo 2050 c.c. . Pertanto, va affermato il principio di diritto, secondo cui, dei danni determinati dall’illecita divulgazione di dati personali, ai sensi del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 15, comma 1 applicabile ratione temporis , deve rispondere chiunque, con la propria condotta, li abbia eziologicamente provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita, sia di titolare o sia di responsabile del trattamento dati. 4. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, articolo 23, in relazione all’articolo 28 Cost Assume la ricorrente di aver presentato l’esposto nei confronti dell’avv. M. nell’esercizio delle proprie funzioni di Dirigente di Cancelleria per stigmatizzare il comportamento dell’avv. Mazzotta che, nel corso di un’audizione in sede disciplinare, aveva cercato di intimidirla nella sua funzione di titolare del potere sanzionatorio. Il breve riferimento ai precedenti procedimenti disciplinari azionati nei confronti dell’avv. M. , quando Egli era dipendente pubblico, non poteva essere estrapolato da tale contesto, svilendo la dichiarata finalità istituzionale che sorreggeva l’esposto. Ne conseguiva che la sentenza impugnata aveva violato l’articolo 23 legge sopra citata, per non essere la eventuale violazione della privacy stata posta in essere con dolo o colpa grave. 5. Il motivo è inammissibile. Va osservato che il Tribunale di Firenze, con una motivazione congrua ed immune da vizi logici neppure censurata sotto il profilo strettamente inerente alla stessa motivazione , ha ritenuto sussistente il requisito dell’elemento soggettivo dolo o colpa grave , evidenziando che la ricorrente, nel far riferimento ai precedenti procedimenti disciplinari dell’odierno controricorrente, non aveva neppure dato conto degli annullamenti delle sanzioni dalla stessa irrogate. Inoltre, in ogni caso, quella divulgazione di dati nulla aveva a che fare con l’esposto e con la finalità istituzionale che sorreggeva l’operato della ricorrente, avendo l’unica finalità di gettare discredito sull’avv. M. , allo scopo di meglio convincere i destinatari della fondatezza dello stesso esposto. Non vi è dubbio che l’apprezzamento del giudice in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del fatto illecito addebitato ad un soggetto costituisca una valutazione in fatto non sindacabile in sede di legittimità se sorretto - come lo era nel caso di specie - da adeguata motivazione immune da vizi logici. 6. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 15 e degli articolo 2050 e 2697 c.c Espone la ricorrente che non era stata integrata la violazione dell’articolo 15 codice della privacy, atteso che la divulgazione della notizia riservata era avvenuta non in un ambiente generico, caratterizzato dalla generalità indiscriminata delle persone, ma in un ambiente qualificato e deputato per disposizione di legge ad esercitare una funzione paragiurisdizionale, essendo il Consiglio dell’ordine degli Avvocati, in sede disciplinare, giudice del proprio iscritto. Peraltro, l’aver enunciato l’esistenza di pregressi procedimenti disciplinari a carico del M. rientrava nell’esercizio del potere difensivo ex articolo 24 Cost., di colei che aveva presentato l’esposto. Espone, inoltre, la ricorrente che non vi è prova che la menzione dell’esistenza di procedimenti disciplinari intentati dalla S. effettuata al scolo scopo di meglio descrivere i rapporti tra le parti avesse avuto come conseguenza un danno risarcibile, avendo potuto il controricorrente prontamente evidenziare che gli stessi procedimenti erano stati annullati. Si trattava quindi di circostanza che poteva essere smontata per tabulas. Infine, la ricorrente, oltre a contestare che la prova dell’esistenza e del quantum del danno potessero essere fornite rispettivamente in via presuntiva ed in via equitativa, assume che, nel caso di specie, non vi è stata alcuna dimostrazione dell’au della pretesa risarcitoria. 7. Il motivo presenta profili di infondatezza ed inammissibilità. Va preliminarmente osservato che non vi è dubbio che il trattamento delle informazioni personali effettuato nell’ambito di un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in relazione ad una asserita condotta deontologicamente scorretta posta in essere da un legale sia lecito purché, tuttavia, avvenga nel rispetto del criterio di minimizzazione nell’uso dei dati personali, dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati. Tale principio era ben espresso dal D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 3, recante il titolo principio di necessità nel trattamento dei dati , e dall’articolo 11, lett. d legge cit., richiedente la pertinenza, la completezza e non eccedenza dei dati rispetto alle finalità per cui sono raccolti e trattati - tali articoli sono stati recentemente abrogati a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 10 agosto 2018, numero 101, - ed è stato recentemente riaffermato con l’entrata in vigore dell’articolo 5, lett. c , del regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali 2016/679. Nel caso di specie, il Tribunale di Firenze ha correttamente ritenuto illecita la divulgazione da parte dell’odierna ricorrente non delle informazioni relative all’asserita condotta deontologica mente scorretta dell’avv. M. nell’esercizio della professione di avvocato - in relazione alle quali non occorre il consenso dell’interessato, data la rilevanza pubblica, di natura paragiurisdizionale, delle funzioni attribuite al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati - ma di quei dati relativi ai pregressi procedimenti disciplinari del legale quando Egli era un impiegato pubblico , non funzionali e pertinenti rispetto allo scopo per cui erano stati trattati accertare l’esistenza di eventuali illeciti disciplinari nell’esercizio della professione in oggetto ed erano, inoltre, stati esposti in modo parziale e malizioso, occultando la circostanza pacifica che gli stessi procedimenti erano stati archiviati e le sanzioni irrogate erano state annullate. Dunque, non è ostativa all’integrazione della violazione dell’articolo 15 codice della privacy la mera circostanza che la divulgazione della notizia riservata avvenga nel contesto di un procedimento di rilevanza pubblica, risultando comunque illecita la comunicazione dei dati personali non pertinente ed eccedente le finalità per cui essi sono raccolti e trattati. Nel caso di specie, tale principio è stato chiaramente violato e correttamente il giudice di primo grado lo ha evidenziato. In ordine al risarcimento dei danni, va preliminarmente osservato che questa Corte vedi Cass. numero 17383 del 20/08/2020 ha già enunciato il principio di diritto secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile, ai sensi del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 15 codice della privacy , pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli articolo 2 e 21 Cost. e dall’articolo 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno , in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex articolo 2 Cost., da cui deriva come intrinseco precipitato quello di tolleranza della lesione minima è, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’articolo 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito. Deve, inoltre, rilevarsi che il danno alla privacy, pur non essendo, come ogni danno non patrimoniale, in re ipsa , non identificandosi il danno risarcibile con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, può essere, tuttavia, provato anche attraverso presunzioni vedi in materia di lesione del danno non patrimoniale dell’onore, Cass. numero 25420 del 26/10/2017, i cui principi, sotto il profilo della prova del danno, sono applicabili anche al caso in esame . Nel caso di specie, il giudice di merito ha fatto un corretto uso di tale principi. Il Tribunale di Firenze ha avuto cura di verificare la gravità della lesione e la serietà del danno , evidenziando che la divulgazione di una pluralità di procedimenti disciplinari a carico dell’avv. M. - peraltro generica e dunque maggiormente offensiva in quanto allusiva aperta a qualunque interpretazione soggettiva - era stata effettivamente dannosa, determinando conseguenze inevitabilmente negative, oltre che sulla sfera emotiva dell’odierno controricorrente già provato da procedimenti disciplinati infondati , sulla sua immagine e sulla sua reputazione sociale nel ristretto ambiente lavorativo in cui era da breve tempo entrato due anni . In particolare, il giudice di merito ha messo in luce la condizione di particolare fragilità in cui si trova un avvocato iscritto all’Ordine forense solo da un paio d’anni, il quale è soprattutto impegnato nella costruzione di una propria immagine e credibilità professionale non solo in relazione ai potenziali clienti, ma anche rispetto a quei colleghi che possono così sensibilmente incidere sulla sua attività, anche per il futuro. L’articolato ragionamento del giudice monocratico fiorentino, costituendo un apprezzamento di fatto sorretto da un’adeguata motivazione, si sottrae ad ogni sindacato in sede di legittimità. 8. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’articolo 96 c.p.c., comma 3, sul rilievo che non si può rimproverare alla parte ricorrente di aver resistito in giudizio, costituendo un diritto costituzionalmente garantito. Inoltre, la ricorrente evidenzia che non poteva prevedere l’esito negativo per la stessa del giudizio, tenuto conto che in altro analogo procedimento ex articolo 702 c.p.c., il giudice monocratico del Tribunale di Firenze aveva respinto l’azione promossa dall’avv. M. in ordine all’esposto dalla stessa presentato nei suoi confronti al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze. 9. Il motivo è fondato. Va preliminarmente che è orientamento consolidato di questa Corte che la condanna ex articolo 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex articolo 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo , quale l’avere agito o resistito pretestuosamente vedi Cass. numero 20018 del 24/09/2020 in senso conforme, Cass. numero 27623 del 21/11/2017 Cass. numero 29812 del 18/11/2019 . Nel caso di specie, la sentenza impugnata non ha in alcun modo evidenziato la sussistenza di un abuso del processo perpetrato dalla ricorrente nel resistere in giudizio, al di là della fisiologica confutazione delle deduzioni della controparte processuale. Nè può essere ritenuta come sintomatica di una irragionevole difesa ad oltranza delle posizioni dell’odierna ricorrente la circostanza che durante l’iter processuale fosse già stata adita questa Corte in sede di regolamento di competenza, dipendendo tale appesantimento processuale dall’ordinanza del Tribunale di Firenze che aveva dichiarato la propria incompetenza per territorio, ritenendo competente - in base all’articolo 10 della legge sulla privacy - il Tribunale di Pistoia. Tale ordinanza, in accoglimento delle ragioni della ricorrente, è stata annullata da questa Corte con sentenza numero 22526/2014, che, stabilendo la competenza del Tribunale di Firenze, ha enunciato il principio di diritto secondo cui la competenza si determina in relazione alla sede del soggetto titolare del trattamento dei dati personali. Deve, pertanto, cassarsi il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito ex articolo 384 c.p.c., comma 2 non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto , deve escludersi la condanna ex articolo 96 c.p.c In ordine alle spese di lite, deve confermarsi la statuizione del giudice di primo grado, essendo stata da quest’ultimo correttamente accertata l’invocata violazione del trattamento dei dati personali, mentre devono compensarsi le spese del giudizio di legittimità in ragione della reciproca soccombenza delle parti. P.Q.M. Accoglie il quarto motivo, respinti i precedenti. Cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto, e, decidendo la causa nel merito, esclude la condanna ex articolo 96 c.p.c Conferma nel resto l’impugnata sentenza. Conferma le spese del giudizio di primo grado e compensa le spese del giudizio di legittimità.