Confermata la condanna a 300 euro di ammenda nei confronti della titolare di un ristorante. Decisiva la collocazione delle telecamere a circuito interno, presenti in punti strategici dell’attività commerciale. Evidente la possibilità di utilizzare quello strumento anche per monitorare i lavoratori.
Obiettivo primario tutelare il patrimonio aziendale. Ma, inevitabilmente, il sistema di videosorveglianza, allestito all’interno di un ristorante, rappresenta anche uno strumento in mano all’imprenditore –una donna, in questo caso – per monitorare i lavoratori. Questo potenziale utilizzo secondario rende illegittima l’installazione dell’impianto, avvenuta senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali. Conseguenziale la condanna della titolare del ristorante. Cassazione, sentenza numero 17027, sez. III Penale, depositata oggi Occhio proibito. Fatale il blitz compiuto dagli «ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro», i quali, all’interno di un ristorante, scoprono ben «quattro telecamere a circuito interno», collocate, però, senza l’«autorizzazione» dell’«Ispettorato del lavoro». Inevitabile la condanna dell’imprenditrice, titolare dell’attività commerciale, a pagare «300 euro di ammenda». E questa sanzione viene legittimata, in via definitiva, dal parere dei giudici del ‘Palazzaccio’, i quali fanno propria l’ottica adottata dai giudici del Tribunale. Decisiva la collocazione delle «telecamere a circuito interno» – una «al piano terra, nella sala dove si trovavano i tavoli», una «in direzione della porta d’ingresso», una che «guardava i tavoli», una posta a «controllare il corridoio, conducente alla cucina», una, infine, «all’interno della sala ristorazione, posta al primo piano» – evidente che l’obiettivo «non fosse esclusivamente quello di tutelare il patrimonio aziendale contro atti penalmente illegittimi, messi in atto da terzi». Di rimbalzo, quindi, è logico pensare anche ad un «controllo a distanza della attività dei lavoratori» Proprio per questo, è da sanzionare l’idea dell’imprenditrice, messa in pratica «in difetto di preventivo accordo con le parti sociali». E questa visione non può essere certo scalfita, chiariscono i giudici del ‘Palazzaccio’, dalla tesi difensiva della donna, la quale sostiene, essendo «nata e vissuta per lungo tempo negli Stati Uniti», di ignorare «le prescrizioni imposte dallo Statuto dei lavoratori».
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 marzo – 17 aprile 2014, numero 17027 Presidente Fiale – Relatore Gazzara Ritenuto in fatto Il Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Carini, con sentenza dell'8/5/2013 ha riconosciuto R.C. responsabile del reato di cui all'articolo 4 L. 300/1970 in relazione all'articolo 114, d.Lvo 196/2003, per avere installato un impianto di videosorveglianza senza avere richiesto l'autorizzazione all'ispettorato del Lavoro ha condannato la prevenuta alla pena di euro 300,00 di ammenda. Propone ricorso per cassazione la difesa della imputata, con i seguenti motivi - errata valutazione delle emergenze istruttorie, che ha determinato il Tribunale a ritenere la C. responsabile del reato ascrittole - erronea applicazione dell'articolo 47 cod.penumero non avendo il decidente considerato la sussistenza di obiettive ragioni giustificanti la buona fede della prevenuta nell'ignorare la norma ritenuta violata Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. Il giudice di merito ha logicamente e correttamente argomentato in relazione alla concretizzazione del reato contestato e alla ascrivibilità di esso in capo alla prevenuta, richiamando puntualmente le emergenze istruttorie, assoggettate a analisi valutativa compiuta ed esaustiva. Il Tribunale evidenzia che ispettori dell'Ufficio Provinciale del Lavoro, in data 25/8/2010, effettuavano un sopralluogo presso l'attività commerciale di ristorazione della C., ove riscontravano il posizionamento nei locali di detto esercizio di quattro telecamere a circuito interno. Queste erano collocate al piano terra nella sala ove si trovavano i tavoli, una in direzione della porta d'ingresso e l'altra guardava i tavoli una terza era posta a controllare il corridoio, conducente alla cucina una ulteriore all'interno della sala ristorazione, posta al primo piano l'allocazione del sistema di video sorveglianza in tali termini, ad avviso del giudice di merito, consente di ritenere che il fine della installazione dell'impianto de quo non fosse esclusivamente quello di tutelare il patrimonio aziendale contro atti penalmente illegittimi, messi in atto da terzi. Peraltro, come osservato dal decidente, l'articolo 4, L. 300/1970 prescrive che gli impianti e le apparecchiature di controllo, la cui installazione sia dovuta ad esigenze organizzative e produttive, ovvero alla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza della attività dei lavoratori, possono essere montati e posizionati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in subordine, con la commissione interna. Non è, quindi, richiesto che si tratti di controllo occulto, destinato a verificare la produttività dei lavoratori dipendenti, in quanto l'essenza della sanzione sta nell'uso degli impianti audiovisivi, in difetto di preventivo accordo con le parti sociali Cass. 15/12/2006, numero 8042 Cass. 30/1/2014, numero 4331 . Del tutto destituito di fondamento è da ritenere anche il secondo motivo di annullamento, in quanto risulta insostenibile la tesi difensiva della insussistenza dell'elemento soggettivo del reato, secondo la quale la C., nata e vissuta per lungo tempo negli Stati Uniti, avrebbe ignorato le prescrizioni imposte dallo statuto dei lavoratori, in quanto costei, quale datrice di lavoro, è soggetto tenuto alla conoscenza delle prescrizioni imposte a tutela dei propri dipendenti. Va, altresì, rilevato che nelle contravvenzioni la scusante ex articolo 47 cod.penumero è ammissibile nel caso in cui si dimostri che l'errore è incolpevole, perché determinato da caso fortuito o forza maggiore circostanze, queste, non ravvisabili nella specie. Tenuto conto, di poi, della sentenza del 13/6/2000, numero 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la C. abbia proposto il ricorso senza versare in colpe nella determinazione della causa di inammissibilità, la stessa, a norma dell'articolo 616 cod.proc. penumero , deve essere condannata al pagamento delle spese processuali, e, altresì, al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.000,00. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00.