In tema di liquidazione del compenso per l’esercizio della professione forense è il cliente che deve fornire la prova che l’avvocato abbia svolto l’attività difensionale affidatagli con imperizia o comunque con impegno inferiore alla comune diligenza, altrimenti le singole voci ben possono essere liquidate al di sopra del minimo tariffario. Solo se chieda compensi al di sopra del massimo previsto il professionista deve fornire, a norma dell’articolo 2697 c.c., la prova degli elementi costitutivi del diritto fatto valere, cioè delle circostanze che nel caso concreto giustifichino detto maggiore compenso, restando in difetto applicabile la tariffa nell’ambito dei parametri previsti.
Così si è espressa la Corte di Cassazione nella pronuncia numero 9237, depositata il 7 maggio 2015. La fattispecie. Nel caso in esame un legale aveva convenuto in giudizio il proprio assistito che si era rifiutato di pagare una parcella in quanto, a dire di quest’ultimo, il mandato conferito all’avvocato era attinente alla sola redazione di un ricorso per separazione giudiziale e non era comprensivo delle eventuali trattative stragiudiziali tese a valutare l’esistenza dei presupposti per una composizione bonaria dell’insorta controversia. A dire del Tribunale, in funzione di giudice di gravame, il legale non aveva esorbitato dal mandato ricevuto in quanto l’assistito, con la propria condotta, aveva avallato le trattative conferendo, di fatto, un mandato ben più ampio di quello relativo alla mera redazione del ricorso. La quantificazione degli onorari. Il Supremo Collegio, rigettando il ricorso, ha asserito che il legale, qualora richieda un compenso superiore al minimo tariffario ma inferiore al massimo, ha l’onere di provare unicamente la corresponsione del mandato senza dover dimostrare l’attività effettivamente svolta. Solo qualora l’importo richiesto sia superiore alla tariffa massima deve, ai sensi dell’articolo 2697 c.c., fornire la prova degli elementi costitutivi del diritto fatto valere e, in altre parole, le circostanze che giustifichino il maggiore compenso. Ciò fermo restando che grava sull’assistito l’onere di dimostrare che il professionista abbia agito con imperizia o, comunque, con impegno inferiore alla ordinaria diligenza. I confini del ricorso in Cassazione. La Corte ha avuto modo di rilevare, ancora una volta, che le motivazioni addotte nel ricorso debbono essere funzionali alla ratio decidendi e, pertanto, la ricostruzione della vicenda non deve essere differente da quella compiuta nell’atto di citazione in appello. Qualora il quesito formulato non sia attinente alle circostanze di fatto dedotte deve essere dichiarato inammissibile.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 12 marzo – 7 maggio 2015, numero 9237 Presidente Bursese – Relatore Matera Svolgimento del processo Con sentenza in data 28-8-2007 il Giudice di Pace di San Dona di Piave, in parziale accoglimento della domanda proposta dall'avv. P.A. , detratto l'acconto di Euro 1.000,00, condannava M.M. al pagamento in favore dell'attore della somma di Euro 1.277,25, a saldo di prestazioni professionali stragiudiziali rese nella trattativa relativa alla prospettata separazione personale della convenuta dal marito. Avverso la predetta decisione proponevano appello principale la M. e appello incidentale il P Con sentenza in data 5-5-2009 il Tribunale di Venezia, Sezione Distaccata di San Dona di Piave, in parziale accoglimento dell'appello incidentale e in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la convenuta al pagamento in favore dell'attore della somma di Euro 2.017,47, oltre interessi legali. Il giudice di appello riteneva infondato l'assunto dell'appellante principale, secondo cui il legale, avviando una serie di trattative con il coniuge della convenuta e il suo commercialista, aveva esorbitato dal mandato ricevuto, che riguardava esclusivamente l'introduzione di un giudizio di separazione con addebito. Il Tribunale osservava, in particolare, che dagli atti emergeva la prova in via presuntiva del consenso prestato dalla M. alla coltivazione delle trattative e, quindi, del conferimento di un incarico di cura di affari ben più ampio di quello che la convenuta sosteneva di aver affidato all'avv. P. . Il giudice del gravame, al contrario, in parziale accoglimento dell'appello incidentale, nel rilevare che per l'esame e lo studio della controversia il Giudice di Pace aveva liquidato un importo inferiore ai minimi tariffari, liquidava per tale voce la somma di Euro 967,50 esposta dall'avv. P. , che riteneva congrua in considerazione della complessità e durata delle trattative. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso M.M. , sulla base di due motivi. Il P. ha resistito con controricorso. In prossimità dell'udienza il controricorrente ha depositato una memoria ex articolo 378 cpc. Motivi della decisione 1 Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli articolo 2230, 1703, 1708, 1710 e 1711 c.c. Nel premettere di aver conferito all'avv. P. il mandato di agire giudizialmente per ottenere la separazione con addebito a carico del marito, e non quello di svolgere attività stragiudiziale volta ad ottenere una separazione consensuale o una definizione bonaria o giudiziale della situazione patrimoniale tra i coniugi, deduce che il giudice era tenuto ad accertare se l'attività stragiudiziale espletata dall'attore e per la quale il medesimo richiedeva il compenso rientrasse o meno nel contratto di patrocinio concluso con la cliente o eccedesse i limiti del mandato e, inoltre, se il legale avesse il potere di agire di propria iniziativa senza il preventivo consenso della mandante. Sostiene che, tenuto conto della natura del rapporto controverso e del risultato perseguito dalla mandante nell'intentate il giudizio di separazione con addebito, l'attività stragiudiziale svolta dall'avv. P. non può rientrare tra gli atti necessari previsti dall'articolo 1708 c.c., ma esorbita dal mandato, contro il divieto posto dall'articolo 1711 c.c., ed è anzi incompatibile con il risultato che la mandante intendeva perseguire con la lite. Il Tribunale, pertanto, in accoglimento dell'appello principale, avrebbe dovuto respingere la domanda di condanna della cliente al pagamento del compenso per l'attività stragiudiziale prestata. L'illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto, ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis . L'avvocato munito di procura alla lite ex articolo 83 c.p.c. ha la facoltà di compiere attività stragiudiziale che non rientri fra gli atti necessari previsti dall'articolo 1708 c.c. ed esorbiti dal contenuto del mandato determinato sulla base della natura del rapporto controverso e del risultato perseguito dalla mandante nell'intentare quella lite . Il motivo è inammissibile, concludendosi con la formulazione di un quesito di diritto che, per la sua genericità e non attinenza alle ragioni poste a base della decisione impugnata, non appare rispondente ai requisiti richiesti dall'articolo 366 bis c.p.c E invero, ai sensi della menzionata disposizione di legge, il quesito inerente ad una censura in diritto -dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio giuridico generale - non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere, dalla sua sola lettura, l'errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile. Ne consegue che esso non può consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo, ovvero nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così come illustrata nello svolgimento del motivo cfr. Cass. Sez. Unumero 14-2-2008 numero 3519 Cass. 7-3-2012 numero 3530 . Nella specie, il quesito di diritto posto risulta disancorato da qualsiasi riferimento al percorso argomentativo seguito dal giudice di appello, il quale, sulla base delle risultanze documentali, ha ritenuto acquisita, in via presuntiva, la prova del consenso dell'odierna ricorrente alla coltivazione di trattative stragiudiziali e del conferimento di un incarico professionale ben più ampio di quello che la M. sostiene di aver affidato all'avv. P. con la conseguenza di ritenere la conformità a mandalo dell'impegno profuso dal professionista nel tentativo di ottenere una soluzione consensuale della vicenda, anche in ragione delle esigenze di tutela della figlia minore. Il quesito formulato dalla ricorrente, pertanto, non essendo collegato alla ratio decidendi e presupponendo una ricostruzione fattuale della vicenda diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di appello, appare astratto e non risolutivo, non focalizzando questioni di diritto essenziali ai fini della decisione. In ogni caso, si rileva che le valutazioni espresse nella sentenza impugnata circa il mancato travalicamento, da parte dell'avv. P. , dei poteri conferitigli dalla M. con il mandato difensivo, costituiscono espressione di tipici apprezzamenti in fatto riservati al giudice di merito, come tali non sindacabili in cassazione se non sotto il profilo del vizio di motivazione, nella specie non dedotto. 2 Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli articolo 2697, 2230, 1176 e 1460 c.c. e del d.m. 8-4-2004 numero 127. Deduce che, poiché la convenuta, nel costituirsi in giudizio, oltre a negare il diritto dell'attore al compenso per l'attività stragiudiziale esorbitante i limiti dell'incarico conferitogli, aveva altresì contestato specificamente le voci della notula presentata dal professionista, era onere di quest'ultimo provare di avere eseguito gli 11 colloqui di cui chiedeva il compenso e le 20 telefonate, nonché giustificare le ragioni della quantificazione dell'onorario in misura maggiore del minimo Euro 967,50 . Sostiene, pertanto, che non avendo la convenuta chiesto la ripetizione della somma che al momento del conferimento dell'incarico aveva corrisposto al professionista, il Tribunale, in considerazione della inadempienza eccepita dalla convenuta, avrebbe dovuto respingere la domanda anche in relazione ai compensi per la fase giudiziale. Il Tribunale, al contrario, accogliendo il gravame incidentale, ha liquidato per onorario una somma maggiore rispetto a quella ritenuta congrua dal giudice di primo grado. I quesiti di diritto posti sono i seguenti a Nell'ipotesi che un cliente neghi che l'avvocato abbia eseguito determinate attività di cui il professionista chiede il compenso ha l'onere di fornire la prova di avere svolto l'attività contestata . b In materia di onorari l'avvocato deve giustificare le ragioni per cui, tra il minimo e il massimo previsto dalle tariffe forensi, ha determinato il compenso richiesto e, nell'ipotesi che il mandato venga dalla cliente revocato prima dello svolgimento di qualsiasi attività giudiziale, qualora l'opera non presenti una particolare importanza o non abbia richiesto particolari studi, in che misura va determinato . 2a Il motivo, nella parte in cui si duole della mancata prova, da parte dell'attore, delle prestazioni professionali rese, è inammissibile, ponendo una questione che, non essendo stata dedotta con i motivi di appello, non può essere fatta valere in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado. Premesso, infatti, che il Tribunale ha riconosciuto in favore dell'avv. P. le sole prestazioni già accertate dal Giudice di Pace, si osserva che non risulta che la M. abbia impugnato sul punto la decisione di primo grado. Dalla lettura della sentenza gravata, al contrario, si evince che i motivi di appello proposti dall'appellante principale riguardavano esclusivamente la questione della violazione, da parte del legale, dei limiti dei poteri conferitigli con il mandato alle liti, e dell'indebita dilazione dell'espletamento dell'incarico ricevuto laddove era stato l'avv. P. a dolersi, con appello incidentale, della riduzione delle competenze richieste, operata dal primo giudice. 2b Le censure mosse in ordine alla congruità degli onorari liquidati sono prive di fondamento. Il Tribunale, in parziale accoglimento dell'appello incidentale proposto dall'attore, nel rilevare che il Giudice di Pace, per l'esame e lo studio della pratica, aveva liquidato un importo Euro 500,00 inferiore ai minimi della tariffa che, per le cause di valore indeterminabile, prevedeva onorari da un minimo di Euro 530,00 ad un massimo di Euro 1.405,00 , in considerazione della complessità e della durata delle trattative ha ritenuto congrua la somma di Euro 967,50 esposta per tale voce dall'avv. P. . Nel liquidare l'onorario in misura superiore al minimo tariffario, ma compresa, comunque, entro il massimo, il giudice di appello non è affatto incorso nelle dedotte violazioni di legge. Va, infatti, rammentato che, in tema di liquidazione del compenso per l'esercizio della professione forense, è il cliente che deve fornire la prova che l'avvocato abbia svolto l'attività difensionale affidatagli con imperizia o comunque con impegno inferiore alla comune diligenza, altrimenti le singole voci ben possono essere liquidate al di sopra del minimo tariffario. Solo se chieda compensi al di sopra del massimo previsti, il professionista deve fornire, a norma dell'articolo 2697 c.c., la prova degli elementi costitutivi del diritto fatto valere, cioè delle circostanze che nel caso concreto giustifichino detto maggiore compenso, restando in difetto applicabile la tariffa nell'ambito dei parametri previsti Cass. 22-10-2007 numero 22087 . 3 Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal resistente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 1.600,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.