Indennità di maternità dichiarata all’INPS ma mai versata alla dipendente. Dichiarazione infedele? No, truffa in piena regola

Confermata la linea dura già adottata nei primi due gradi di giudizio non si può parlare di omissione o di falsità. Ciò che conta è la condotta tenuta dal datore di lavoro e l’obiettivo che egli si è prefissato di raggiungere, cioè ottenere il conguaglio di somme mai versate. Eppoi non si può trascurare la gravità della condotta rispetto alla difficile situazione della lavoratrice.

Semplice omissione? Semplice falsità? Assolutamente no, è legittimo parlare, senza timori, di truffa questa la contestazione nei confronti del datore di lavoro, che bluffa sulla indennità di maternità prevista per una propria dipendente. Cassazione, sentenza numero 29455/2013, Sezione Seconda Penale, depositata oggi Soldi Virtuali. Casus belli è l’operazione tentata da un datore di lavoro dichiarare all’Istituto nazionale di previdenza sociale «di avere pagato una indennità di maternità» ad una dipendente, e allo stesso tempo ‘trattenere’ per sé quei soldi, privando, per giunta, quella donna «di mezzi essenziali proprio in situazioni di vita di particolare delicatezza». Obiettivo, neanche tanto velato, è ottenere dall’istituto previdenziale il «conguaglio di detta somma, mai corrisposta». Però, per fortuna, il bluff viene scoperto, e l’uomo condannato, sia in primo che in secondo grado, per il delitto di truffa. Linea dura. Ad avviso dell’uomo, però, sarebbe stato più giusto parlare di «omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatorie». Anche perché egli, viene affermato col ricorso per cassazione, ha semplicemente effettuato «una dichiarazione infedele, senza porre in essere artifizi e raggiri» finalizzati alla «truffa». Ma questa visione minimal non viene assolutamente ritenuta plausibile, dai giudici del Palazzaccio. Per questi ultimi, invece, è più che giusto contestare il reato di «truffa», perché tale è qualificabile «la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto». É lapalissiano l’obiettivo, in questa vicenda, prefissato dal datore di lavoro, il quale ha «dichiarato ogni mese all’INPS, con le prescritte denunce contributive, di aver versato somme invece mai corrisposte ai propri dipendenti». Così come è evidente, concludono i giudici confermando la condanna emessa in secondo grado, la «gravità oggettiva del fatto», ossia della condotta tenuta dall’uomo, il quale ha «privato la propria lavoratrice dello specifico reddito mensile costituito dalla indennità di maternità, privandola di mezzi essenziali proprio in situazioni di vita di particolare delicatezza».

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 20 giugno – 10 luglio 2013, numero 29455 Presidente Petti – Relatore Di Marzio Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Lecce ha parzialmente confermato la sentenza del Tribunale della medesima città in data 23.3.2010 di condanna di V.C. per il delitto di truffa avendo quest’ultimo falsamente dichiarato all’INPS di avere pagata ad una lavoratrice una indennità di maternità. 2. Ricorre assistito da difensore l’imputato, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte di Appello 1 ritenuta integrata la fattispecie di truffa in luogo della figura di reato descritto nell’art 37 legge numero 689/1981 pur essendosi l’imputato limitato ad effettuare una dichiarazione infedele senza inoltre porre in essere gli artifizi e raggiri integranti elementi di fattispecie del reato di truffa 2 per aver giudicato le circostanze attenuanti meramente equivalenti e non prevalenti rispetto alla circostanza aggravante senza congrua motivazione a sostegno. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. Così nel primo motivo, avendo questa Corte stabilito che integra il delitto di truffa, e non il meno grave reato di omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatoria articolo 37 della legge 24 novembre 1981, numero 689 , la condotta dei datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva. La Corte ha precisato che il meno grave reato di cui all’articolo 37 citato si differenzia dalla truffa sia per l’assenza di artifici e raggiri sia per la finalizzazione del dolo specifico, diretto ad omettere il versamento in un tutto o in parte di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatoria Cass. sez. II, 3.10.2012, numero 42937 . Nel caso di specie l’imputato ha realizzato una condotta esattamente in termini, avendo dichiarato ogni mese all’INPS, con le prescritte denunce contributive, di aver corrisposto somme invece mai corrisposte ai propri dipendenti. Cosicché la Corte territoriale ha fatto esatta applicazione dei principio di diritto, di cui nulla si dice nel ricorso. Quanto al giudizio sulle circostanze, l’equivalenza tra aggravanti e circostanze attenuanti generiche è correttamente motivata con riguardo alla gravità oggettiva del fatto, sottolineata in maniera attenta dalla Corte di merito, che rileva come il datore di lavoro abbia privato la propria lavoratrice dello specifico reddito mensile costituito dalla indennità di maternità, privandola di mezzi essenziali proprio in situazioni di vita di particolare delicatezza. 2. Ne consegue il rigetto del ricorso e, per il disposto dell’articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorsa e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.