L’atto sessuale violento non riguarda la zona genitale: il delitto e’ consumato, non tentato

Integra il delitto di violenza sessuale nella forma consumata, e non tentata, il violento compimento di atti sessuali che, pur non interessando la zona genitale della vittima, attingano zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 28118, depositata il 27 giugno 2013. Il caso. La Corte d’Appello di Bologna, confermando la statuizione del G.U.P. del Tribunale di Rimini e riconoscendo l’attenuante della minore gravità del fatto con conseguente diminuzione della pena, riteneva un uomo colpevole del delitto di cui all’art. 609 quater c.p., per aver lo stesso compiuto violenza sessuale in danno di un minore degli anni quattordici, violenza consistita in toccamenti della coscia e dell’inguine. L’imputato aveva, a tal fine, preso posto a bordo di un autobus accanto alla vittima nonostante vi fossero altri posti liberi. Avverso la sentenza di secondo grado il condannato proponeva ricorso in Cassazione fondato su due motivi. Il primo atteneva all’erronea qualificazione del fatto di reato quale delitto nella forma consumata e non tentata con conseguente erronea applicazione dell’art. 609 quater c.p. . Secondo le prospettazioni difensive, la fattispecie delittuosa non poteva ritenersi del tutto consumata, in quanto oggetto degli atti sessuali erano state zone, quali la coscia coperta dai pantaloni e l’inguine, non rientranti nella categoria degli organi genitali o in quella delle zone erogene. Il secondo motivo si basava sull’erronea applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., attraverso cui la difesa eccepiva che, anche a voler considerare consumato il delitto in questione, la Corte territoriale non aveva tenuto in debito conto le caratteristiche del fatto, la personalità dell’imputato e le finalità rieducative della pena, non avendo contenuto quest’ultima nei minimi di legge. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso. La sfera sessuale comprende anche gli organi non genitali. Il Supremo Collegio, infatti, non condivide gli assunti della difesa dell’imputato. In particolare, i giudici di legittimità precisano che la Corte d’Appello ha analiticamente affrontato e superato le doglianze poste dal condannato rispetto alla ritenuta consumazione del delitto de quo . Il collegio di secondo grado ha, infatti, correttamente applicato l’orientamento giurisprudenziale per cui il reato di violenza sessuale deve considerarsi consumato anche qualora gli atti sessuali violenti riguardino organi non prettamente genitali, ma comunque essi attingano zone erogene in grado di eccitare la concupiscenza sessuale del soggetto agente. Nel caso in questione, le zone fatte oggetto di indesiderato contatto si trovavano in prossimità degli organi genitali e, comunque, esse possedevano l’attitudine a suscitare desiderio sessuale nell’imputato. Ne è derivata, secondo la Suprema Corte, una palese e violenta violazione della sacralità del corpo della giovane vittima. La genericità dei motivi di ricorso costa. La seconda doglianza viene posta lapidariamente nel nulla dalla Suprema Corte. Secondo la terza sezione penale essa si connota per la sua genericità, non avendo la difesa tenuto in debito gli elementi quali la giovane età della vittima e i precedenti specifici dell’imputato che la Corte d’appello aveva valutato e correttamente utilizzato nella quantificazione della pena, la quale è stata, infatti, ridotta a seguito del riconoscimento della minore gravità del fatto, in ossequio al disposto di cui all’art. 609 bis , comma 3, c.p. Naturale conseguenza di tale genericità del motivo di ricorso è la condanna dell’imputato al pagamento, oltre che delle spese processuali, della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 616 c.p.p., avendo lo stesso dato causa, con colpa, alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione. Ancora una volta la Corte di Cassazione stigmatizza la proposizione di ricorsi che si caratterizzano per la vaghezza e per la genericità dei motivi, applicando la norma del codice di procedura art. 616 che ha per finalità proprio quella di ovviare” ad un simile atteggiamento, considerato dal legislatore non rispettoso del ruolo che il giudizio di legittimità riveste nel sistema processuale.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 13 febbraio - 27 giugno 2013, n. 28118 Presidente Teresi – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con sentenza del 13 ottobre 2011, la Corte d'appello di Bologna ha confermato, quanto alla ritenuta responsabilità penale e civile per i danni cagionati, riconoscendo la circostanza attenuante della minore gravità del fatto e, conseguentemente, rideterminando la pena in diminuzione, la sentenza del GUP del Tribunale di Rimini del 17 ottobre 2001, resa a seguito di giudizio abbreviato, con la quale l'imputato era stato condannato, per il reato di cui all'art. 609 quater, perché compiva con un minore, di anni 12 di età, atti sessuali consistenti in toccamenti della coscia e dell'inguine, dopo essersi, a tale scopo, seduto sull'autobus accanto a lui, pur in presenza di molti altri posti liberi. 2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo 1 l'erronea applicazione della norma incriminatrice e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, perché non si sarebbe preso in considerazione che il reato avrebbe potuto essere al più ritenuto configurato a livello di tentativo, non essendo stata toccata una zona genitale e neppure erogena, ma solo una coscia, coperta dai pantaloni 2 l'erronea applicazione degli artt. 132 e 133 cod. pen., perché, anche considerando il delitto nella forma consumata, le caratteristiche del fatto, la personalità dell'imputato e le finalità rieducative della pena avrebbero dovuto indurre il giudice a contenere la pena nei minimi di legge. Considerato in diritto 3. – Il ricorso è inammissibile. 3.1. - Condividendo l’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di primo grado, la Corte d'appello ha, con analitiche e coerenti argomentazioni, affrontato puntualmente i rilievi critici proposti dalla difesa con il primo motivo di doglianza, in particolare rilevando che il fatto, quale emerge dalle precise e circostanziate dichiarazioni della persona offesa, deve essere qualificato come reato consumato, perché gli atti posti in essere erano già idonei a violare la sfera sessuale della stessa persona offesa, avendo invaso la sua corporeità in un distretto assolutamente prossimo ai genitali, che certamente non è neutro sotto il profilo sessuale e che è definibile quale zona erogena. Così ricostruendo la fattispecie, la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione di quanto del noto e consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui integra il delitto di violenza sessuale nella forma consumata, e non tentata, il violento compimento di atti sessuali che, pur non interessando la zona genitale della vittima, attingano zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale ex multis, sez. 3, 18 ottobre 2011, n. 41096, Rv. 251316 . Ne deriva la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso. 3.2. - Inammissibile, per genericità, è la censura relativa alla determinazione della pena. Nel formularla, la difesa non mostra, infatti, di tenere conto degli elementi già ampiamente valutati dalla Corte d'appello e correttamente utilizzati quali parametri per la determinazione del trattamento sanzionatorio, quali la giovanissima età della vittima e i precedenti specifici dell'imputato. 4. - Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.