Sì alle mansioni inferiori per il dipendente divenuto inidoneo

Il datore di lavoro, prima di poter legittimamente licenziare il lavoratore divenuto inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni, deve verificare che non siano presenti nel proprio assetto produttivo altre mansioni – quand’anche inferiori – cui quest’ultimo può essere assegnato c.d. « repechage » . Il lavoratore ha solo l’onere di allegare tale possibilità, mentre grava sul datore di lavoro la prova dell’inesistenza di tali mansioni.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza numero 18025 depositata il 19 ottobre 2012. Il caso. Un lavoratore ricorreva al Giudice del lavoro esponendo di aver presentato domanda di pensione di inabilità, alla luce di una visita effettuata presso la competente Commissione Medica in cui era stato giudicato permanentemente inidoneo a svolgere le proprie mansioni ancorché non assolutamente inidoneo a svolgere qualsiasi attività lavorativa . A seguito di tale richiesta, il datore di lavoro nella specie una ASL aveva «risolto» il rapporto di lavoro adducendo l’impossibilità di fruire utilmente della sua residua capacità lavorativa. Su tali premesse, il ricorrente chiedeva la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato, con conseguente riammissione in servizio in mansioni compatibili con il proprio stato di salute. La Corte di Appello di Potenza, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le domande rilevando come, indipendentemente dalla qualificazione formalmente attribuita all’atto espulsivo i.e. «risoluzione» , quest’ultimo dovesse qualificarsi come recesso i.e. licenziamento che, tuttavia, risultava illegittimo attesa la possibilità per la ASL di assegnare il ricorrente alle mansioni - pur qualitativamente inferiori - di «tenuta dell’archivio clinico». La qualificazione giuridica dei fatti è riservata al Giudice . Avverso la pronuncia di Appello la ASL ricorreva alla Corte di Cassazione lamentando, per quel che qui interessa esaminare, come il Giudice di merito avesse accolto la domanda del lavoratore fondata sulla violazione dell’articolo 16 D.P.R. numero 671/1979 applicando una disciplina da quest’ultimo mai invocata i.e. l’articolo 18 Stat. lav. . Argomentazione che, ad avviso della Corte, è priva di pregio in quanto, dalle risultanze processuali, emergeva che la domanda del lavoratore avesse ad oggetto la declaratoria di «nullità ed illegittimità» del provvedimento datoriale, con richiesta di «riammissione in servizio []». Domanda che, prosegue la Corte, era evidentemente diretta ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, pur sulla base di una norma diversa da quella poi applicata dalla Corte di Appello. Su tali presupposti, la Cassazione chiarisce che il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sancito dall’articolo 112 c.p.c., «non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base ad una qualificazione giuridica dei fatti medesimi diversa da quella invocata dall’istante». Non può tuttavia essere tutelato un bene della vita diverso da quello richiesto . Il limite imposto dall’articolo 112 c.p.c., prosegue la Cassazione, impedisce al Giudice solo l’attribuzione di un bene della vita diverso da quello richiesto nonché di «emettere qualsiasi pronuncia – su domanda nuova quanto a causa petendi – che non si fondi sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo come oggetto del contraddittorio». In caso di sopravvenuta inidoneità il repechage si estende anche alle mansioni inferiori . Con un ulteriore motivo, la ASL lamentava l’erronea qualificazione operata dai Giudici di merito del provvedimento di «risoluzione» del rapporto, posto che era stato il lavoratore a chiedere di essere collocato in pensione manifestando così la volontà di cessare il rapporto di lavoro. Per tale ragione, ad avviso della ricorrente, il suddetto provvedimento di «risoluzione» non poteva essere equiparato ad un licenziamento. Anche questo motivo risulta tuttavia infondato in quanto, ritiene la Corte, a fronte della domanda di pensionamento la ASL avrebbe dovuto limitarsi ad emettere un provvedimento di diniego e non, come invece aveva fatto, recedere dal rapporto prima di verificare la presenza di altre mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore. Affermando il principio di cui alla massima, pertanto, la Cassazione rigetta anche questo ulteriore motivo poiché l’istruttoria aveva dimostrato la presenza in azienda di altre mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, cui quest’ultimo era stato temporaneamente assegnato prima del licenziamento.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 luglio - 19 ottobre 2012, numero 18025 Presidente De Renzis – Relatore Venuti Svolgimento del processo Con ricorso al Tribunale di Matera, in funzione di giudice del lavoro, B.G. , commesso-portiere alle dipendenze della Azienda Sanitaria U.S.L. numero X di Montalbano Jonico, esponeva di avere presentato in data 19 febbraio 1999 domanda di pensione di inabilità ai sensi dell'articolo 2, comma 12, della legge 8 agosto 1995 numero 335 che, sottoposto a visita dalla Commissione medica ospedaliera presso l'Ospedale omissis , era stato giudicato inidoneo a svolgere le mansioni assegnategli dall'Azienda, ma non assolutamente e permanentemente inabile a svolgere qualsiasi attività lavorativa che l'Ente datore di lavoro, dando atto che egli non poteva essere utilizzato in mansioni rientranti nel suo profilo professionale o in mansioni. inferiori, aveva risolto il rapporto di lavoro, procedendo alla risoluzione del rapporto di lavoro e quindi, sostanzialmente, al suo licenziamento che egli aveva contestato tale provvedimento, adottato in violazione degli articolo 16 d.p.r. numero 671 del 1979 e 16 d.p.r. numero 348/90, senza esito. Ciò premesso, convenendo in giudizio il datore di lavoro, chiedeva dichiararsi nullo ed illegittimo il licenziamento, previa la sua riammissione in servizio in mansioni compatibili con il suo stato di salute, con la condanna del datore di lavoro alla corresponsione delle retribuzioni non percepite ed al risarcimento del danno. Il Tribunale adito rigettava la domanda. Tale decisione, impugnata dal lavoratore, veniva riformata dalla Corte di Appello di Potenza, che con sentenza in data 8 maggio 2008 dichiarava illegittimo il licenziamento, ordinando l'immediata reintegra dell'appellante nel posto di lavoro, e condannava l'Azienda al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del recesso sino all'effettiva reintegra, con gli accessori di legge ed il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Osservava la Corte territoriale, per quanto rileva in questa sede, che non era ravvisabile alcun nesso tra la domanda di pensione di inabilità e il provvedimento risolutorio del rapporto di lavoro che, pur fondato sul giudizio medico-legale acquisito durante l'istruttoria della domanda di pensione, configurava un vero e proprio licenziamento che il datore di lavoro, in tanto poteva procedere al licenziamento del lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni affidategli, in quanto avesse accertato l'impossibilità di assegnargli, con il suo consenso, altre mansioni, anche non equivalenti, compatibili con il suo stato di salute, posto che unicamente siffatta impossibilità, che lo stesso datore di lavoro era tenuto a provare ai sensi dell'articolo 5 della legge numero 604 del 1966, oltre che in base alla regola generale di cui all'articolo 2697 c.c., rendeva legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex articolo 3 della predetta legge che una prova del genere era invece mancata nella specie, risultando viceversa dalla prova testimoniale che l'appellante era stato destinato, in prossimità del licenziamento, per le sue condizioni di salute, alla tenuta dell'archivio clinico, per il soddisfacimento di reali esigenze dell'Azienda, come era dimostrato dal fatto che successivamente identico incarico era stato conferito ad altro dipendente che il licenziamento era pertanto illegittimo. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l'Azienda. Il lavoratore resiste con controricorso. L'Azienda ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c Motivi della decisione Il ricorso è articolato in cinque motivi, cui fanno seguito i relativi quesiti di diritto ex articolo 366 bis c.p.c., ora non più vigore, applicabile ratione temporis alla controversia in esame. 1. Con il primo motivo la ricorrente, denunziando, in relazione all'articolo 360, primo comma, nnumero 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 c.p.c. nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamenta che la Corte territoriale ha accolto la domanda del lavoratore, fondata sulla violazione dell'articolo 16 d.p.r. numero 671 del 1979 e dell'articolo 16 d.p.r. numero 348/90, applicando alla fattispecie in esame una disciplina del tutto diversa, mai invocata dallo stesso lavoratore. Questi aveva infatti chiesto il riconoscimento del diritto, previsto dalle predette disposizioni, ad ottenere il passaggio ad altre funzioni nonché la riammissione in servizio con mansioni compatibili con il suo stato di salute. La Corte territoriale ha invece inammissibilmente alterato sia la causa petendi, accertando la illegittimità del recesso e non già, come richiesto, la sussistenza del diritto ad ottenere il passaggio ad altre funzioni, che il petitum, reintegrando il lavoratore ai sensi dell'articolo 18 St. lav. e ponendolo in una situazione giuridica e materiale incompatibile con il suo stato di salute e con il suo stesso volere. Rileva altresì la ricorrente che il licenziamento non è stato impugnato nei modi e nei termini previsti dall'articolo 6 della legge numero 604 del 1966. Ed infatti la nota a firma del rappresentante sindacale della CGIL è una lettera di protesta e di biasimo nei confronti della delibera aziendale di risoluzione del rapporto, mentre la lettera del difensore del lavoratore non costituisce valida impugnazione, essendo priva della sottoscrizione del lavoratore e non recando la menzione della procura speciale conferita al legale per l'impugnativa. 2. Il motivo non è fondato. Come risulta dal ricorso introduttivo del giudizio di primo grado - il cui esame non è precluso a questa Corte, attesa la natura del vizio denunziato - il lavoratore, dopo aver premesso che egli aveva presentato domanda di pensione di inabilità ai sensi dell'articolo 2, comma 12, della legge 8 agosto 1995 numero 335 e che l'Azienda con delibera del Direttore generale del 20 dicembre 1999 aveva proceduto alla risoluzione del rapporto, dando atto che egli - dichiarato totalmente inidoneo a svolgere le mansioni di commesso-portiere, ma non qualsiasi attività lavorativa - non poteva essere utilizzato in mansioni di altro profilo professionale equivalente, perché inesistente, o in altre mansioni, anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ha invocato l'applicazione dell'articolo 16 d.p.r. numero 671/79 Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali e dell'articolo 16 d.p.r. 348/90 Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 6 aprile 1990 concernente il personale del Comparto del Servizio Sanitario Nazionale di cui all'articolo 6 del Decreto del Presidente della Repubblica 5 marzo 1986 numero 68 , disposizione quest'ultima che, nel regolare compiutamente la precedente disciplina prevista sulla stessa materia dall'articolo 16 d.p.r. numero 671/79, ha disposto che, nei confronti del dipendente riconosciuto fisicamente inidoneo in via permanente allo svolgimento delle mansioni attribuitegli, l'ente non può procedere alla dispensa dal servizio per motivi di salute prima di avere esperito, secondo le modalità ivi indicate, ogni utile tentativo, compatibilmente con le strutture organizzative dei vari settori, per recuperarlo al servizio attivo, accertando quali siano le mansioni che il dipendente, in relazione alla posizione funzionale e profilo professionale di appartenenza, sia in grado di svolgere ed adibendolo, a domanda, anche in posizione funzionale inferiore. Sulla base di tali premesse, il lavoratore ha chiesto che venisse dichiarato nullo ed illegittimo il licenziamento e, per l'effetto, la sua riammissione in servizio con le mansioni che potranno essere utilmente espletate in ordine alla corresponsione della retribuzione non percepita dal momento del licenziamento sino alla riammissione in servizio o nella misura che sarà ritenuta equa e di giustizia e al risarcimento del danno . La domanda del lavoratore era dunque volta non già, come sostenuto dalla ricorrente, al riconoscimento del diritto, ex articolo 16 d.p.r. numero 348/90, ad ottenere il passaggio ad altre mansioni, bensì alla declaratoria di illegittimità del licenziamento e alla sua reintegrazione nel posto di lavoro in mansioni compatibili con il suo stato di salute, illegittimità derivante dalla mancata osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 16 d.p.r. dianzi indicato. La Corte territoriale, dopo aver affermato che non vi era alcun nesso tra la domanda di pensione di inabilità ex articolo 2, comma 12, L. 335/95 e il provvedimento risolutorio del rapporto di lavoro, ha osservato che il datore di lavoro, cui incombeva il relativo onere, non aveva provato l'impossibilità di assegnare al lavoratore altre mansioni, anche non equivalenti, compatibili con il suo stato di salute, onde il licenziamento adottato nei suoi confronti per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge numero 604/66 era illegittimo, con le conseguenze di cui all'articolo 18 Si lav. Così essendo, è da escludere la dedotta violazione dell'articolo 112 c.p c, avendo questa Corte più volte affermato che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - come il principio del tantum devolutum quantum appellatum articolo 434 e 437 cod. proc. civ. - non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti, autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all'applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall'istante, ma implica tuttavia il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita - diverso da quello richiesto petitum mediato - oppure di emettere qualsiasi pronuncia - su domanda nuova, quanto a causa petendi - che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo - anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte -ma su elementi di fatto, che non siano, invece, ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio cfr. Cass. 12 maggio 2006 numero 11039 Cass. 11 luglio 2007 numero 15496 Cass. 25 settembre 2009 numero 20652 Cass. 28 giugno 2010 numero 15383 . In sostanza, il vizio di ultra ed extra petizione ricorre solo quando il giudice, interferendo indebitamente nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi di identificazione dell'azione o dell'eccezione, pervenendo ad una pronunzia non richiesta o eccedente i limiti della richiesta o eccezione, mentre deve escludersi la violazione dell'articolo 112 c.p.c. tutte le volte in cui la pronunzia vi corrisponda nel suo risultato finale, sebbene fondata su argomentazioni giuridiche diverse da quelle prospettate dalle stesse parti, essendo il giudice libero di individuare l'esatta natura dell'azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate, attenendo ciò all'obbligo inerente all'esatta applicazione della legge cfr. Cass. 15383/2010 cit. nonché Cass. numero 14552/2005 Cass. numero 26999/2005 . 3. La censura relativa alla mancanza e/o irritualità della impugnativa del licenziamento, di cui non v'è traccia nella sentenza impugnata, è inammissibile, trattandosi di questione nuova che la ricorrente non ha allegato di aver dedotto in primo grado e di aver riproposto appello articolo 346 c.p.c. . Attenendo ad un diritto disponibile, la decadenza prevista dall'articolo 6 della legge numero 604 del 1966 non può essere rilevata d'ufficio, ma necessita di una eccezione in senso stretto, che deve essere proposta dal datore di lavoro convenuto in giudizio con la memoria di costituzione Cass. 2 febbraio 1991 numero 1035 Cass. 6 novembre 1990 numero 10644 Cass. 2 dicembre 1988 numero 6546 . 4. Con il secondo motivo la ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione degli arti 2119, comma 1, c.p.c, 3,5 e 6, comma 1, L. 604 del 1966, in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3, c.p.c, rileva che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che non vi fosse alcun nesso tra la domanda di pensione e il provvedimento risolutorio del rapporto. Ed infatti, nel presentare tale domanda, il lavoratore ha manifestato la volontà di essere collocato a riposo e di risolvere il rapporto per effetto del suo stato di inabilità assoluta e permanente. La cessazione del rapporto, dunque, è dipesa dalla iniziativa del lavoratore e non già da una iniziativa unilaterale dell'amministrazione, come ritenuto dalla Corte di merito, posto che l'Azienda non aveva alcuna facoltà di scelta in ragione della accertata impossibilità del lavoratore di svolgere le mansioni di portiere. Né il provvedimento di risoluzione poteva essere equiparato ad un licenziamento, onde erano inapplicabili nella fattispecie gli articoli 2119 c.c. e 3 della legge numero 604 del 1966. Non vi era poi a carico dell'Azienda, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, l'onere di dimostrare l'impossibilità di impiego del dipendente in altre mansioni nell'ambito dell'organizzazione aziendale, essendo piuttosto a carico del lavoratore l'onere di deduzione e di allegazione della possibilità di repechage, nella specie non adempiuto. 5. Anche tale motivo è infondato. A seguito della domanda di pensione di inabilità di cui all'articolo 2, comma 12, della legge numero 335/85, la quale presuppone, tra l'altro, che il lavoratore sia affetto da infermità non dipendenti da cause di servizio per le quali si trovi nell'assoluta infermità di svolgere qualsiasi attività lavorativa, l'Azienda, una volta accertato che l'odierno controricorrente non si trovava in tale situazione, essendo - come è pacifico - viceversa inidoneo allo svolgimento delle sole mansioni di commesso-portiere assegnategli, avrebbe dovuto emettere un provvedimento di diniego della pensione di inabilità cfr. articolo 8, comma 4, decreto ministeriale 8 maggio 1997 numero 187, al quale l'articolo 2, comma 12, dianzi indicato, ha demandato la determinazione delle modalità applicative del predetto comma . L'Azienda, invece, sul presupposto che il lavoratore non poteva svolgere le mansioni assegnategli né poteva essere utilizzato in mansioni di altro profilo professionale, anche inferiore, ha risolto il rapporto di lavoro. La Corte territoriale ha correttamente ravvisato in tale condotta un vero e proprio licenziamento per giustificato motivo oggettivo articolo 3 L. 604/66 , determinato dal venir meno della idoneità fisica del lavoratore di espletare regolarmente la prestazione lavorativa e collegato solo occasionalmente alla domanda di pensione di inabilità, in quanto basato sul giudizio medico-legale acquisito durante l'istruttoria della domanda di pensione. Ha inoltre osservato che la ricorrente, cui incombeva il relativo onere, non aveva fornito la prova che non fossero disponibili nella dotazione organica dell'Azienda altri posti di lavoro da potere attribuire al dipendente in relazione al suo profilo professionale, né dell'impossibilità di assegnare al medesimo altre mansioni compatibili con il suo stato di salute. Anzi, doveva escludersi tale impossibilità, dal momento che il lavoratore, come era emerso dalla prova testimoniale, in prossimità del licenziamento era stato destinato, per le sue condizioni di salute, alla tenuta dell'archivio clinico per il soddisfacimento di reali esigenze del datore di lavoro, incarico questo successivamente conferito ad altro dipendente. Tale ultimo accertamento non è sindacabile in questa sede, essendo le argomentazioni della Corte territoriale immuni da vizi e sorrette da motivazione adeguata e non contraddittoria e risultando del tutto estranea ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad una autonoma, propria valutazione delle risultanze processuali. Fermo restando, poi, che l'onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza grava interamente sul datore di lavoro e che viceversa è a carico del lavoratore un onere di allegazione e deduzione della possibilità di repechage, deve osservarsi che nella specie tale onere deve ritenersi superato dalla accertata assegnazione del B. , in ragione delle sue condizioni di salute, alla tenuta dell'archivio clinico e dal successivo conferimento di tale incarico ad altro dipendente. 6. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 16 d.p.r. 761/79, 16 d.p.r. 384/90, 72 d. lgs. 29/93, 414 e 437 c.p.c., in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3 c.p.c. nonché omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la controversia. Rileva che le norme poste a fondamento della domanda del lavoratore erano gli articoli 16 d.p.r. 761/79 e 16 d.p.r. 384/90. La Corte di appello ha omesso di applicare tali disposizioni ed ha invece deciso la controversia in base alle regole generali sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, in violazione dell'articolo 112 c.p.c 7. Il motivo è infondato, alla stregua delle argomentazioni esposte sub numero 2 e della giurisprudenza ivi menzionata, con riguardo alla analoga eccezione di violazione della disposizione dianzi indicata. 8. Con il quarto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli articolo 2119 c.c., 3 e 5 L. 604/66, 116 c.p.c., 32 e 97 Cost. nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'articolo 360, primo comma, nnumero 3 e 5 c.p.c Si deduce che non vi era possibilità per l'Azienda di assegnare il dipendente ad altre mansioni, anche inferiori, e che in ogni caso le attività alle quali il dipendente poteva ipoteticamente essere assegnato erano incompatibili con le patologie da cui il medesimo era affetto. Aveva dunque errato la Corte territoriale, sul rilievo che il dipendente, per il soddisfacimento di reali esigenze dell'Azienda era stato assegnato in prossimità del licenziamento alla tenuta dell'archivio clinico, a ritenere che fosse possibile un suo reimpiego in altre mansioni. Sul punto, ad avviso della ricorrente, la valutazione delle risultanze probatorie non è sorretta da una motivazione adeguata ed anzi l'esame delle stesse rivela l'illogicità delle argomentazioni che, oltre a non trovare riscontro nelle deposizioni testimoniali e nei documenti, non permette di comprendere l'iter logico seguito. 9. Il motivo è infondato. Questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti salvo i casi tassativamente previsti dalla legge . Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base cfr., tra le altre, Cass. 9 agosto 2004 numero 15355 Cass. 21 aprile 2006 numero 9368 Cass. 18 aprile 2007 numero 9245 Cass. 26 giugno 2007 numero 14752 . Nella specie, come già esposto sub numero 5, la Corte territoriale ha ritenuto, con motivazione priva di vizi, sufficiente e non contraddittoria, che la ricorrente, cui incombeva il relativo onere, non aveva fornito la prova che la dotazione organica dell'Azienda non prevedesse altri posti rientranti nel profilo professionale del lavoratore e che comunque non potessero essergli assegnate altre mansioni compatibili con il suo stato di salute. Una siffatta impossibilità doveva anzi escludersi, dal momento che il lavoratore, come era emerso dalla prova testimoniale, in prossimità del licenziamento era stato destinato, per le sue condizioni di salute, alla tenuta dell'archivio clinico dell'Azienda, incarico questo successivamente conferito ad altro dipendente. La censura in esame è dunque priva di fondamento. 10. Il quinto motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli articoli 18 St. lav., 1218 e 1227 c.c. in relazione allo articolo 360 C.P.C. . Si deduce che la Corte territoriale nel condannare l'Azienda al pagamento delle retribuzioni dalla data del recesso sino all'effettiva reintegra nel posto di lavoro, non ha considerato che al lavoratore era stata erogata, a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, la somma di Euro 9.005,40, che andava dedotta dall'importo spettante al lavoratore che, a seguito della risoluzione del rapporto, è stata riconosciuta al lavoratore, su sua domanda, la pensione ordinaria di inabilità ex articolo 2 L. 222/84, la quale è incompatibile con la reintegrazione e con il risarcimento di cui all'articolo 18 St. lav. che tale ultima disposizione può trovare applicazione solo allorché il lavoratore faccia valere il proprio diritto con una certa tempestività e non già, come nella specie, a distanza di tre anni dal licenziamento, ipotesi questa nella quale deve farsi applicazione dell'articolo 1227 c.c. Concorso del fatto colposo del creditore ai fini della detrazione, anche d'ufficio, del c.d. aliunde perceptum. 11. Il motivo è inammissibile, investendo questioni nuove di cui non v'è menzione nella sentenza impugnata, questioni che la ricorrente non ha allegato di aver dedotto in primo grado e di aver riproposto in appello articolo 346 c.p.c. . 12. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, previa condanna della ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, che liquida in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.