Espressioni come “prepotente”, “arrogante” e “sprovveduto” travalicano senza ombra di dubbio i limiti della continenza verbale e, se pronunciate all’interno di un rapporto professionale dall’avvocato nei confronti del sovraintendente di polizia in servizio, non possono rientrare nell’ambito del legittimo diritto di critica.
Lo ribadisce la Suprema Corte con sentenza numero 24891/18 depositata il 4 giugno. Il caso. Decidendo sull’appello proposto dalla parte civile, il Tribunale riformava parzialmente la sentenza del Giudice di Pace con la quale l’imputata era stata condannata per il reato di diffamazione e liquidava la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno in via equitativa. L’imputata ricorre in Cassazione lamentando, oltre l’inammissibilità dell’appello per carenza di interesse della parte civile, la violazione di legge relativamente alla sussistenza della scriminante del diritto di critica. La scriminante del diritto di critica. Affermando, anzitutto, l’esistenza dell’interesse ad impugnare della parte civile, in virtù del fatto che il giudice di prime cure nel quantificare il danno non aveva fornito alcuna giustificazione, gli Ermellini si soffermano sulla questione relativa alla scriminante del diritto di critica. In particolare, perché tale causa oggettiva di esclusione della configurabilità del reato possa operare, «le espressioni usate devono essere tali da non trasmodare in un’aggressione verbale» e devono «limitarsi ad espressioni aspre e appellativi forti». Inoltre, prosegue il Collegio, tali espressioni devono essere «prive di potenzialità di insulto, in quanto inserite in un contesto dialettico, di legittima critica». Nella specie, l’inoltro di una missiva, nell’ambito di un rapporto professionale tra l’avvocato e il sovrintendente della polizia di stato in servizio, non può collocarsi nell’ambito di un contesto dialettico, ma si sostanzia in un’espressa denuncia, destinata, fra l’altro, ai superiori gerarchici del sovraintendente. Travalicando, pertanto, i limiti della continenza verbale e, dunque, l’ambito del legittimo diritto di critica, i Giudici di legittimità condividono la scelta operata dal Tribunale e decidono per il rigetto del ricorso.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 27 febbraio – 4 giugno 2018, numero 24891 Presidente Palla – Relatore Calaselice Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Mantova in funzione di giudice del gravame, sull’appello della parte civile e dell’imputata, ha parzialmente riformato la sentenza del Giudice di pace di Mantova, con la quale G.L. era stata condannata alla pena ritenuta di giustizia, per il reato di cui all’articolo 595 cod. penumero , oltre al risarcimento del danno quantificato in Euro 800,00, condannando la predetta a titolo di risarcimento, al pagamento della somma, liquidata definitivamente in via equitativa, di Euro 2.500,00, confermando le statuizioni penali, con rigetto del gravame proposto dall’imputata. 2. Avverso l’indicata pronuncia ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputata, tramite il difensore, lamentando quattro vizi. 2.1. Con il primo motivo si eccepisce l’inammissibilità dell’appello per carenza di interesse della parte civile. Nella specie la richiesta risarcitoria era stata formulata dalla parte civile in via equitativa, demandando, quindi, la liquidazione del danno all’apprezzamento del giudice che l’aveva quantificato in primo grado, in Euro 800,00. Inoltre nelle conclusioni formulate nell’atto introduttivo, davanti al giudice di pace e quelle rassegnate in appello, la somma da liquidare era stata diversamente quantificata e, comunque, vi era l’indicazione che la richiesta era da determinare comunque nella diversa maggiore o minore somma ritenuta di giustizia . Di qui la dedotta carenza di interesse ad impugnare, ai sensi dell’articolo 591, comma 1, lett. a cod. proc. penumero 2.2. Con il secondo motivo si chiede l’annullamento delle disposizioni civili adottate con il provvedimento impugnato, quale conseguenza della richiesta principale di declaratoria di inammissibilità dell’appello della parte civile. 2.3. Il terzo motivo denuncia violazione di legge quanto alla sussistenza della scriminante del diritto di critica, ritenendo il contenuto della lettera e le espressioni usate tali da non trasmodare in un’aggressione verbale nei confronti del soggetto criticato, ma mera manifestazione di pensiero svolta anche attraverso espressioni aspre e appellativi forti che, però, in quanto inserite nella critica, hanno perso la loro potenzialità di insulto, conformemente ai parametri espressi dalla Suprema Corte sull’esistenza della scriminante invocata. 2.4. Il quarto motivo denuncia illogicità e contraddittorietà della motivazione, quanto alla causa di non punibilità di cui all’articolo 599, comma 2, cod. penumero Nell’ambito di tale istituto, deduce la ricorrente che la Suprema Corte si riferisce al principio della reciproca elisione delle offese, indipendentemente dalla loro gravità o successione nel tempo, mentre la giurisprudenza richiamata dai giudici di merito si riferisce alla circostanza attenuante di cui all’articolo 62 numero 2 cod. penumero Secondo la ricorrente, per l’articolo 599 cod. penumero si fa riferimento soltanto all’ingiustizia del fatto altrui che ha determinato la reazione diffamatoria. Quanto alla ritenuta non tempestività della reazione, non si può intendere, secondo la ricorrente, la reciprocità di cui all’articolo 599 cod. penumero come contestualità ed istantaneità, dovendo valutarsi la condotta anche in relazione alla natura ed esigenze proprie degli strumenti utilizzati per ritorcere l’offesa e se persiste lo stato di ira al momento della commissione della diffamazione. 3. La difesa della parte civile ha depositato memoria con la quale deduce che i vizi di cui ai numeri 3 e 4 del ricorso sono relativi a valutazioni del giudice di merito insindacabili in cassazione. Inoltre si assume la sussistenza dell’interesse ad impugnare della parte civile sulla quantificazione del danno, tenuto conto che la richiesta risarcitoria principale era stata di 100.000,00 Euro inoltre il giudice del gravame ha i compito di verificare il percorso argomentativo seguito nella determinazione dell’entità del danno, perché non si risolva, pur nell’ambito della valutazione equitativa dell’ammontare dello stesso, in mero arbitrio. Considerato in diritto 1. La Corte osserva che il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere rigettato. 1.1 Con riferimento al primo e secondo motivo si osserva che va riconosciuto, nella specie, l’interesse ad impugnare della parte civile. Tanto a fronte della richiesta risarcitoria avanzata che, sebbene invocata a titolo equitativo in ordine alla quantificazione del danno, risulta specificata anche in una somma determinata. Nella specie, peraltro, il primo giudice nell’individuare la misura del risarcimento nell’importo equitativo di Euro 800,00 non aveva fornito giustificazione, né indicato le ragioni per le quali la quantificazione prospettata dalla parte civile andasse disattesa sicché sussiste l’interesse ad impugnare, tenuto conto che il danno, pur liquidato, come richiesto, secondo equità, risulta quantificato in misura determinata senza motivazione Sez. 5, numero 35104 del 22/06/2013, Baldini, Rv. 257123 nel senso che la valutazione del giudice è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, ove difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria . 1.2. Il terzo motivo è infondato. Il Tribunale in funzione di appello ha correttamente applicato i principi di questa Corte regolatrice, secondo i quali, perché operi la scriminante del diritto di critica, le espressioni usate devono essere tali da non trasmodare in un’aggressione verbale e comunque limitarsi ad espressioni aspre e appellativi forti, ma prive di potenzialità di insulto, in quanto inserite in un contesto dialettico, di legittima critica Sez. 5, numero 4853 del 18/11/2016, dep. 2017, Fava, Rv. 269093 . Si è precisato in sede di legittimità, infatti, che, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti. Nella specie il giudice di appello, con motivazione congrua e non manifestamente illogica, ma in linea con l’indirizzo ermeneutico sopra esposto, ha notato che l’inoltro di una missiva, nell’ambito di un rapporto professionale tra il legale, avvocato G. e il sovrintendente della polizia di stato in servizio D. , non può essere collocato nell’ambito di una contesto dialettico, ma anzi si sostanzia in un’espressa denuncia, peraltro destinata ai superiori gerarchici dell’avversario. Sicché le espressioni contenute nella medesima dove il sovrintendente viene, tra l’altro, indicato come prepotente, arrogante, sprovveduto , indicate dal giudice del gravame come manifestazione di sentimenti ostili e gratuiti, hanno senza dubbio travalicato i limiti della continenza verbale e, comunque, l’ambito del legittimo diritto di critica nei confronti dell’operato dell’avversario e, dunque, risultano idonee a ledere la dignità morale ed intellettuale del destinatario. 1.3. Quanto alla motivazione offerta circa la insussistenza della causa di non punibilità di cui all’articolo 599, comma 2, cod. penumero , si osserva che il giudice di secondo grado ha rimandato alla motivazione del primo giudice che ha sottolineato che la parola cafona pronunciata dal D. nel corso della conversazione telefonica con l’avvocato G. , fosse stata preceduta da un comportamento provocatorio da parte della stessa imputata cfr. sentenza di primo grado pag. 8 nella quale si rileva che l’avvocato G. , nel corso della conversazione telefonica aveva attaccato il suo interlocutore dicendo io che sono laureata, magari sto parlando con uno che non è nemmeno diplomato . Ciò posto si condivide l’assunto secondo il quale l’elisione delle offese, opera indipendentemente dalla loro gravità e rileva, ai fini di cui al comma 2 dell’articolo 599 cod. penumero , l’ingiustizia del fatto altrui che ha determinato la reazione diffamatoria. Sul punto, infatti, il giudice di appello si riporta alla motivazione del giudice di pace che offre ampia giustificazione delle ragioni per le quali, a fronte dell’accertato comportamento che ha preceduto la pronuncia della parola cafona , questa non possa essere intesa come vera e propria provocazione. Quanto alla tempestività della reazione la lettera incriminata parte dopo due giorni dalla telefonata in cui l’avvocato G. è chiamato cafona nel corso della descritta conversazione telefonica con il D. , va esposto che la reciprocità di cui all’articolo 599 cod. penumero , è intesa quale reale contiguità temporale, pur se in senso relativo Sez. 5, numero 30502 del 16/05/2013, Quaretti, Rv. 257700 . Più specificamente è stato osservato in sede di legittimità che, ai fini del riconoscimento dell’esimente invocata, sebbene sia sufficiente che la reazione abbia luogo finché duri lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio, non essendo necessaria una reazione istantanea, è richiesta tuttavia l’immediatezza della reazione medesima. Occorre, cioè, un legame di interdipendenza tra reazione irata e fatto ingiusto subito, sicché il passaggio di un lasso di tempo considerevole può assumere rilevanza al fine di escludere il rapporto causale e riferire la reazione ad un sentimento differente, quale il rancore o una finalità di ritorsione Sez. 5, numero 7244 del 06/07/2015, dep. 2016, Presta, Rv. 267137 . Inoltre tra l’offesa e la reazione deve esserci rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e l’altra condotta Sez. 1, numero 47840 del 14/11/2013, Saieva, Rv. 258454 . Rispetto a tali principi, dunque, alcuna contraddittorietà emerge dalle motivazioni dei giudici di merito. Sicché anche il quarto motivo prospettato deve essere disatteso. 2. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso va, dunque, rigettato con condanna di G.L. al pagamento delle spese processuali e delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado, che si liquidano, tenuto conto della nota spese depositata, come da dispositivo. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del procedimento e alla refusione delle spese della parte civile che liquida in Euro 2.500,00 oltre accessori di legge.