Il PM può richiedere il giudizio immediato sulla base delle confessioni rese dall’indagato

Le confessioni rese dall’indagato durante l’interrogatorio di convalida dell’arresto legittimano il PM a chiedere il giudizio immediato senza la necessità di procedere ad un «secondo interrogatorio».

Così la Corte di Cassazione con sentenza numero 9029/18, depositata il 27 febbraio. Il caso. La Corte d’Appello di Catania, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale della medesima città con giudizio abbreviato, celebrato successivamente alla convalida d’arresto, confermava la responsabilità penale dell’imputato per detenzione illecita di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio, nonché per atti di cessione di detti stupefacenti. Avverso al sentenza della Corte distrettuale l’imputato ricorre per cassazione denunciando, tra i vari motivi di ricorso, che sebbene fosse stato arrestato per la detenzione di droghe leggere, solo con la richiesta di giudizio immediato il PM aveva formulato il capo d’imputazione relativo ad altre tipologie di droghe da questi detenute, capo d’imputazione rispetto cui non era stato espletato l’interrogatorio in violazione dell’articolo 453 c.p.p., a nulla rilevando le confessioni rese dal ricorrente in sede di udienza di convalida circa la detenzione di tali droghe. Il giudizio immediato. Il Supremo Collegio ribadisce che in tema di giudizio immediato l’articolo 453, comma 1, c.p.p. pone quale condizione oggettiva l’interrogatorio dell’indagato sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova. Tuttavia, il citato articolo, «non impone uno specifico interrogatorio da parte del pubblico ministero». Ciò posto, la Suprema Corte evidenzia che «la confessione resa nell’interrogatorio di convalida dell’arresto è condizione sufficiente a legittimare il PM a chiedere il giudizio immediato senza necessità che egli debba procedere ad un secondo interrogatorio», valendo tale principio «non solo per il reato per il quale l’imputato sia stato tratto in arresto e sia intervenuta la convalida, ma anche per il diverso fatto che in sede di interrogatorio reso all’udienza di convalida il primo abbia confessato». In tale evenienza, infatti, risulta integrata l’evidenza della prova «legittimante la richiesta di giudizio immediato» e, parallelamente, non si prospetta alcuna violazione del diritto di difesa, «avendo l’iniziale confessione in questa fase significato solo processuale e valendo come indice della non superfluità del giudizio stesso». La Corte dunque dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 31 gennaio – 27 febbraio 2018, numero 9029 Presidente Petruzzellis – Relatore Scalia Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Catania con sentenza del 12 gennaio 2017, in parziale riforma di quella emessa dal locale Tribunale all’esito di giudizio abbreviato, celebrato successivamente a convalida di arresto, rideterminata la pena in tre anni e dieci mesi di reclusione ed euro quattordicimila di multa, ha nel resto confermato il giudizio di penale responsabilità dell’imputato, N.F. , quanto a due episodi di detenzione illecita, ai fini di spaccio, a lui contestati - e rispettivamente relativi a numero 140 involucri di sostanza stupefacente del tipo marijuana, del peso netto di grammi 129,220 con principio di THC puro pari a 16.630,6 milligrammi, corrispondenti a numero 665,2 dosi medie singole capo A della rubrica ed a numero 3 involucri di cocaina, del peso lordo complessivo di grammi 0,592 con principio attivo pari al 61,40% corrispondente a milligrammi 363,5 di cocaina pura, pari a 2,4 dosi medie singole - e di diversi atti di cessione di stupefacente nei confronti di più acquirenti capo B della rubrica . 2. Ricorre in cassazione nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia con due motivi di annullamento. 2.1. Con il primo motivo fa valere l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione all’articolo 453 cod. proc. penumero . L’imputato era stato tratto in arresto per la sola detenzione di marijuana di cui al capo A della rubrica e soltanto infatti con la richiesta di giudizio immediato il P.m. aveva formulato il capo B dell’imputazione, relativo alla cocaina, rispetto al quale, in violazione dell’articolo 453 cod. proc. penumero , non era stato espletato l’interrogatorio, ipotesi, questa, integrativa di nullità di ordine generale a regime intermedio, riconducibile all’articolo 178, comma 1, lett. c cod. proc. penumero che avrebbe attinto sia la richiesta che il decreto di giudizio immediato. Le dichiarazioni confessorie rese dall’imputato in sede di udienza di convalida in merito alla detenzione di cocaina non avrebbero reso superfluo l’espletamento del nuovo interrogatorio non rappresentando, le stesse, esercizio di facoltà difensive e l’imputato avrebbe dovuto essere posto nelle condizioni di poter essere sentito nelle forme mancate sul fatto nuovo, e più grave, potendo egli ritrattare la resa confessione. 2.2. Con il secondo motivo si fa valere la violazione della legge penale quanto alla ritenuta fattispecie di cui all’articolo 73, comma 5, d.P.R. numero 309 del 1990. La Corte territoriale avrebbe escluso il fatto di lieve entità relativamente alla detenzione di cocaina di cui al capo B argomentando dalle modalità dell’azione criminosa che, attuata in una zona della città contrassegnata dal prevalente dominio della criminalità, si sarebbe avvantaggiata della particolare struttura del muro utilizzato dall’imputato per scambiare con i cessionari lo stupefacente spacciato. Provvisto di un foro, il muro avrebbe consentito al N. di scambiare sostanza contro prezzo senza essere avvistato dal cessionario, preservandogli, all’occorrenza, una comoda via di fuga. Per le indicate modalità non sarebbe stata valorizzata la quantità di sostanza ceduta, pari soltanto a 0,592 grammi, corrispondenti a 2,4 dosi medie singole ed i giudici di appello sarebbero inoltre caduti in errore là dove avevano escluso l’ipotesi attenuata in ragione della natura eterogenea delle sostanze detenute e, comunque, per avere inserito l’azione del prevenuto, in difetto di prova, all’interno di una più complessa organizzazione criminale di cui il primo avrebbe costituito il mero anello finale. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e come tale inammissibile. In tema di giudizio immediato, l’articolo 453, comma 1, cod. proc. penumero si limita a porre la condizione oggettiva che la persona sottoposta alle indagini sia stata interrogata sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova e non impone uno specifico interrogatorio da parte del pubblico ministero Sez. 2, numero 39334 del 07/10/2010, Salerno, Rv. 248873 . A ciò consegue che la confessione resa nell’interrogatorio di convalida dell’arresto - nell’ipotesi in cui si possa ritenere tale confessione alla stregua di una prova evidente - è condizione sufficiente a legittimare il P.m. a chiedere il giudizio immediato senza necessità che egli debba procedere ad un secondo interrogatorio Sez. 6, numero 11625 del 30/10/1992, Rossi, Rv. 192899 . Il principio è destinato a valere non solo per il reato per il quale l’imputato sia stato tratto in arresto e sia intervenuta convalida, ma anche per il diverso fatto che in sede di interrogatorio reso all’udienza di convalida il primo abbia confessato, risultando integrata anche per siffatta ulteriore ipotesi l’evidenza della prova legittimante la richiesta di giudizio immediato senza che possa in tal caso prospettarsi alcuna lesione del diritto di difesa, che potrà ulteriormente dispiegarsi in giudizio, avendo l’iniziale confessione in questa fase significato solo processuale e valendo come indice della non superfluità del giudizio stesso. L’omissione non configura pertanto nullità alcuna riconducibile all’articolo 178, comma 1, lett. c cod. proc. penumero , che sarebbe in ogni caso, nel suo rilievo, assorbita dalla scelta del rito abbreviato formulata nel caso di specie dall’indagato. 2. È manifestamente infondato anche il secondo motivo di ricorso. Il luogo in cui l’imputato è stato sorpreso a spacciare per le sue caratteristiche viene congruamente qualificato nell’impugnata sentenza quale “piazza di spaccio“ anche per peculiari sue connotazioni oggettive tali da facilitare l’attività di cessione a terzi, consentendo lo scambio di sostanza contro prezzo, senza che per ciò lo spacciatore venga avvistato dal cessionario, e permettendo altresì al cedente di allontanarsi dal luogo attraverso un commodus discessus, all’eventuale sopraggiungere delle forze dell’ordine. Siffatte caratteristiche debitamente valorizzate nell’impugnata sentenza sostengono in modo efficace l’esclusione del fatto lieve di cui all’articolo 73, comma 5, d.P.R. numero 309 del 1990, fermo restando che l’attività di spaccio che viene in considerazione nella sentenza della Corte di appello è quella dell’intera sostanza, comprensiva quindi non solo della cocaina, ma anche della marijuana, il cui incontestato quantitativo risulta essere pari a 665,2 dosi medie singole. Si tratta invero di quantità che raccordandosi con le indicate modalità in modo concludente depone, come ritenuto dalla Corte di merito, con ragionamento che sfugge a censura di legittimità, per la non configurabilità della fattispecie del fatto di lieve entità e che rende manifestamente infondato il correlato motivo di ricorso. 3. All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento dell’equa somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.