Tre mesi sono troppi, tra conoscenza dei fatti e licenziamento

In materia di licenziamento disciplinare vige il principio dell’immediatezza della contestazione, di cui all’articolo 7, l. numero 300/1970, che mira da un lato ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile. Di conseguenza, non vi è ragione a giustificare l’esercizio del potere disciplinare a distanza di tre mesi dalla conoscenza da parte del datore di lavoro dei fatti contestati.

Così affermato dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro con la sentenza numero 4724, pubblicata il 27 febbraio 2014. Il caso impugnazione di licenziamento disciplinare intimato dopo circa tre mesi dalla conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro. Un dipendente di istituto bancario, con funzioni di direttore si rivolgeva al Tribunale del Lavoro al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogatogli a seguito di comportamenti ritenuti pregiudizievoli per la banca concessione di esposizioni senza idonee garanzie, mancata istruttoria nella concessione di fidi apertura di conti correnti su nominativi non affidabili . All’esito dell’intero giudizio, la Corte d’Appello, in sede di rinvio, dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare e condannava l’azienda alla reintegrazione del lavoratore ed al risarcimento del danno. Ricorre in Cassazione l’azienda per la riforma della sentenza d’appello. Il principio di immediatezza nel licenziamento disciplinare. La Corte d’Appello, nella sentenza impugnata aveva rilevato un lasso temporale di circa tre mesi tra conoscenza dei fatti contestati e provvedimento espulsivo irrogato. In particolare, i fatti contestati erano emersi alla conclusione di procedura ispettiva iniziata il 17 giugno 2003 e conclusa il 15 luglio 2003 il verbale dell’ispezione era stato ultimato il 19 settembre 2003 e pervenuto alla direzione generale il 2 ottobre 2003. La contestazione di addebito veniva inviata al lavoratore soltanto in data 2 gennaio 2004. Infine il provvedimento espulsivo era stato adottato il 29 aprile 2004. Secondo la Corte di merito, dunque, il lasso di tempo tra messa a disposizione delle risultanze dell’ispezione e contestazione d’addebito era immotivato, venendo così a violare il principio di tempestività ed immediatezza della contestazione. La Corte di Cassazione ribadisce la tardività del provvedimento disciplinare, correttamente individuata dai giudici di merito. È dettato consolidato della Suprema Corte quello secondo il quale in ambito di procedimento disciplinare vige il principio dell’immediatezza della contestazione, di cui all’articolo 7, l. numero 300/1970, che mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile. Con la conseguenza che in caso di tardiva contestazione dei fatti, si realizza una preclusione all’esercizio del potere disciplinare e l’invalidità della sanzione irrogata. Tre mesi sono un tempo eccessivo Nel caso specifico, tra la conclusione delle operazioni di ispezione e la messa a disposizione del relativo verbale ai vertici aziendali e la contestazione di addebito trascorsero tre mesi ed altri tre mesi tra quest’ultima e l’adozione del provvedimento disciplinare. Lasso di tempo che non può trovare giustificazione alcuna. anche tenendo conto della complessità degli accertamenti. Sostiene il datore di lavoro che il lasso di tempo intercorso tra fatti e contestazione sia dipeso dalla complessità degli accertamenti e dalla mole di documenti da esaminare, onde articolare una compiuta contestazione. Ciò, tuttavia - osserva la Suprema Corte - non vale a giustificare il procrastinarsi della contestazione, in quanto a tal proposito è sempre necessario che il datore di lavoro alleghi e provi in giudizio valide ragioni che nel concreto hanno determinato la dilazione dei tempi di contestazione dell’addebito. Prova che nel giudizio è mancata. Oltre tutto, l’ispezione aveva avuto inizio nel giugno 2003 e non vi era ragione per ritenere giustificata una contestazione effettuata dopo un periodo di tempo non idoneo a garantire al lavoratore un’efficace diritto di difesa. “Aliunde perceptum” l’onere della prova grava sul datore di lavoro. Altro motivo di censura riguarda la condanna al pagamento del risarcimento danni in favore del lavoratore. Lamenta la ricorrente che non è stata effettuata alcuna indagine atta a verificare un comportamento colposo del lavoratore nella ricerca di nuovo posto di lavoro, così da limitare il danno. Ma, osserva la Suprema Corte, è principio più volte affermato che spetti al datore di lavoro provare almeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra occupazione o dare la prova della nuova occupazione del lavoratore e di quanto abbia percepito, così da ridurre l’entità del danno risarcibile. A nulla rilevando la difficoltà di tale prova o la mancata collaborazione del lavoratore espulso. Nel caso in esame è mancata tale prova da parte del datore di lavoro. Il ricorso è stato così ritenuto infondato e rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 gennaio – 27 febbraio 2014, numero 4724 Presidente Vidiri – Relatore Arienzo Svolgimento del processo Con sentenza in sede di rinvio del 11.3.2011, la Corte di appello di Roma dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato a D.C.C. il 29.4.2004 e condannava la s.p.a. Banca Monte Paschi di Siena a reintegrare il predetto nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto dal recesso alla reintegra, con detrazione dell' aliunde perceptum pari ad Euro 21.855,41. Rilevava la Corte del merito che era incontestato che l'ispezione disposta dalla Banca - che aveva consentito di pervenire alla contestazione di addebito disciplinare per avere il D.C. assunto, quale Direttore di Filiale, arbitrarie iniziative che avevano contribuito a determinare la progressiva lievitazione delle esposizioni, con conseguenze dannose e rischio per l'istituto - iniziata il 17.6.2003 e conclusasi il 15.7.2003 con verbale ispettivo ultimato il 19.9.2003, inoltrato dall'Ispettorato alla Direzione Generale, e pervenuto il 2.10.2003, per le conseguenti valutazioni e l'adozione dei provvedimenti ritenuti opportuni, solo in data 2.1.2004 era stata seguita dall'invio, da parte del Dipartimento Risorse Umane, della contestazione disciplinare, pervenuta all'interessato il 12 gennaio. Dal momento in cui la Direzione Generale aveva avuto a disposizione le risultanze dell'Ispezione a quello in cui il soggetto deputato aveva inviato la contestazione erano trascorsi circa tre mesi e l'entità delle articolazioni della struttura aziendale non poteva rilevare se non ai fini del giudizio di complessità delle indagini, dovendo tale ragione ritenersi inidonea a giustificare il lasso di tempo intercorso tra il ricevimento del verbale ispettivo e la contestazione, in considerazione dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione in sede di rinvio, con pronunzia numero 13167/2009. Non risultava che la Banca avesse dato seguito ad ulteriori accertamenti, onde il lasso di tempo indicato doveva ritenersi ingiustificato e la contestazione tardiva. Per la cassazione di tale decisione ricorre la Banca, affidando l'impugnazione a due motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell'articolo 378 c.p.c Resiste, con controricorso, il D.C. . Motivi della decisione Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'articolo 360, numero 5, c.p.c., assumendo che la Corte territoriale non ha tenuto minimamente conto del fatto che la Direzione Generale non avrebbe potuto in alcun modo formalizzare la contestazione disciplinare immediatamente dopo avere ricevuto la relazione ispettiva, avendo bisogno di un fisiologico spatium deliberandi per valutare nella loro oggettività i fatti accertati in sede ispettiva per verificare, all'esito della valutazione, la sussistenza di elementi tali da determinare la necessità di apertura del procedimento disciplinare, per ottenere la relativa delibera e redigere la lettera di contestazione. Rileva la ponderosa mole della relazione e dei documenti a sostegno di essa tale da non potere all'evidenza dare luogo ad un'immediata contestazione senza una preventiva e ponderata valutazione da parte degli organi aziendali deputati ad assumere le deliberazioni del caso ed alla predisposizione della complessa lettera di contestazione riferita ad accensione di rapporti intestati a nominativi con pregiudizievoli, creazione di esposizioni notevoli attraverso la concessione di numerosi sconfinamenti o utilizzi in assenza di linee di credito, mancata istruttoria e mancata richiesta di garanzie per i rapporti affidati . Descrive tutte le operazioni oggetto di verifica e rileva che l'Azienda non aveva tenuto un comportamento inerte, avendo allontanato il dipendente dall'agenzia e privato lo stesso del ruolo di Direttore ricoperto nelle more dell'ispezione e dell'apertura del procedimento disciplinare e denotando tale comportamento la volontà datoriale di irrogare la sanzione del licenziamento e di valutare la rilevanza disciplinare del comportamento tenuto dal dipendente. Non aveva, in conclusione, la Corte tenuto conto della estrema complessità della vicenda fattuale, della estrema complessità dell'iter di apertura del procedimento disciplinare, del comportamento complessivo dell'azienda, dell'esigenza del pieno dispiegarsi del diritto di difesa del D.C. . Con il secondo motivo, denunzia ugualmente un vizio motivazionale circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonché violazione e falsa applicazione dell'articolo 1227 c.c., ai sensi dell'articolo 360, numero 3, c.p.c., sostenendo come inadeguata la motivazione a sostegno della decisione di condannare la Banca al pagamento di un risarcimento commisurato ad un intervallo temporale di ben sette anni ed evidenziando la mancanza di ogni indagine diretta a verificare il comportamento colposo del D.C. , che aveva aggravato i danni economici conseguenti al licenziamento intimatogli, non essendosi attivato per la ricerca di un nuovo impiego. Il ricorso è infondato. Quanto al primo dei motivi di impugnazione, rileva il collegio che la tempestività della contestazione di cui all'articolo 7, secondo comma, legge numero 300 del 1970, va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti. Quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio dell'immediatezza della contestazione non può considerarsi violato ove il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all'esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell'esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l'illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale cfr. Cass. 27.3.2008 numero 7983 . Giova, poi, al riguardo, anche osservare, con riferimento ai requisiti che qualificano la tempestività della contestazione e della sanzione disciplinare, come questa Suprema Corte abbia ribadito che il principio tanto dell'immediatezza della contestazione dell'addebito, quanto della tempestività del recesso, la cui ratio riflette l'esigenza del rispetto della regola della buona fede e correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, oltre che dei principi di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento del lavoratore incolpato, deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell'organizzazione del datore di lavoro, ad una adeguata valutazione della gravità dell'addebito mosso al dipendente e delle giustificazioni da lui fornite. Più in particolare, si è affermato che, nel valutare l'immediatezza della contestazione ai fini dell'intimazione del licenziamento disciplinare, occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione con la conseguenza che l'aver presentato a carico di un lavoratore denuncia per un fatto penalmente rilevante, connesso con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell'addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti v. ad es. Cass. numero 1101/2007 Cass. numero 4502/2008 . Il che, se conferma la relatività che riveste il criterio di immediatezza e il rilievo che assume, al riguardo, il sindacato del giudice di merito, porta, al tempo stesso, a riconoscere che un bilanciamento coerente degli interessi sottesi al procedimento di disciplina non consente di individuare nella potenziale rilevanza penale dei fatti accertati e nella conseguente denuncia all'autorità inquirente circostanze di per sé sole esonerative dall'obbligo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che tale obbligo assume rispetto alla tutela dell'affidamento e del diritto di difesa del lavoratore incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore. E quindi, in altri termini, solo se l'intervallo di tempo trascorso sia giustificato non dalla necessità di un accertamento integrale e compiuto del fatto, ma dall'esigenza per il datore di lavoro di acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo cfr., in tali termini, Cass. 7409/2010 . Nella fattispecie all'esame, correttamente la Corte del merito ha ritenuto in violazione del principio di tempestività e quindi tardiva la contestazione disciplinare inviata dal Dipartimento Risorse Umane e pervenuta al D.C. soltanto il 12.1.2004, quando il verbale ispettivo era stato ultimato il 19.9.2003 ed era pervenuto alla Direzione Generale il 2.10.2003. Ed invero, posto che l'ispezione era iniziata il 17.6.2003, non poteva ritenersi giustificata una contestazione effettuata dopo un lasso di tempo non idoneo a garantire un'efficace esplicazione del diritto di difesa dell'interessato, in considerazione dell'epoca risalente di commissione dei fatti addebitati. Deve ritenersi, poi, che gravi sul datore di lavoro l'onere di provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l'accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell'esercizio del potere disciplinare v. sul punto anche Cass. numero 1101/2007 Cass. numero 2023/2006. Nel caso considerato, il giudice d'appello ha dato congruamente conto della eccessiva protrazione temporale della vicenda disciplinare, non giustificata neanche dall'esigenza di attesa dello svolgimento di un processo penale, non essendo stato dimostrato che la struttura dell'azienda fosse tale, per le sue dimensioni e per l'articolazione delle procedure interne in materia disciplinare, da giustificare l'attesa di tempi tecnici adeguati e comunque non potendo difficoltà o carenze organizzative pregiudicare il diritto del lavoratore ad una pronta effettiva difesa, senza considerare il giusto affidamento del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione “disciplinare”, non essendo l'esercizio del potere disciplinare un obbligo ma una facoltà cfr. Cass. 13167/2009 . La seconda censura che si fonda sull'assunto della mancata valutazione del comportamento negligente del prestatore che avrebbe dovuto mantenere un comportamento diverso da quello inerte tenuto nel periodo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo, deve essere ritenuta ugualmente priva di giuridico fondamento, posto che grava sul datore di lavoro la prova del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione ed abbia percepito importi idonei a ridurre l'entità del danno. Tale principio è stato reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, ai fini della sottrazione dell'aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte venga la prova, che il lavoratore ha trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, tale essendo il fatto idoneo a ridurre l'entità del danno risarcibile cfr. Cass. 10 aprile 2012 numero 5676, Cass. 26 ottobre 2010 numero 21919 . Più specificamente, in tema di entità del danno conseguente all'illegittimità del licenziamento, è stato ribadito che, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’”aliunde perceptum o dell1 aliunde percipiendum , a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito. Alle esposte considerazione consegue il rigetto del ricorso. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della società ricorrente e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione in favore del difensore che ha dichiarato di averle anticipate. Non sussistono i presupposti per la responsabilità processuale aggravata della ricorrente, ex articolo 96 c.p.c., ai fini dell'ulteriore risarcimento del danno. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 4500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell'avv. Micaela Pisacane.