Fattura ‘canta’: il compenso è sproporzionato, la sanzione della censura no

L’importo richiesto con le fatture prodotte è riferibile esclusivamente all’attività professionale svolta fino a quel momento e, come tale, è apparso eccessivamente sproporzionato rispetto al valore dell’oggetto.

È quanto emerge dalla sentenza n. 1007/2014 della Corte di Cassazione, depositata il 20 gennaio scorso. Il caso. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati aveva sospeso per 2 mesi dall’esercizio professionale un legale, per aver chiesto compensi manifestamente sproporzionati rispetto all’attività svolta, nonché per aver violato i doveri di probità, dignità e decoro e di quelli di correttezza e lealtà professionale. In sostanza, l’avvocato aveva trattenuto, e incassato, oltre 340mila euro a titolo di compenso per l’attività svolta con riferimento ad una successione ereditaria. La sanzione inflitta è eccessiva? Il CNF, accogliendo parzialmente il ricorso del professionista, modifica la sanzione disciplinare, irrogando quella della censura. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, rigettando il ricorso dell’avvocato, hanno confermato che i compensi richiesti superano di gran lunga i massimi consentiti dalle tariffe all’epoca in vigore, proprio tenuto conto dell’attività professionale espletata . I compensi sono sproporzionati. Infatti – si legge in sentenza – sebbene il professionista possa aver ricevuto incarichi plurimi oltre a quelli con oggetto la successione, l’importo richiesto con le fatture prodotte, il cui oggetto non lascia dubbi all’interprete, ed ottenuto attraverso il pagamento/prelievo dal conto corrente, nel quale era confluita la liquidità del patrimonio mobiliare disinvestito, è riferibile esclusivamente all’attività professionale svolta fino a quel momento e come tale appare eccessivamente sproporzionato rispetto al valore dell’oggetto .

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 26 novembre 2013 – 20 gennaio 2014, n. 1007 Presidente Rovelli – Relatore Vivaldi Svolgimento del processo Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Vicenza, con deliberazione del 2.3-6.4.2011, irrogò all'avvocato G.F. la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio professionale per mesi due perché ritenuta responsabile della violazione dell'art. 43 del codice deontologico forense e in particolare di richiedere compensi manifestamente sproporzionati rispetto all'attività svolta nonché dei doveri di probità, dignità e decoro e di quelli di correttezza e lealtà professionale, per avere incassato, trattenendo dai fondi liquidi della massa ereditaria relativa alla successione del sig. S.F. , la somma di Euro 344.189,13 a titolo di compenso per l'attività professionale svolta sino al febbraio 2006 con riferimento a detta successione ereditaria e avente per oggetto, in particolare, la divisione del solo patrimonio mobiliare investito nel conto n. 64484807 acceso presso Unicredit Banca spa del valore complessivi di Euro 1.390.892,70 . L'avvocato G. impugnò la deliberazione davanti al Consiglio Nazionale Forense sostenendo l'erroneità in ordine all'oggetto dell'incarico ed alle prestazioni compiute l'erroneo calcolo del valore della pratica e la conseguente congruità dei compensi riscossi la rilevanza dell'accordo intercorso tra cliente ed avvocato con riferimento alla determinazione dei compensi e delle dichiarazioni liberatorie dagli stessi rilasciate l'eccessività della sanzione inflitta. Il Consiglio Nazionale Forense, con decisione del 25.2.2013, accolse parzialmente il ricorso con riferimento all'entità della sanzione disciplinare irrogando quella della censura. G.F. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Gli intimati Consiglio dell'Ordine di Vicenza e Procuratore generale presso la Corte di Cassazione non hanno svolto attività. Motivi della decisione Con il primo motivo la ricorrente denuncia in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., violazione ed erronea applicazione dell'art. 5, comma 4, delle norme in materia stragiudiziale del D.M. 127/04 e dagli artt. 10 e 12 c.p.c. in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. insufficiente e contraddittoria motivazione . La ricorrente censura la decisione impugnata per avere ancorato il giudizio di eccessività e sproporzione dei compensi ottenuti, non all'attività in concreto svolta - come prescrive l'art. 43, canone II, del Codice Deontologico Forense -, bensì assumendo a riferimento l'indicazione formale ma incompleta desumibile dalle fatture emesse a fronte dei compensi complessivamente ricevuti . Il motivo non è fondato. Il giudice disciplinare - al fine di pervenire ad un giudizio di eccessività dei compensi richiesti - non si è limitato a prendere in esame soltanto le fatture - peraltro indicative dell'attività in concreto svolta -, ma ha esaminato le risultanze di causa concludendo che i compensi richiesti superano di gran lunga i massimi consentiti dalle tariffe all'epoca in vigore proprio tenuto conto dell'attività professionale espletata pag. 5 della sentenza . In sostanza, il valore dell'oggetto Euro 1.433.000,00 era relativo al solo patrimonio mobiliare ed è in riferimento a questo ed all'attività professionale fino a quel momento svolta - di cui è traccia nelle fatture prodotte - che l'Organo disciplinare ha formulato il suo giudizio. Ed anzi, dopo avere evidenziato che la documentazione prodotta dall'incolpata non è stata sufficiente a rappresentare un incarico di valore decisamente più consistente rispetto a quello indicato nel capo di incolpazione , ha ulteriormente sottolineato È peraltro incontrovertibile la circostanza che, sebbene l'avv. G. possa avere ricevuto incarichi plurimi e con oggetto sensibilmente diverso dagli undici chiamati alla successione del sig. Stabile, l'importo richiesto con le fatture prodotte, il cui oggetto non lascia dubbi all'interprete, ed ottenuto attraverso il pagamento/prelievo dal conto corrente, nel quale era confluita la liquidità del patrimonio mobiliare disinvestito, è riferibile esclusivamente all'attività professionale svolta fino a quel momento e come tale appare eccessivamente sproporzionato rispetto al valore dell'oggetto . Segno questo di un esame puntuale delle risultanze probatorie e delle eventuali attività professionali specifiche espletate. Con il secondo motivo si denuncia in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., violazione, falsa ed erronea applicazione dell'art. 43 Cod. Deontologico Forense in relazione all'art. 2233, comma primo, cod. civ In relazione all'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. omessa motivazione circa il fatto decisivo della prova dell'accordo sui compensi . Il motivo non è fondato. Al di là della legittimità di un eventuale accordo fra professionista e cliente in ordine alla corresponsione di compensi in misura superiore a quella prevista dai massimi di tariffa, quel che qui rileva è che la sentenza impugnata - richiamando la decisione adottata sul punto dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Vicenza - ha dato atto di un difetto di prova di un tale accordo. Peraltro, la proporzione dei compensi all'attività svolta è criterio generale richiamato, oltre che dall'art. 43 del codice deontologico, anche dall'art. 45 in materia di accordi sulla definizione del compenso. Si tratta, pertanto, di un criterio generale posto a tutela del cliente in ogni caso, nella specie, superato dalla mancanza di prova di un tale accordo valutazione questa spettante al giudice disciplinare, che, implicitamente, ha ritenuto il difetto di decisività delle generiche indicazioni fornite dal teste Z. , come riportate in ricorso. Conclusivamente, il ricorso è rigettato. Nessun provvedimento è adottato in ordine alle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva. Risultando dagli atti che il procedimento in esame è considerato esente dal versamento del contributo unificato, non si deve far luogo all'accertamento di cui all'art. I quater del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dal comma 17 dell'art. 1 della legge n. 228/12. P.Q.M. La Corte, pronunciando a sezioni unite, rigetta il ricorso. Nulla spese.