I crediti dei notai associati non entrano in comunione prima della loro riscossione

L’associazione fra notai prevista dall’art. 82 della l. n. 89/1913 non costituisce un autonomo centro di imputazione di interessi nel cui patrimonio siano compresi i crediti maturati da ciascuno dei notai associati, ma si risolve in un contratto di divisione dei proventi, calcolati secondo il principio di cassa e delle spese, sicché detti crediti non entrano in comunione prima del loro realizzo.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 25302 dell’11 novembre 2013. Il caso. L’erede di un notaio conveniva in giudizio il notaio col quale il padre aveva costituito un’associazione professionale, affinché venisse dichiarato lo scioglimento dell’associazione stessa a seguito del decesso del padre, con conseguente condanna del convenuto alla presentazione del rendiconto e al pagamento della somma corrispondente al valore della quota di spettanza del defunto. Il Giudice di primo grado, dichiarato lo scioglimento dell’associazione, sulla scorta dei risultati emersi a seguito dell’espletamento di una consulenza contabile, condannava il convenuto al pagamento di un’ingente somma di denaro quale residua somma ancora dovuta relativamente alla quota del 50% del patrimonio netto dell’associazione. Al termine del giudizio d’appello instaurato dal convenuto, disposta un’ulteriore indagine contabile a mezzo di altro consulente d’ufficio, la Corte territoriale riformava la sentenza di primo grado, condannando l’erede a restituire la somma corrispostagli in esecuzione della sentenza di primo grado. L’attore si rivolge quindi alla Corte di Cassazione. La natura giuridica dell’associazione fra notai. Nel rigettare i motivi di censura formulati dal ricorrente, i Giudici di legittimità accolgono la ricostruzione fornita dalla Corte territoriale in ordine alla natura giuridica dell’associazione fra notai. Nella specie, i Giudici di merito avevano stabilito che tale tipologia di associazione, prevista dall’art. 82 della l. n. 89/1913, non è configurabile quale ente collettivo o autonomo centro di imputazione di interessi nel cui patrimonio siano compresi i crediti maturati da ciascuno dei notai associati, ma si risolve in un contratto di divisione tra i notai associati dei proventi, calcolati secondo il principio di cassa e delle spese. I crediti non riscossi non entrano in comunione. Sulla scorta di tale considerazione, si è dunque ritenuto che i crediti dei notai associati non entrino in comunione prima del loro realizzo, anche se su ciascun notaio grava un’obbligazione di natura fiduciaria di curare diligentemente la riscossione dei crediti a lui riferibili in quanto destinati a confluire in una massa attiva alla cui ripartizione hanno interesse anche gli altri associati. Nel giudizio di secondo grado, quindi, i Giudici di merito avevano osservato che, sebbene dalla contabilità dell’associazione professionale in oggetto risultassero dei crediti non riscossi per una consistente somma complessiva, dai rilievi contenuti nelle due consulenze d’ufficio non potevano ritenersi accertati crediti esigibili che facessero capo all’uno o all’altro dei notai associati, sicché non poteva procedersi alla liquidazione della quota spettante all’erede del defunto. L’onere della prova dell’esistenza di crediti non riscossi. Posto, dunque, che la Corte territoriale aveva fatto ricadere sull’attore le conseguenze negative derivanti dalla mancata prova in ordine alla circostanza anzidetta cioè della effettiva esistenza dei crediti in questione , l’attore stesso censura la pronuncia di merito reputando che siffatto onere probatorio dovesse ricadere sul socio superstite. Al riguardo, la Suprema Corte osserva che, nel giudizio in oggetto, la domanda di condanna formulata dall’erede era correlata ad altra diretta ad ottenere il rendiconto dal convenuto e che quest’ultimo non aveva presentato un rendiconto idoneo ad essere qualificato come tale. Ciò nondimeno, secondo il Collegio, l’inosservanza dell’ordine del giudice in ordine al rendimento del conto non comportava a carico del convenuto l’inversione dell’onere della prova, che restava pur sempre a carico dell’attore in quanto creditore, potendo al più il giudice, nel suo prudente apprezzamento, trarre da tale inosservanza un argomento di prova a norma dell’art. 116, comma 2, c.p.c. L’incertezza sui crediti non esatti va a discapito dell’attore. Sulla scorta del rilievo per cui l’onere della prova dell’esistenza dei crediti non riscossi gravava sull’attore, la Suprema Corte reputa del tutto congrua la motivazione posta a base della pronuncia di rigetto dei Giudici di merito, laddove dalle due consulenze espletate risultava che la contabilità dell’associazione professionale in questione non consentisse né di stabilire quali fossero i singoli clienti né i rispettivi importi di riferimento. In considerazione di tali carenze, nonché del lungo tempo trascorso e dell’assenza di azioni volte al recupero, era perciò ragionevole dubitare dell’effettiva esistenza di tali crediti. Affermando quindi che la pretesa creditoria dell’attore era rimasta incerta sia nell’ an sia nel quantum , la Corte di merito ha correttamente rilevato, sulla base di tali risultanze, una duplice carenza di prova, stante l’impossibilità di accertare l’effettiva esistenza di crediti esigibili an , che facciano capo all’uno o all’altro dei due notai associati quantum , in relazione alla distinta questione della permanente titolarità dei crediti inesatti in capo a ciascuno dei notai associati al quale tali crediti siano riferibili.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 3 ottobre 11 novembre 2013, numero 25302 Presidente Salmè – Relatore Scaldaferri Svolgimento del processo F D. , erede del padre Giovanni, notaio, deceduto il 13 ottobre 1993, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Verbania il notaio G B. , con il quale il padre era stato in associazione professionale, chiedendo che, previa dichiarazione dello scioglimento della associazione professionale e del diritto di esso erede al rendiconto alla data dello scioglimento e successivamente alla scadenza di ogni anno sino alla chiusura della liquidazione, il convenuto fosse condannato alla presentazione del rendiconto stesso e quindi al pagamento della somma corrispondente al valore della quota di spettanza del defunto, detratti gli acconti già ricevuti. Il convenuto, costituendosi in giudizio, contestò le domande, deducendo che aveva già consegnato il rendiconto e corrisposto le sue spettanze all'attore, il quale, anche incassando le somme, aveva accettato il rendiconto stesso. Con sentenza non definitiva del 3 agosto 1999 il Tribunale dichiarava lo scioglimento, in data 13 ottobre 1993, della associazione professionale tra il D. e il B. , a seguito della morte del primo, accertava il diritto del D. al rendiconto rigettando però la domanda di condannna del B. a depositarlo avendo egli già adempiuto a tale obbligo, e rimetteva la causa in istruttoria per la determinazione tramite consulenza contabile d'ufficio delle eventuali residue spettanze di liquidazione a favore del D. . Espletata la consulenza tecnica d'ufficio con successivo supplemento a chiarimento, il Tribunale, con sentenza definitiva del 28 marzo 2003, condannò il B. al pagamento in favore del D. della somma di Euro 137.113,57 oltre interessi quale residua somma ancora dovutagli relativamente alla quota del 50% del patrimonio netto della associazione professionale in questione. Proponeva appello il B. , chiedendo, da un lato, la riforma della sentenza non definitiva nella parte in cui aveva disposto la rimessione della causa sul ruolo per la determinazione delle residue spettanze del D. , per contraddittorietà con la statuizione che assumeva passata in giudicato con la quale era stata respinta la domanda di condanna a rendere il conto dall'altro la riforma della sentenza definitiva, che sulla base sostanzialmente di un nuovo conto stabilito dal Tribunale aveva accertato la esistenza di residue spettanze a credito del D. , in contrasto con quanto accertato dalla consulenza d'ufficio. Il D. si costituiva, chiedendo il rigetto del gravame. Disposta una ulteriore indagine contabile a mezzo di altro consulente d'ufficio, la Corte d'appello di Torino, con sentenza depositata il 4 agosto 2006, in riforma delle sentenze impugnate ha rigettato la domanda del D. , condannando quest'ultimo a restituire la somma corrispostagli dal B. in esecuzione della sentenza di primo grado, e compensando tra le parti le spese del doppio grado escluse quelle relative alle consulenze d'ufficio . La Corte torinese, premesso che la intrinseca contraddittorietà perché contenente statuizioni fra loro inconciliabili della sentenza non definitiva non produce il giudicato sull'una piuttosto che sull'altra delle statuizioni contrastanti in essa contenute bensì impone al giudice d'appello di riesaminare le questioni rilevanti, ha ritenuto a che il rendiconto non è stato prestato dal B. , e quindi deve procedersi all'esame dei rapporti di dare e avere tra le parti b che l'associazione fra notai prevista dall'articolo 82 della legge numero 89/1913 non è configurabile quale ente collettivo o autonomo centro di imputazione di interessi nel cui patrimonio siano compresi i crediti maturati da ciascuno dei notai associati, ma si risolve in un contratto di divisione tra i notai associati dei proventi, calcolati secondo il principio di cassa, e delle spese c che pertanto detti crediti non entrano in comunione prima del loro realizzo, anche se su ciascun notaio grava un'obbligazione di natura fiduciaria di curare diligentemente la riscossione dei crediti a lui riferibili in quanto destinati a confluire in una massa attiva alla cui ripartizione hanno interesse anche gli altri associati d che nella specie, pur risultando dalla contabilità crediti a titolo di spese anticipate non riscossi per una consistente somma complessiva oltre 600 milioni di lire, alla data di cessazione dell'attività di liquidazione nell'ottobre 1999 , dai rilievi contenuti nelle due consulenze d'ufficio emerge come non possano ritenersi accertati crediti esigibili, che facciano capo all'uno o all'altro dei notai associati, si che la domanda di condanna proposta dal D. in difetto di prova sull'an e sul quantum deve essere respinta. Avverso tale sentenza F D. ha proposto ricorso a questa Corte sulla base di otto motivi, cui resiste B.G. con controricorso e ricorso incidentale condizionato per un motivo. Motivi della decisione 1. Si impone, innanzitutto, a norma dell'articolo 335 cod.proc.civ., la riunione dei due ricorsi proposti avverso la medesima sentenza. 2. Con i primi cinque motivi del ricorso principale si censura la ritenuta esclusione dal patrimonio comune degli associati dei crediti maturati prima dello scioglimento del rapporto associativo ma non esitati. 2.1 . In particolare, con i primi tre motivi il D. lamenta che la Corte di merito avrebbe da un lato violato o falsamente applicato il disposto degli articolo 115 e 116 c.p.c., dall'altro omesso la motivazione su un fatto decisivo, non rilevando che la circostanza della inclusione nel patrimonio comune di tutti i crediti verso clienti, a prescindere dalla riferibilità all'uno o all'altro dei notai e quindi dall'effettivo incasso, non era stata contestata tempestivamente dal convenuto, e comunque emergeva dalle sue stesse allegazioni e dal rendiconto da lui prodotto inoltre la Corte di merito avrebbe violato o falsamente applicato il disposto degli articolo 167, 180 e 345 c.p.c. ammettendo il convenuto a riproporre in appello una eccezione relativa alla esclusione dalla massa comune dei crediti non riscossi tardivamente sollevata in primo grado nella seconda comparsa conclusionale. 2.2. Con il quarto e quinto motivo il D. censura l'interpretazione, esposta nella sentenza impugnata, degli articolo 82 legge numero 89/1913 e 1 legge numero 1815/1939, lamentando che la Corte di merito abbia violato o falsamente applicato tali norme di legge ritenendo che l'associazione tra studi notarili ai sensi dell'articolo 82, delineandosi come patto interno di suddivisione dei proventi professionali, comporti che questi ultimi debbano essere imperativamente computati secondo un criterio di cassa, laddove invece la norma richiamata non implicherebbe alcuna determinazione tassativa circa la modalità di distribuzione degli onorari tra i notai associati. 3. Con gli ultimi tre motivi del ricorso principale si censurano le statuizioni relative alla mancanza di prova della domanda di condanna proposta dall'odierno ricorrente. In particolare a con il sesto motivo si deduce che la Corte di merito, rigettando sotto tale profilo la domanda, avrebbe violato o falsamente applicato l'articolo 2697 c.c. in relazione agli articolo 2284 e 2289 c.c., dai quali si desumerebbe che l'onere della prova del valore della quota spettante all'erede del socio defunto grava non su di lui bensì sul socio superstite b con il settimo e l'ottavo motivo si censura, denunciando vizi di motivazione, la ritenuta mancanza di prova di crediti esigibili non riscossi, deducendo come, da un lato, tale argomentazione si ponga in contraddizione con la impossibilità, pure affermata nella sentenza impugnata, di accertare singolarmente tali crediti dunque esistenti , dall'altro risulti basata su motivazioni insufficienti ed inidonee a giustificarla. 4. Con il ricorso incidentale condizionato il B. denuncia la violazione dell'articolo 324 c.p.c., deducendo che la Corte di merito avrebbe erroneamente escluso che la sentenza non definitiva, nella parte in cui ha rigettato la domanda di rendiconto, era passata in n giudicato per mancata impugnazione da parte dell'attore D. . 5. Il ricorso principale è privo di fondamento. 5.1 . Come emerge dalla esposizione che precede, la sentenza impugnata si basa essenzialmente su due ordini di considerazioni ai quali fanno riferimento rispettivamente i primi cinque e gli ultimi tre motivi di ricorso relative entrambe all'unica questione di merito controversa tra le parti, se cioè debbano o non considerarsi, nel computo delle spettanze del D. a seguito dello scioglimento del rapporto associativo corrente tra il suo dante causa ed il B. , i crediti verso clienti maturati nel corso del rapporto ma non esatti. Poiché le statuizioni della sentenza d'appello censurate con gli ultimi tre motivi di ricorso secondo le quali non vi è prova della effettiva esistenza di crediti verso clienti esigibili ma non esatti, si mostrano idonee a sostenere da sole la impugnata sentenza di rigetto della domanda di condanna, ritiene il Collegio di esaminare anzitutto tali motivi, il cui rigetto renderebbe privo di utilità l'esame degli ulteriori motivi di doglianza. 5.2. Esaminando tali motivi, si pone in primo luogo la questione concernente l'individuazione della parte sulla quale grava l'onere della prova della circostanza controversa, cioè della effettiva esistenza dei crediti in questione, e correlativamente del credito preteso dall'attore. La Corte di merito ha implicitamente ritenuto che tale onere gravi su quest'ultimo, evidentemente ritenendo che la circostanza suddetta integri un fatto costitutivo della domanda dal medesimo proposta, alla stregua del principio generale di cui all'articolo 2697 comma 1 del codice civile. Il ricorrente denuncia che, in tal modo, si sarebbero violate o falsamente applicate le disposizioni contenute in tale articolo di legge, ma a ben vedere non espone specifiche ragioni in diritto che giustifichino tale denuncia, limitandosi a far riferimento ad interpretazioni giurisprudenziali di norme relative ad altra fattispecie. Vero è che la questione si inserisce nell'ambito di un giudizio nel quale la domanda di condanna si correla ad altra diretta ad ottenere il rendiconto dal convenuto e che quest'ultimo come si afferma nella sentenza impugnata non ha presentato un rendiconto idoneo ad essere qualificato come tale. Ritiene tuttavia il Collegio che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare cfr. tra le altre Sez. 3, 20 gennaio 1981 numero 485 , la inosservanza dell'ordine del giudice in ordine al rendimento del conto non comporta a carico del convenuto l'inversione dell'onere della prova, che resta pur sempre a carico dell'attore che si assume creditore, potendo al più il giudice, nel suo prudente apprezzamento, trarre da tale inosservanza un argomento di prova a norma dell'articolo 116 comma 2 c.p.c. ma non è di questo che si discute nel motivo in esame . Il rigetto della doglianza deriva dunque di necessità da tali considerazioni. 5.3. Non meritano accoglimento neanche le doglianze, espresse nel settimo e ottavo motivo, relative alla motivazione della statuizione con la quale la Corte d'appello ha ritenuto di non potere, alla stregua delle risultanze di entrambe le consulenze tecniche d'ufficio espletate nel corso del giudizio di merito, ritenere accertati ulteriori crediti esigibili verso clienti diversi da quelli già considerati dalle parti. Deve qui richiamarsi l'orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui il vizio di motivazione denunciabile con ricorso per cassazione si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, non potendo detto vizio consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, diversamente risolvendosi il relativo motivo in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito. Le quali, del resto, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non debbono essere basate sull'unica interpretazione possibile o la migliore , degli elementi di prova disponibili, bensì su una delle possibili e plausibili interpretazioni. Ciò posto, va rilevato come il denunciato vizio di contraddittorietà della motivazione non sussiste. La Corte d'appello ha rilevato che dalle due consulenze espletate risultava come la contabilità dell'associazione professionale in questione non consentisse né di stabilire quali fossero i singoli clienti debitori né i rispettivi importi di riferimento e come, anche in considerazione di tali carenze, nonché del lungo tempo trascorso e dell'assenza di azioni volte al recupero, fosse ragionevole dubitare dell'effettiva esistenza di tali crediti. Affermando quindi che la pretesa creditoria del D. era rimasta incerta sia nell'an sia nel quantum, la Corte di merito non ha esposto conclusioni inconciliabili, bensì rilevato, sulla base di tali risultanze, una duplice carenza di prova, stante l'impossibilità di accertare l'effettiva esistenza di crediti esigibili an , che facciano capo all'uno o all'altro dei due notai associati quantum, in relazione alla distinta questione della permanente titolarità dei crediti inesatti in capo a ciascuno dei notai associati al quale tali crediti siano riferibili . Le altre critiche che, con l'ottavo motivo, vengono mosse nei riguardi della motivazione sono inammissibili. Il ricorrente non individua elementi di prova non considerati dal giudice di merito, ma si limita a prospettare inammissibilmente una diversa interpretazione dei dati considerati dal giudice stesso, essenzialmente basata sulla maggiore valorizzazione che secondo il ricorrente dovrebbe attribuirsi alla possibilità di estrapolare dalla contabilità della associazione un importo complessivo riconducibile alla voce crediti verso clienti, genericamente individuato. Dato, questo, cui la Corte di merito, pur dandone atto, ha attribuito valore non decisivo, a fronte dei molteplici elementi sopra riassunti dai quali ha tratto con motivazione non priva di logica la conclusione contestata. 6. Il rigetto del ricorso principale -restando assorbiti gli altri motivi si impone dunque. 7. Resta assorbito in tale pronuncia di rigetto anche il ricorso incidentale condizionato proposto dal B. , atteso che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato all'accoglimento del ricorso principale, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, sicché, laddove le medesime questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito siano state oggetto di decisione da parte del giudice di merito come nella specie -, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte solo in presenza dell'attualità dell'interesse, ovvero unicamente nell'ipotesi della fondatezza del ricorso principale cfr. S.U. numero 5456/09 numero 23318/09 numero 7381/13 . 8. Tenuto conto delle ragioni della decisione e delle motivazioni espresse dalla Corte d'appello in ordine alla compensazione tra le parti delle spese del giudizio di merito, si ritiene giustificata la compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il sesto, settimo e ottavo motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri dichiara assorbito il ricorso incidentale compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.