Ai sensi dell’articolo 2, comma 1-bis, l. numero 638/1983, «il datore di lavoro non è punibile, né è assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione».
Lo ha ricordato la Corte di Cassazione con la sentenza numero 30650/18, depositata il 6 luglio. La vicenda. L’amministratore di una S.p.a. veniva condannato, sia in primo che in secondo grado, per omesso versamento di contributi previdenziali. Avverso tale pronuncia ricorre per cassazione l’imputato deducendo, per quanto d’interesse, la mancata considerazione della cessazione dalla carica di amministratore al momento della ricezione dell’avviso di pagamento inviato dall’ente previdenziale, circostanza che gli aveva impedito di sanare al posizione contributiva dei dipendenti della società. Cassazione dalla carica sociale. Correttamente la Corte di merito ha ritenuto ininfluente la cessazione dalla carica sociale da parte dell’imputato posto che egli aveva continuato ad occuparsi della gestione della società, sollecitando anche la regolarizzazione delle posizioni previdenziali. Afferma infatti il Collegio che la prospettata impossibilità, per la cessazione della carica, di avvalersi della causa di non punibilità di cui al comma 1-bis, articolo 2, l. numero 638/1983, secondo cui «il datore di lavoro non è punibile, né è assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione», non esclude la responsabilità del ricorrente perché non incide sulla consumazione del reato, né tantomeno vale ad escludere la punibilità. L’adempimento dell’obbligazione, quale causa personale di esclusione della punibilità, è infatti sempre consentito all’autore del reato salvo l’eventuale regresso nei confronti del soggetto eventualmente succeduto nella titolarità del rapporto con l’ente previdenziale. Ritenendo infine infondata anche la censura relativa alla mancanza dell’elemento soggettivo del reato, posta la natura di reato omissivo istantaneo unissusistente, la Cassazione rigetta il ricorso.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 marzo – 6 luglio 2018, numero 30650 Presidente Andreazza – Relatore Liberati Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 3 ottobre 2017 la Corte d’appello di Campobasso, in accoglimento della impugnazione del pubblico ministero, ha parzialmente riformato la sentenza del 19 novembre 2014 del Tribunale di Campobasso, con cui D.C.N. era stato assolto dalla contestazione di omissioni contributive realizzate tra gennaio 2008 e dicembre 2010 quale amministratore della S.p.a. Conglomerati Falcione, e ha dichiarato non doversi procedere per i fatti commessi fino al omissis in quanto estinti per prescrizione, dichiarando l’imputato-responsabile dei fatti successivi e condannandolo alla pena di giorni 20 di reclusione ed Euro 500,00 di multa. 2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. 2.1. Con un primo motivo ha lamentato l’omessa assunzione di una prova decisiva, richiesta nel corso dell’istruttoria di primo grado, e la mancata rinnovazione in grado d’appello dell’istruttoria, avendo tempestivamente richiesto l’ammissione di tre testimoni, che avrebbero potuto fornire i chiarimenti necessari circa la situazione di crisi finanziaria dell’impresa amministrata dall’imputato e il mancato pagamento delle retribuzioni ai dipendenti. L’imputato, inoltre, aveva prodotto documenti dal cui esame avrebbe potuto essere desunto il mancato pagamento delle retribuzioni. Ha, inoltre, eccepito la necessità, secondo quanto chiarito dalla Corte EDU e dalla Corte di cassazione, di rinnovare l’assunzione delle prove dichiarative nel caso di loro diversa valutazione al fine del ribaltamento di una decisione assolutoria da parte del giudice dell’impugnazione. 2.2. Con un secondo motivo ha prospettato vizio della motivazione, nella parte relativa alla considerazione della cessazione dell’imputato dalla carica di amministratore della Conglomerati Falcione, in quanto al momento della ricezione dell’avviso di pagamento da parte dell’ente previdenziale era cessato da tale carica da oltre nove mesi, e non avrebbe quindi potuto sanare la posizione contributiva dei dipendenti della società. Ha eccepito anche il mancato accertamento del pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, desunta dalla sola compilazione dei modelli DM10, ma esclusa dal Tribunale. 2.3. Con un terzo motivo ha sottolineato la mancanza di dolo, avendo chiesto da tempo alla società di essere sostituito nelle funzioni di amministratore, comunicando le proprie dimissioni e invitando la società a regolarizzare tutte le posizioni debitorie. Considerato in diritto 1. Il ricorso non è fondato. 2. Giova premettere che l’imputato era stato assolto dal Tribunale di Campobasso, che aveva ritenuto non sussistente il fatto contestato all’imputato e cioè l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate dal gennaio 2008 al dicembre 2010 sulle retribuzioni dei dipendenti della S.p.a. Conglomerati Falcione, di cui l’imputato era amministratore , a causa della mancata dimostrazione del pagamento delle retribuzioni ai dipendenti. La Corte territoriale, nell’accogliere l’impugnazione del pubblico ministero, ha ritenuto che dai documenti prodotti emerga la prova del pagamento di dette retribuzioni, desumibile da quanto riportato nei modelli DM10, attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e i conseguenti obblighi contributivi verso l’Inps, sottolineando che l’imputato, con una lettera del 18 novembre 2011, aveva sollecitato la società al pagamento della somma di Euro 119.630,30 all’Inps, relativa alle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, evidenziando che occorreva provvedervi entro tre mesi dalla ricezione della diffida del 10 agosto 2011. Sulla base di questi elementi la Corte d’appello ha ritenuto dimostrato il pagamento delle retribuzioni e anche la consapevolezza dell’imputato dell’esistenza dell’obbligo di pagamento delle relative ritenute previdenziali, giudicando irrilevante la successione nella carica di amministratore di altro soggetto a far tempo dal 26 agosto 2011, in quanto successiva alla scadenza del termine di pagamento all’ente previdenziale di dette ritenute. Va aggiunto che nel corso del giudizio di secondo grado l’imputato non aveva chiesto, né in udienza né mediante la memoria depositata il 3 ottobre 2017, l’assunzione delle testimonianze dei tre soggetti della cui mancata escussione si duole con il primo motivo di ricorso. 3. Ora, alla luce di tale svolgimento del giudizio di merito, e delle ragioni poste a fondamento della decisione di condanna impugnata dall’imputato, deve, anzitutto, escludersi la violazione dell’obbligo di rinnovazione della assunzione delle prove dichiarative, previsto in caso di esito assolutorio del giudizio di primo grado e di ribaltamento di tale decisione in quello di impugnazione instaurato su appello del pubblico ministero cfr. Sez. U, numero 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487 conf. Sez. 3, numero 42443 del 07/06/2016, G., Rv. 267931 Sez. 6, numero 52544 del 07/10/2016, Morri, Rv. 268579 Sez. 4, numero 6366 del 06/12/2016, Maggi, Rv. 269035 nonché, riguardo alla conseguente violazione del principio del ragionevole dubbio di cui all’articolo 533 cod. proc. penumero , Sez. U, numero 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785 conf. Sez. 3, numero 31949 del 20/09/2016, dep. 04/07/2017, Felice, Rv. 270632 Sez. 3, numero 24306 del 19/01/2017, I., Rv. 270630 Sez. 1, numero 53601 del 02/03/2017, Dantese, Rv. 271638 , in quanto nel caso in esame la Corte d’appello non è pervenuta alla riforma della decisione assolutoria di primo grado sulla base di una diversa valutazione di prove dichiarative omettendo di provvedere alla rinnovazione della loro assunzione, bensì a seguito di una diversa valutazione dei documenti a disposizione, cioè della valenza probatoria dei suddetti modelli DM10 e della lettera a firma dell’imputato del 18 novembre 2011, cosicché non sussiste il denunciato vizio di motivazione, che ora determinerebbe violazione dell’articolo 603, comma 3 bis, cod. proc. penumero , inserito dall’articolo 1, comma 58, l. 23 giugno 2017 numero 103, a decorrere dal 3 agosto 2017. Neppure sussiste violazione dell’articolo 603 cod. proc. penumero , per la mancata audizione dei testimoni di cui la difesa dell’imputato aveva chiesto l’esame nel corso del giudizio di primo grado, in quanto tale istanza non era stata reiterata nel corso del giudizio di appello, né mediante la memoria del 3 ottobre 2017 né all’atto della formulazione delle conclusioni, cosicché, in mancanza di istanze e alla luce dell’accertamento compiuto dalla Corte territoriale, circa l’esaustività dei documenti acquisiti al fine della dimostrazione dell’avvenuto pagamento delle retribuzioni ai dipendenti , non è dato rilevare alcuna omissione a carico dei giudici dell’impugnazione non essendovi state richieste di rinnovazione dell’istruttoria in grado d’appello non considerate o erroneamente disattese , né vizi nella motivazione della sentenza impugnata, con la conseguente infondatezza della doglianza anche sotto tale ulteriore profilo. 4. Il secondo motivo, mediante il quale è stato prospettato un ulteriore vizio della motivazione, per l’erroneità della affermazione della imputabilità al ricorrente dell’omesso versamento dei contributi previdenziali dovuti all’Inps e per la mancata dimostrazione dell’avvenuto pagamento delle retribuzioni, non è fondato. Il pagamento delle retribuzioni è stato ritenuto dimostrato sulla base di quanto emergente dai suddetti modelli DM10 di cui questa Corte ha già più volte affermato la sufficienza a tale fine, cfr., ex plurimis, questa Sez. 3, numero 46451 del 7.10.2009, Carella, Rv. 245610 Sez. 3, numero 14839 del 4.3.2010, Nardiello, Rv. 246966 Sez. 3, numero 21619 del 14/04/2015, Moro, Rv. 263665 Sez. 3, numero 43602 del 09/09/2015, Ballone, Rv. 265272 Sez. 3, numero 42715 del 28/06/2016, Franzoni, Rv. 267781 , e della citata lettera dell’imputato del 18 novembre 2011, mediante la quale lo stesso sollecitò la società di cui era stato amministratore a provvedere al pagamento delle somme dovute dalla stessa all’Inps per contributi previdenziali, in tal modo implicitamente riconoscendo la sussistenza del presupposto indefettibile di tale obbligo, e cioè il precedente pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, sicché l’accertamento dell’avvenuta corresponsione delle retribuzioni non può dirsi illogico o fondato su elementi insufficienti. La cessazione dalla carica sociale è, poi, stata correttamente ritenuta ininfluente al fine della configurabilità del reato e della sua attribuibilità all’imputato, in quanto le omissioni si sono verificate quando quest’ultimo era ancora amministratore della società, o, comunque, aveva continuato a occuparsi della gestione della stessa, tanto da essere a conoscenza della diffida inviata dall’Inps il 26 agosto 2011 e da sollecitare la società, con la citata lettera del 18 novembre 2011, a provvedere al pagamento delle ritenute dovute all’ente previdenziale, con la conseguente irrilevanza della cessazione dalla carica rispetto alla consumazione del reato. La prospettata impossibilità, per la sopravvenuta cessazione dalla carica, di avvalersi della causa di non punibilità di cui alla seconda parte del comma 1 bis dell’articolo 2 l. 638/1983, secondo cui il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione , non esclude la responsabilità dell’imputato, in quanto non incide sulla consumazione del reato, e neppure ne determina la non punibilità, perché l’adempimento della obbligazione, trattandosi di una causa personale di esclusione della punibilità, è sempre consentito all’autore del reato cfr. Sez. 3, numero 39072 del 18/07/2017, Falsini, Rv. 271473 , salvo l’eventuale regresso nei confronti del soggetto eventualmente succeduto nella titolarità del rapporto obbligatorio con l’ente previdenziale, sicché anche tale profilo di censura risulta infondato. 5. La censura formulata con il terzo motivo, circa la mancanza dell’elemento soggettivo, che discenderebbe dalla cessazione dalla carica sociale, è manifestamente infondata, in quanto, come evidenziato, il reato contestato all’imputato, omissivo istantaneo unisussistente, si perfeziona alla scadenza del termine stabilito per il versamento, cosicché le vicende successive, tra cui l’attivazione per segnalare al titolare del rapporto obbligatorio la necessità di provvedere a tale pagamento, restano prive di rilievo, anche sul piano della volontarietà della condotta in precedenza realizzata. 6. Il ricorso deve, in conclusione, essere rigettato, stante l’infondatezza del primo e del secondo motivo e la manifesta infondatezza del terzo. Consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.