Rivendicazione gay online, ma è un finto comunicato: scherzo? No, diffamazione

Fatale è la pubblicazione, in un blog, di uno scritto attribuito, con una firma falsa, a un’altra persona. Con quello scritto vengono rivendicate tendenze omosessuali. Legittimo parlare di offesa alla reputazione della persona individuata come gay.

Cambia la società, cambiano i costumi – in meglio o in peggio, fate voi –, vengono ‘aggiornati’ principii e valori, ma certi paletti restano immutabili. Ad esempio, attribuire tendenze omosessuali a una persona è chiaramente valutabile come offesa alla reputazione – nonostante il termine gay non pare avere, oggi, valore spregiativo –, a maggior ragione se la comunicazione è urbi et orbi, grazie al mare magnum della rete web. Cassazione, sentenza n. 32444, Quinta sezione Penale, depositata oggi Fake . Casus belli è un comunicato, pubblicato in un blog, in cui una persona si attribuisce implicitamente tendenze omosessuali . Ma il vero nodo è rappresentato dal fatto che la firma del comunicato sia falsa a mettere ‘nero su bianco’ il comunicato è stata un’altra persona, un giovane. Semplice scherzo, seppur di pessimo gusto? Non è questa l’ottica adottata dai giudici, che condannano per diffamazione , sia in primo che in secondo grado, colui che ha scritto e pubblicato on line il comunicato, attribuendolo a un’altra persona e offendendo così la reputazione di quest’ultima. Urbi et orbi. Ad avviso del giovane, però, troppo rigida è stata la valutazione compiuta dai giudici di Appello. Soprattutto per due ragioni, evidenziate nel ricorso proposto in Cassazione primo, non vi è prova della lettura del messaggio da parte di altri utenti del web secondo, non vi è contenuto diffamatorio, tenuto conto, in particolare, che il termine ‘gay’ non ha valenza, di per sé, offensiva . Però questi appunti non trovano sponda nei giudici del Palazzaccio, per i quali, difatti, la condanna per diffamazione è corretta, e quindi da confermare. Ciò perché la espressione offensiva è stata pubblicata su un blog, ossia su un sito web, che può essere sì personale, ma costantemente aggiornato on line , e, soprattutto, tutti possono leggere in esso . Ne consegue, ad avviso dei giudici, la potenziale diffusività dei contenuti del blog . Elemento, questo, sufficiente per addebitare il reato di diffamazione , soprattutto tenendo presente che esso si concretizza, tramite internet , nel momento in cui il collegamento web sia attivato , quindi accessibile a un numero indeterminato di persone o, comunque, potenzialmente destinato a una immediata diffusione .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 marzo - 25 luglio 2013, n. 32444 Presidente Oldi – Relatore Vessichelli Fatto e diritto Propone personalmente ricorso per cassazione B.A., avverso la sentenza della Corte d'appello di Genova in data 22 marzo 2012, con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine al reato di diffamazione ex articolo 595 c.p., commesso il 28 marzo 2007. L'imputato è stato accusato di avere offeso la reputazione di P.I. scrivendo, su un sito Web, un comunicato nel quale si firmava con il nome di tale soggetto, tra l'altro attribuendosi implicitamente tendenze omosessuali. Deduce l'impugnante 1 la violazione dell'articolo 62 c.p.p. , essendo costituita, la prova della riconducibilità del reato all'imputato, dalle dichiarazioni di tale C. il quale ha riferito di avere ricevuto confidenze, in tal senso, da parte del ricorrente durante il dibattimento. Il ricorrente aggiunge che non vi è prova della lettura del messaggio da parte di altri utenti del Web. In terzo luogo si contesta che vi sia contenuto diffamatorio nella inserzione sul sito Web, tenuto conto, in particolare, che il termine gay non ha valenza di per sé offensiva 2 la nullità del processa di primo grado, già eccepita anche in appello, per non essere stato notificato al difensore dell'imputato il decreto di citazione diretta al giudizio , nonostante la regolare nomina effettuata fin dal 9 dicembre 2008. Sostiene l'impugnante di avere in origine nominato due difensori di fiducia avvocati Boni e Gianpellegrini i quali avevano successivamente rinunciato al mandato difensivo con una dichiarazione depositata presso la Procura della Repubblica. All'imputato era stato nominato un difensore di ufficio ritenendosi poi, da parte dei giudici dell'appello, che le successive nomine di altri due difensori di fiducia avvocati Motta Masini e Caravano non potevano ritenersi valide in mancanza della revoca dei precedenti. Ed invece, ritiene l'impugnante che la nomina dei nuovi difensori di fiducia doveva ritenersi valida a partire dal momento della formalizzazione della rinuncia da parte dei precedenti come del resto si era implicitamente ritenuto con la scelta di notificare la citazione per l'appello proprio a tali avvocati. Ne conseguiva che la nomina dei difensore di ufficio era del tutto illegittima. A sostegno di tale assunto l'impugnante fa notare che anche l'appello è stato sottoscritto da uno di tali legali l'avvocato Caravano 3 l'incompetenza territoriale del giudice che ha proceduto. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. Con il prima motivo si pone la questione della violazione dell'articolo 62 c.p.p., peraltro senza che risulti che la stessa fosse stata formulata nei motivi d'appello, nel rispetto del dovere di specificazione delle circostanze di fatto e di diritto a sostegno della questione. A ciò va aggiunto che il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato o dell'indagato, sancito dall'art. 62 cod. proc.pen. - essendo diretto ad assicurare l'inutilizzabilità di quanto dichiarato al di fuori degli atti garantiti dalla presenza del difensore, attraverso la testimonianza di chi tali dichiarazioni abbia ricevuto in qualsivoglia maniera - presuppone che le dichiarazioni stesse siano state rese nel corso del procedimento e non anteriormente o al di fuori del medesimo. Il divieto in quest'ultima ipotesi non può infatti operare, assumendo la testimonianza, nel suo contenuto specifico, valore di fatto storico percepito dal teste e, come tale, valutabile dal giudice alla stregua degli ordinari criteri applicabili a detto mezzo di prova Sez. 1, Sentenza n. 7745 del 15/05/1996 Ud. dep. 07/08/1996 Rv. 205524 . E in tale prospettiva deve ritenersi che eventuali confidenze fatte dall'imputato ad un conoscente non rientrino nel divieto di testimonianza di cui all'articolo 62 c.p.p. neppure se effettuate, come sostenuto nel ricorso, durante il processo in tal senso Rv. 208648 Rv. 228642 . ll divieto di testimonianza previsto dall'art. 62 cod. proc, pen. opera, invero, solo in relazione alle dichiarazioni rese nel corso del procedimento, intendendosi con tale espressione un collegamento funzionale tra le dichiarazioni ed un atto del procedimento e pertanto opera solo per quelle dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria e al difensore nell'ambito dell'attività investigativa vedasi sentenza Corte Costituzionale n. 237 dei 1993 Sez. 6, Sentenza n. 6085 del 09/12/2003 Ud. dep. 16/02/2004 Rv. 227599 . La seconda questione posta nel primo motivo di ricorso è parimenti infondata. In tema di consumazione del reato di diffamazione tramite Internet si è posto in evidenza come esso debba intendersi consumato nel momento in cui il collegamento web sia attivato, e la dimostrazione del contrario deve essere data dall'interessaito, tenuto conto dell'ordinario ricorso, nella pratica web, a comunicazioni aperte all'accesso di un numero indeterminato di persone o comunque destinate, per la loro stessa natura, a tal genere di immediata diffusione Rv. 234528 rv 239832 , Nel caso di specie, la espressione offensiva è stata pubblicata su un blog ossia su un sito web che tiene traccia log degli interventi dei partecipanti e che può essere, si, personale, ma costantemente aggiornato on line e tale che tutti possono leggere in esso, oppure uno spazio sul web attorno al quale, comunque, si aggregano navigatori che condividono interessi comuni, con la conseguente diffusività dei contenuti del blog stesso. La terza parte del primo motivo ali ricorso è inammissibile per genericità. Si sostiene, come un unico ed apodittico argomento, che la attribuzione, a taluno, della omosessualità non sia di per sé lesiva della reputazione, senza dare conto delle circostanze di fatto che hanno caratterizzato la vicenda in esame e, in particolar modo, delle questioni poste dalla persona offesa e dell'interesse pubblico alla materia. Il secondo motivo è manifestamente infondato. Il giudice dell'appello ha ricostruito le vicende dei mandati difensivi nel senso che la nomina degli originari difensori di fiducia, avvocati Boni e Gianpellegrini, aveva fatto sì che il pubblico Ministero avesse disposto la notifica dell'avviso della citazione diretta agli stessi legali quando aveva emesso il relativo decreto, ossia il 22 settembre 2010. In quella circostanza, la nomina di altri due difensori di fiducia avvenuta sin dal 9 dicembre 2008 in riferimento alle persone degli avvocati Caravano e Matta Masini , è stata correttamente ritenuta priva di effetto, in ragione del disposto dell'articolo 24 delle disposizioni di attuazione del codice di rito, secondo cui la nomina di ulteriori difensori si considera senza effetto finché la parte non provvede alla revoca delle nomine precedenti che risultano in eccedenza. D'altra parte, l'applicazione della diversa regola secondo cui la rinuncia al mandato difensivo ha effetto da quando la parte risulti assistita da un nuovo difensore articolo 107 c.p.p. , poteva comportare soltanto che, a far data dalla comunicazione della rinuncia all'autorità giudiziaria - e cioè dal 13 ottobre 2010 - potesse divenire valida ed efficace la nomina dei nuovi difensori di fiducia. In conclusione, il condivisibile assunto della Corte d'appello è quello secondo cui, all'atto della notifica del decreto di citazione ai difensori di fiducia, la nomina ancora valida era soltanto quella degli avvocati Boni e Giampellegrini, i quali hanno perso tale qualità in favore dei nuovi legali di fiducia soltanto con la rinuncia al mandato e quindi successivamente alla disposizione della notifica della citazione per il giudizio di primo grado. Costituisce, infatti, un principio fermo della giurisprudenza quello secondo cui gli avvisi e le comunicazioni devono essere dati al difensore che riveste tale qualità nel momento processuale nel quale vengono disposti ed eseguiti v. fra le molte, Rv. 169603 Rv. 180065 . È da escludere, d'altra parte, che la sentenza delle Sezioni unite numero 12164 dei 2011, citata nel ricorso, possa portare argomenti nuovi e utili alla tesi dell'imputato ove si consideri che i principi in essa espressi riguardano la nomina del difensore in eccedenza per la proposizione dell'atto d'impugnazione, mentre, nella specie, il tema sollevano dall'impugnante riguarda una situazione verificatasi all'atto della instaurazione del giudizio di primo grado. Il terzo motivo è inammissibile posto che le segnalazioni sulla incompetenza territoriale debbono essere poste come questioni preliminari dei giudizio di primo grado quando, come nella specie, manchi l'udienza preliminare e non possono essere formulate per la prima volta in Cassazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.