Perquisizione in cella, sfogo verbale della detenuta contro l’agente: nessuna condanna

Decisive, paradossalmente, proprio le dichiarazioni rilasciate dall’esponente della Polizia penitenziaria. Quelle parole hanno consentito di ricostruire l’episodio, e di capire che le pesanti parole della detenuta erano solo uno sfogo, e non un tentativo di opporsi alla perquisizione della cella.

Perquisizione in cella. E, purtroppo, scontro tra la detenuta e l’agente di Polizia penitenziaria, con quest’ultima destinataria di parole offensive e minacciose. Ciò nonostante, però, è illogico ipotizzare il reato di resistenza a pubblico ufficiale, soprattutto tenendo presente che la perquisizione è stata regolarmente portata a termine Cassazione, sentenza numero 23684, sez. VI Penale, depositata oggi . Perquisizione. Lo scontro verbale tra detenuta e agente di Polizia penitenziaria, in occasione di una «perquisizione», si trascina nelle aule di giustizia e passaggio decisivo è rappresentato dalla decisione emessa in appello, laddove viene sancita la condanna della donna, già in carcere, alla pena di «quattro mesi di reclusione». Nessun dubbio, per i giudici di secondo grado, sulle parole utilizzate dalla donna, e valutabili come «resistenza a pubblico ufficiale». Nessuna sanzione. Tale visione, però, viene contestata duramente dai legali della detenuta, i quali, proprio richiamando le «dichiarazioni dell’agente di Polizia penitenziaria», sostengono che «le frasi offensive e minacciose furono rivolte dopo che la perquisizione era terminata, e che l’atto d’ufficio non venne ostacolato fisicamente o con minacce». Sempre seguendo questa linea difensiva, i legali affermano che «il comportamento» della detenuta «costituiva» semplicemente «una forma di reazione all’attività» dell’agente, la quale «aveva contestato il possesso di due lenzuola in eccedenza rispetto a quelle consentite dal regolamento penitenziario». Ebbene, questa ricostruzione viene ora ritenuta corretta dai giudici della Cassazione, alla luce delle «dichiarazioni rese» dall’agente, dichiarazioni da cui emerge che «le condotte di minaccia e di ingiuria, poste in essere dalla detenuta, avvennero quando ormai l’atto d’ufficio la perquisizione della cella era già stato compiuto» e che «tali condotte, comunque, non rappresentarono un ostacolo concreto all’attività d’ufficio, ponendosi, piuttosto, quale conseguenza di un sentimento di astio e di ribellione nei confronti dell’agente di Polizia penitenziaria, che aveva contestato alla detenuta il possesso di due lenzuola» in eccesso rispetto a quanto previsto dal «regolamento penitenziario». Tutto ciò consente, spiegano i giudici, di affermare che la detenuta «non solo non ha realizzato alcun reale comportamento di aggressione all’incolumità fisica del pubblico ufficiale, ma non ha manifestato alcuna reale volontà di opporsi allo svolgimento» della «perquisizione nella sua cella». Peraltro, va aggiunto, manca anche «il nesso di causalità psicologica tra l’offesa arrecata e le funzioni esercitate dal pubblico ufficiale». Per questi motivi, tirando le somme, viene ribaltato completamente il giudizio emesso in Appello per i giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, il comportamento della detenuta non è minimamente sanzionabile.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 14 maggio – 3 giugno 2015, numero 23684 Presidente Ippolito – Relatore De Amicis Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 26 marzo 2013, depositata il 9 aprile 2013, la Corte d'appello di Ancona, in riforma della sentenza di proscioglimento per mancanza di querela emessa dal Tribunale di Camerino in data 16 febbraio 2010, ha dichiarato C.B. responsabile del reato originariamente contestato di cui all'articolo 337 c.p. e, previa concessione delle attenuanti generiche, l'ha condannata alla pena di mesi quattro di reclusione. 2. Avverso la su indicata decisione della Corte d'appello di Ancona ha personalmente proposto ricorso per cassazione C.B., deducendo violazioni di legge in relazione all'articolo 337 c.p. e vizi motivazionali per contraddittorietà, illogicità e travisamento della prova, con riguardo alle dichiarazioni rese dalla teste V.E., agente di Polizia penitenziaria, all'udienza dibattimentale del 16 febbraio 2010. Da tali dichiarazioni, la cui trascrizione è stata allegata all'atto di ricorso, risulta infatti che le frasi offensive e minacciose furono rivolte alla su indicata agente di Polizia dopo che la perquisizione era terminata, e che l'atto d'ufficio non venne ostacolato fisicamente o con minacce il comportamento posto in essere nelle circostanze in esame, dunque, costituiva una forma di reazione all'attività della V., la quale aveva contestato il possesso di due lenzuola in eccedenza rispetto a quelle consentite dal regolamento penitenziario. Come rilevato dal Giudice di primo grado, in definitiva, nel caso di specie non era configurabile il reato di cui all'articolo 337 c.p., ma solo quelli previsti dagli articolo 594 e 612 c.p., entrambi non perseguibili per difetto di querela. Considerato in diritto 1. II ricorso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito indicate. 2. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, la motivazione della sentenza d'appello che riformi in senso radicale la decisione di primo grado si caratterizza per un obbligo peculiare e rafforzato di tenuta logico-argomentativa, che si aggiunge a quello generale della non apparenza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà, desumibile dalla formulazione dell'articolo 606, comma 1, lett. e , c.p.p. ex plurimis, da ultimo, v. Sez. 2, numero 50643 del 18/11/2014, dep. 03/12/2014, Rv. 261327 Sez. 6, numero 1253 del 28/11/2013, dep. 14/01/2014, Rv. 258005 Sez. 6, numero 8705 del 24/01/2013, dep. 21/02/2013, Rv. 254113 Sez. 6, numero 1266 del 10/10/2012, dep. 10/01/2013, Rv. 254024 . Più in particolare, si è affermato che il giudice di appello, nel riformare la decisione assolutoria del giudice di primo grado, è tenuto a riesaminare, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni Sez. Unumero , numero 6682 del 04/02/1992, dep. 04/06/1992, Rv. 191229 Sez. 4, numero 35922 del 11/07/2012, dep. 19/09/2012, Rv. 254617 . Ne discende, in definitiva, che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le basi strutturali poste a sostegno del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti contenuti nella motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio, perché ritenuta preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato v. Sez. Unumero , numero 33748 del 12/07/2005, dep. 20/09/2005, Rv. 231679 Sez. 5, numero 8361 del 17/01/2013, dep. 20/02/2013, Rv. 254638 . La sentenza di appello, dunque, ove pervenga ad una riforma specie se radicale, come nella specie di quella di primo grado, deve necessariamente misurarsi con le ragioni addotte a sostegno del decisum dal primo giudice, e porre criticamente in evidenza gli elementi, in ipotesi, sottovalutati o trascurati, e quelli che, al contrario, risultino inconferenti o, peggio, in contraddizione, con la ricostruzione dei fatti e delle responsabilità poste a base della sentenza appellata 3. Considerando, ora, le implicazioni di tale quadro di principii in relazione alla concreta disamina della vicenda storico-fattuale oggetto del tema d'accusa, deve rilevarsi come la Corte territoriale abbia operato una rivalutazione sommaria delle emergenze probatorie, venendo meno all'obbligo di motivazione rafforzata che grava sul giudice di appello nelle evenienze procedimentali dianzi esaminate. Invero, emergono con chiarezza dalle sequenze motivazionali della decisione del primo Giudice, e dalle correlative risultanze probatorie delle dichiarazioni dibattimentali rese dalla teste sopra indicata, i seguenti dati a che la persona offesa, ascoltata come teste in dibattimento, ha affermato che le condotte di minaccia e di ingiuria poste in essere dall'imputata avvennero quando ormai l'atto d'ufficio ossia, la perquisizione della cella ove l'imputata era ospitata era già stato compiuto b che tali condotte, comunque, non rappresentarono un ostacolo concreto all'attività d'ufficio, ponendosi, piuttosto, quale conseguenza di un sentimento di astio e di ribellione nei confronti dell'agente di Polizia penitenziaria che aveva contestato all'imputata il possesso di due lenzuola in eccedenza rispetto a quelle consentite dal regolamento penitenziario. Nella specie, lungi dal porre in risalto specifici vizi o carenze della sentenza di primo grado, i Giudici dell'appello ne hanno sostanzialmente trascurato i relativi approdi, per pervenire ad una soluzione alternativa della vicenda processuale, senza tener conto della decisiva valenza probatoria coerentemente attribuita dal primo Giudice a quei dati di fatto - oggettivamente dirimenti - nè dell'insegnamento giurisprudenziale al riguardo elaborato da questa Suprema Corte Sez. 6, numero 44976 del 13/11/2008, dep. 03/12/2008, Rv. 241660 v., inoltre, Sez. 6, numero 1737 del 14/12/2012, dep. 14/01/2013, Rv. 254203 , allorquando ha chiarito che, se il comportamento di aggressione all'incolumità fisica del pubblico ufficiale non è diretto a costringere il soggetto a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell'ufficio, ma rappresenta solo espressione di volgarità ingiuriosa e di atteggiamento genericamente minaccioso, senza alcuna finalizzazione ad incidere sull'attività dell'ufficio o del servizio, la condotta violenta non integra il delitto di cui all'articolo 337 cod. penumero , ma i diversi reati di ingiuria e di minaccia, aggravati dalla qualità delle persone offese, per la cui procedibilità è necessaria la querela Sez. 6, ord. numero 12188 dei 03/02/2005, Rv. 231319 . È proprio quanto avvenuto nel caso di specie, in cui l'imputata non solo non ha realizzato alcun reale comportamento di aggressione all'incolumità fisica dei pubblico ufficiale, ma non ha manifestato alcuna reale volontà di opporsi allo svolgimento dell'atto di ufficio. Nella fattispecie in esame, peraltro, difetta anche il nesso di causalità psicologica tra l'offesa arrecata e le funzioni esercitate dal pubblico ufficiale, imponendosi, conclusivamente, la statuizione di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perchè il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste.