Condanna definitiva per una donna. Evidente, secondo i Giudici, la sua consapevolezza sul fatto che l’immobile – non abitabile, peraltro – fosse utilizzato dalla ospite per il meretricio.
E’ sufficiente concedere la disponibilità di un immobile a una ‘lucciola’ per esser condannati per «sfruttamento della prostituzione». Decisiva, soprattutto, la consapevolezza che la donna utilizzasse quelle quattro mura per esercitare l’attività di meretricio. Cassazione, sentenza numero 40309/2018, Sezione Terza Penale, depositata l’11 settembre . Aggressione. Definitiva la condanna nei confronti di una donna che – d’intesa col marito, intanto deceduto – aveva consentito a una prostituta di utilizzare un appartamento di loro proprietà, per giunta collocato di fianco al bar da lei gestito. Nessun dubbio, in sostanza, secondo i Giudici, sulla consapevolezza della particolare attività esercitata nell’immobile. Su questo fronte viene posto in evidenza l’episodio che ha dato il ‘la’ al procedimento, ossia «l’aggressione subita dalla ‘lucciola’ da parte di un cliente» in quella occasione, il marito della prostituta fu rassicurato dalla donna, la quale gli spiegò che «avrebbe mandato qualcuno a vedere», facendo ovviamente riferimento all’«immobile di sua proprietà, utilizzato dalla ‘lucciola’». Secondo il parere dei Giudici, anche in Cassazione, «l’episodio dimostra che la donna era a conoscenza del fatto che l’immobile era utilizzato per l’esercizio della prostituzione». Denaro. Da non trascurare, poi, «il denaro lasciato, al termine di ogni giornata, dalla ‘lucciola’ sotto il bancone del bar» anche ritenendo che «la somma fosse il corrispettivo delle corse effettuate dal marito titolare di una licenza per autotrasporto privato e di cui aveva usufruito la prostituta», la moglie «non poteva essere ignara», osservano i giudici, «dell’ammontare dell’importo ricevuto giornalmente». Peraltro, «la somma dovuta per il passaggio» fino al Comune «in cui si trova l’immobile» corrispondeva a «circa 80 euro, un importo evidentemente in eccesso rispetto ai prezzi delle corse, a cui si aggiungeva un ulteriore importo, variabile a seconda delle giornate, che poteva anche superare i 100 euro», cioè «una somma che copriva anche il compenso per l’uso dell’immobile». Per chiudere il cerchio, infine, i giudici della Cassazione evidenziano che «l’alloggio in questione non risultava abitabile e dunque non poteva divenire oggetto di un rapporto di locazione», dovendo così «essere destinato esclusivamente all’esercizio del meretricio». Tutti gli elementi a disposizione conducono, in sostanza, alla condanna definitiva della donna per «sfruttamento della prostituzione».
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 20 dicembre 2017 – 11 settembre 2018, numero 40309 Presidente Cavallo – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con sentenza del 12 gennaio 2016, la Corte d'appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del 10 aprile 2014 del Tribunale di Udine, accogliendo l'appello della parte civile, ha dichiarato l'imputata civilmente responsabile anche dell'illecito di sfruttamento della prostituzione e ne ha confermato la responsabilità penale per il reato di cui agli articolo 81, secondo comma, cod. penumero e 3, numero 8 della legge numero 75 del 1958, perché, in concorso con il marito Gi. Anumero deceduto , con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, favoriva l'attività di prostituzione posta in essere da Te. Co., concedendole, in particolare, la disponibilità di un immobile di sua proprietà, in cui esercitare l'attività di meretricio. 2. - Avverso la sentenza l'imputata ha presentato ricorso per cassazione, tramite il difensore. Con un unico motivo di doglianza, si lamentano vizi della motivazione, relativamente alla ritenuta sussistenza della fattispecie di sfruttamento della prostituzione, in contrasto con quanto riferito dalla stessa persona offesa. Secondo l'argomentazione difensiva, la sentenza impugnata baserebbe la condanna, unicamente, sulla consapevolezza dimostrata dall'imputata relativamente all'attività di prostituzione a cui era dedita la persona offesa, al di fuori del proprio contesto familiare. Si rileva che la stessa vittima avrebbe chiarito, in più occasioni, che il vero supporto pratico per la propria attività era Anumero Gi., il marito dell'imputata, che si occupava, prevalentemente, del suo trasporto. La Corte d'appello avrebbe ritenuto non credibile l'imputata in ordine alla mancata conoscenza dell'occupazione dell'immobile di sua proprietà - attiguo al bar da lei gestito - da parte della persona offesa per l'esercizio della prostituzione, dal momento che risulterebbe illogico ritenere che alla donna non fosse richiesto un corrispettivo per l'uso del fabbricato, considerata anche la recente ristrutturazione effettuata e il relativo esborso. Ai giudici di merito è, inoltre, apparsa inverosimile anche la dichiarazione dell'imputata relativamente alla somma di denaro che, talvolta, la persona offesa lasciava nel bar da essa gestito, riponendola sotto il bancone somma considerata dalla ricorrente quale corrispettivo del trasporto che il marito forniva alla donna quotidianamente. Secondo l'argomentazione difensiva, la circostanza sarebbe stata confermata dalla stessa persona offesa, considerata credibile dal giudice di merito. Si rileva, inoltre, che, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, non sarebbe emerso alcun elemento idoneo ad avvalorare la tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, secondo cui gli imputati avrebbero approfittato della fragilità psichica della persona offesa, che consideravano, anzi, come parte della loro famiglia. In ordine all'immobile in cui la donna esercitava la propria attività di prostituzione, si sostiene che la stessa vittima avrebbe dichiarato, più volte, durante l'esame del pubblico ministero, di aver preso accordi con il solo Gi., escludendo ogni coinvolgimento dell'imputata relativamente all'accordo sull'utilizzo del fabbricato e, quindi, sulla consegna del denaro. Secondo la Corte d'appello, la responsabilità dell'imputata sarebbe confermata anche dal fatto che la parte offesa, ogni sera, riconsegnava le chiavi dell'immobile nel bar gestito dalla ricorrente, posandole, autonomamente, in un quadro che ne conteneva altre. Secondo la prospettazione difensiva, le chiavi consegnate dalla vittima sarebbero quelle della sua automobile, che lasciava nel bar quando a riportarla a casa era Gi., o altri. Si rileva, infine, che non sarebbe emerso alcun elemento probatorio circa la quantificazione del denaro che la persona offesa consegnava nel bar, in quanto la somma di cui essa avrebbe riferito, corrisponderebbe - esclusivamente - al prezzo del trasporto che il marito dell'imputata, titolare di una licenza per autotrasporto privato, le avrebbe fornito regolarmente. Considerato in diritto 3. - Il ricorso è inammissibile. Esso è volto, infatti, ad una rivalutazione nel merito dei medesimi elementi probatori, già correttamente analizzati dai giudici di merito. E’ opportuno ricordare, inoltre, che la ritenuta responsabilità penale dell'imputata, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, non è fondata esclusivamente sulla sua conoscenza dell'attività di prostituzione a cui era dedita la persona offesa, ma anche su altri riscontri, puntualmente richiamati e. valutati nella sentenza impugnata. In particolare, si fa riferimento alla vicenda da cui ha avuto origine il procedimento, ossia l'aggressione subita dalla vittima da parte di un cliente, mentre si trovava nell'alloggio di proprietà dell'imputata. In tale occasione, il marito della persona offesa, non avendo sue notizie, chiese aiuto all'imputata, la quale lo rassicurò dicendogli che avrebbe mandato qualcuno a vedere, alludendo all'immobile di sua proprietà e utilizzato dalla vittima. Il figlio dell'imputata, allertato dalla madre e con le chiavi dell'immobile, andò, dunque, sul posto, trovando la donna ferita all'interno dell'alloggio. L'episodio dimostra, inequivocabilmente - contrariamente a quanto affermato dall'imputata - che essa era a conoscenza del fatto che la parte offesa utilizzava il suo immobile per prostituirsi. In ordine alla circostanza delle chiavi che la parte offesa lasciava nel bar gestito dall'imputata, la sentenza impugnata fornisce una motivazione logica e coerente, in quanto non appare sensato che la vittima consegnasse, regolarmente, nel bar dell'imputata le chiavi della propria auto, di cui avrebbe potuto aver bisogno anche in altre occasioni, e appare, ulteriormente, inverosimile che l'imputata non riconoscesse le chiavi dell'immobile di sua proprietà e che le confondesse con le chiavi di una macchina, che per fattura e forma sono - evidentemente - differenti rispetto a quelle di un'abitazione. Per quanto riguarda il denaro lasciato, al termine di ogni giornata, dalla persona offesa, sotto il bancone del bar, la sentenza impugnata, correttamente, ricostruisce la responsabilità dell'imputata, che - anche ritenendo che la somma fosse il corrispettivo delle corse effettuate dal marito e di cui aveva usufruito la donna - non poteva essere ignara dell'ammontare dell'importo ricevuto giornalmente, dal momento che essa stessa consegnava, successivamente, il denaro al marito. La persona offesa ha riferito, infatti, che la somma dovuta per il passaggio da Udine a Coidropo comune in cui si trova l'immobile corrispondeva a circa 80 Euro, un importo evidentemente in eccesso rispetto ai prezzi delle corse, a cui si aggiungeva un ulteriore importo, variabile a seconda delle giornate, che poteva anche superare i 100 Euro. Una somma che, dunque, copriva anche il compenso per l'uso dell'immobile, di cui l'imputata - come precedentemente riferito - era consapevole. Come ben evidenziato dalla sentenza impugnata, d'altronde, l'alloggio in questione non risultava abitabile e non poteva, dunque, divenire oggetto di un rapporto locazione a tal fine, così da essere destinato esclusivamente all'esercizio della prostituzione. Tale elemento, insieme all'ammontare dell'importo che la persona offesa corrispondeva, proporzionalmente, ai ricavi ottenuti dalla propria attività di prostituta, integra, correttamente, il reato di sfruttamento della prostituzione. 4. - Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, numero 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'articolo 616 cod. proc. penumero , l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. L'imputata deve anche essere condannata alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, da liquidarsi in Euro 3.000,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuale e alla somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Te. Co., che liquida in Euro 3.000,00, oltre accessori di legge.