Confermata la condanna già emessa in Appello. L’uomo, un marocchino, costringeva la ragazza a studiare fino a notte inoltrata il testo sacro per farglielo imparare a memoria. Di fronte al contesto socio-storico-giuridico dell’Italia è evidente l’abuso compiuto dal padre, che non può essere giustificato da una visione antica, da padre padrone.
Obbligata a imparare il Corano a memoria, messa continuamente alla prova e punita in caso di risposta sbagliata. A vivere quest’incubo una ragazza, figlia di un cittadino marocchino, che, nonostante il richiamo alle proprie radici, ossia ai propri riferimenti etici e religiosi, deve subire una condanna per maltrattamenti in famiglia. Per la giustizia, difatti, nessuna attenuazione è possibile – come chiarisce la Cassazione, con sentenza numero 12089, Sesta sezione Penale, depositata oggi – e quindi nessuno spiraglio per il reato di abuso dei mezzi di correzione, anche perché è illogico ipotizzare che ci si possa sottrarre alla «evoluzione del costume». Versetti obbligati. Non solo lo studio del Corano, ma anche l’apprendimento a memoria dei versetti della scrittura sacra dell’Islam. Il diktat del padre, marocchino, tormenta la figlia, costretta addirittura a studiare fino all’una di notte, ma, per la legge italiana, tali comportamenti hanno rilevanza penale. Ad attestarlo prima il giudice dell’udienza preliminare e poi la Corte d’Appello l’uomo, difatti, viene condannato per il delitto di maltrattamenti e lesioni aggravate, per aver percosso la figlia «quando ella non era in grado di ripetere perfettamente a memoria i versi del Corano». Famiglia patriarcale. A propria difesa, però, l’uomo, attraverso il legale che lo rappresenta in giudizio, richiama radici e convinzioni etico-religiose. In questa ottica – evidenziata nel ricorso in Cassazione – i comportamenti tenuti nei confronti della figlia avrebbero avuto «finalità educativa», all’interno di un contesto «culturale e familiare di carattere rigidamente patriarcale», e sarebbero stati connessi alla visione da «’padre padrone’» e al «codice etico-religioso» dell’uomo. Di conseguenza, seguendo questa linea di pensiero, il ricorso ad «un uso controllato della forza» era mirato ad una «finalità educativa». Soprattutto tenendo presente la visione ‘antica’ dell’uomo, estraneo alla «evoluzione del costume» e della pedagogia. Cultura, storia e diritti Ma, per i giudici della Cassazione, la tesi proposta dall’uomo non è assolutamente fondata né, tantomeno, condivisibile, innanzitutto alla luce della «palese violazione di diritti essenziali e inviolabili della persona», fondamento dell’ordinamento giuridico italiano e «sbarramento invalicabile» contro «consuetudini, prassi e costumi antistorici». Proprio alla luce del quadro sociale, storico e di diritto dell’Italia, chiaro e comprensibile, l’atteggiamento tenuto dal padre marocchino nei confronti della figlia è ritenuto «consapevole» e «non giustificabile», soprattutto alla luce del comportamento opposto tenuto dal fratello dell’uomo, che aveva accolto e difeso la nipote. Di conseguenza, va pienamente confermata la valutazione del reato di maltrattamenti, e va confermata anche la condanna pronunciata in Appello.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 28 – 30 marzo 2012, numero 12089 Presidente Agrò – Relatore Citterio Ragioni della decisione 1. La Corte d’appello di Bologna con sentenza del 2.3-19.4.2010 ha confermato la condanna del cittadino marocchino A. R., deliberata il 12.11.2007 dal GUP di Ravenna per il delitto di maltrattamenti e lesioni aggravate in danno della figlia dodicenne, percossa quotidianamente quando non era in grado di ripetere perfettamente a memoria versi del corano che, riferiscono i giudici del merito, il padre costringeva a studiare fino all’1 di notte . 2. Ricorre nell’interesse dell’imputato il difensore, con unico articolato motivo denunciando violazione dell’articolo 572 c.p. per difetto dell’elemento soggettivo. Secondo il ricorrente, i fatti si sarebbero svolti per finalità educative in un contesto culturale e familiare di carattere rigidamente patriarcale, che avrebbero fatto sentire l’imputato legittimato ad agire da “padre padrone”, in modo congruo al proprio codice etico-religioso di riferimento, il che rivelerebbe sia ai sensi del vigente testo dell’articolo 5 c.p. che per l’individuazione del discrimine con il diverso reato dell’abuso dei mezzi di correzione, di cui all’articolo 571 c.p. per contro l’adesione al diverso insegnamento della “sentenza Cambria” si porrebbe in contrasto con i principi di cui agli articolo 3 e 27 Cost In definitiva, secondo il ricorso p.7 il padre sarebbe ricorso ad un uso controllato della forza per finalità educative in particolare l’uso del manico di scopa per colpire la bambina erroneamente sarebbe stato ritenuto incongruo allo scopo, le altre lesioni essendo riconducibili all’azione del fratello della bambina. Nella fattispecie, l’estraneità dell’imputato al processo di evoluzione del costume e delle scienze pedagogiche dovrebbe scusarlo, essendo irrilevante il diverso comportamento del proprio fratello lo zio che ebbe a chiamare i carabinieri dopo che la minore si era da lui rifugiata e l’imputato voleva riprenderla con la violenza . 3. Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza del motivo. Questa Corte suprema ha già ripetutamente insegnato – per tutte, la sentenza Sez. VI, sent. 46300 del 2008 che, con sintesi approfondita ed efficace, riassume con chiarezza i termini della questione afferente i cosiddetti reati culturali o culturalmente orientati – l’irrilevanza della cosiddetta ignorantia juris, pur letta nell’ambito interpretativo della Corte delle leggi, quando le condotte oggetto di valutazione si caratterizzino per la palese violazione dei diritti essenziali ed inviolabili della persona quali riconosciuti ed affermati dalla Costituzione nazionale, che costituiscono la base indefettibile dell’ordinamento giuridico italiano e il cardine della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali. Come insegnato dalla richiamata sentenza 46300/2008, tali principi costituiscono uno “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione nella società civile – di diritto e anche solo in fatto – di consuetudini, prassi e costumi “antistorici” rispetto ai risultati ottenuti nell’ambito dell’affermazione e della tutela dei diritti inviolabili della persona in quanto tale, cittadino o straniero che sia. La condotta violenta e intenzionalmente vessatoria dell’imputato quale descritta in fatto dalla Corte distrettuale che ha, tra l’altro, significativamente evidenziato anche il contesto di vita sistematicamente imposto alla dodicenne pure in ordine all’impedimento del dormire per un numero di ore fisiologicamente essenziali allo sviluppo psico-fisico proprio dell’età della persona offesa si è posta pertanto come consapevole, e non giustificabile, scelta a fronte di un sistema di valori costituzionali nei suoi tratti essenziali ed indefettibili notoriamente opposto apparendo in proposito altrettanto significativo il richiamo della Corte di Bologna al diverso comportamento del congiunto intervenuto a difesa e tutela della ragazza . Proprio il consolidato orientamento e l’assenza di novità nelle prospettazioni difensive che, in definitiva, si limitano a riproporre argomenti che - quanto alla configurabilità dell’elemento soggettivo del reato qui non trattandosi del differente aspetto del trattamento sanzionatorio - sono ormai del tutto, e con motivazione consolidata, disattesi, impone la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, equa al caso, di euro 1000 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.