Il comma 9 dell’articolo 21, l. numero 247/2012, in base al quale deve essere emanato il regolamento, così dispone «la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, con proprio regolamento, determina, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, i minimi contributivi dovuti nel caso di soggetti iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali, eventuali condizioni temporanee di esenzione o di diminuzione dei contributi per soggetti in particolari condizioni e l’eventuale applicazione del regime contributivo».
Il 31 gennaio 2014 Cassa Forense ha approvato, a maggioranza, il testo finale del regolamento inviato ai Ministeri Vigilanti per la relativa approvazione. Il regolamento non si riferisce soltanto agli avvocati iscritti all’Albo e non iscritto alla Cassa ma a tutti gli avvocati allontanandosi così decisamente dai limiti che la legge delega imponeva venendo a disciplinare ipotesi che con il comma 9 non hanno alcuna connessione, né logica né giuridica. In buona sostanza Cassa Forense ha colto l’occasione per intervenire sul sistema previdenziale forense, abrogando e modificando la legislazione vigente, ivi compresa quella regolamentare, assolutamente imperativa. È pacifico in giurisprudenza che Cassa Forense non ha un potere illimitato di regolamentare il sistema assistenziale e previdenziale forense, abrogando o modificando le leggi che lo disciplinano, se non nei rigorosi limiti, come ha già affermato la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza 24202/2009, diretti a rafforzare il suo equilibrio tecnico finanziario nel lungo periodo di 50 anni come previsto dall’articolo 24, comma 24, legge numero 214/2011. Nel caso di specie l’intervento va addirittura nella direzione opposta! Abuso del diritto? Al di la di ogni discussione formale sull’illegittimità per eccesso di delega, si pone il problema se vertiamo nell’ipotesi dell’abuso del diritto. Com’è noto l’abuso del diritto non è disciplinato nel codice civile italiano del 1942 perché l’articolo 7 del progetto preliminare, secondo il quale “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto”, non è stato recepito nel codice. L’abuso del diritto è stato definito come elemento dinamico di tutto il processo evolutivo del diritto frutto della elaborazione giurisprudenziale diritto vivente che, sulla scorta dei principi generali dell’ordinamento e ancora più di quelli costituzionali, ha superato la rigidità del brocardo «qui jure suo utitur, neminem laedit» riprendendo invece il concetto secondo cui «non omne quod licet, honestum est». Si tratta in buona sostanza di accertare se il comportamento di un soggetto, formalmente conforme al contenuto del proprio diritto, possa essere considerato illecito e quindi foriero di responsabilità in base ad una valutazione di carattere generale. La giurisprudenza, formatasi in materia, ha affermato che l’abuso del diritto è criterio rivelatore della violazione del principio di buona fede oggettiva e ha identificato gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto che sono 1. la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto 2. la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate 3. la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico o extragiuridico 4. la circostanza che, a causa di tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte ex plurimis, Cass., 18.09.2009, numero 20106 in Guida al diritto, 2009, 40, 38 ss. . Secondo questa interpretazione l’abuso del diritto costituisce quindi una utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, volta al perseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli previsti dal legislatore sentenza citata . Buona fede In questo quadro occorre verificare la portata del principio di buona fede anche perché la Corte di Cassazione – come già evidenziato in precedenza – ha ritenuto che l’abuso del diritto è criterio rivelatore della violazione del principio di buona fede oggettiva. La figura dell’abuso di diritto ha avuto ricadute, per esempio, sul sistema tributario da un lato e su quello economico – produttivo dall’altro. In queste materie per abuso di diritto si intendono quei comportamenti formalmente leciti dai quali il contribuente consegue un risparmio d’imposta che può essere contestato dall’amministrazione finanziaria quando questi comportamenti perseguano unicamente tale fine. In materia tributaria l’abuso di diritto viene così a collocarsi in una zona grigia in cui l’amministrazione non è chiamata a difendersi dall’occultamente di materia imponibile e cioè dall’evasione fiscale ma dall’uso improprio di norme a fini ingiustamente vantaggiosi e cioè dall’elusione fiscale una zona grigia la cui definizione dei confini può spesso diventare molto difficile e questo spiega il perché del susseguirsi di numerose pronunce da parte degli organi della giurisprudenza, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea alla posizione maturata recentemente dalla Corte di Cassazione. Occorre così trovare un giusto equilibrio tra l’abuso di diritto, il diritto di abuso e l’eccesso di diritto, basato su un rapporto ispirato alla buona fede, vuoi dell’amministrazione, vuoi degli iscritti in Cassa Forense. Cassa Forense agisce e deve agire nel rispetto delle regole, che non deve certamente forzare o in suo favore o in favore di una determinata categoria di iscritti rispetto ad altre categorie di iscritti ma la stessa cosa, e cioè il rigoroso rispetto della buona fede, deve valere anche per tutte le coorti di iscritti. È quindi necessario combattere efficacemente l’abuso di diritto ma al tempo stesso è necessario salvaguardare gli iscritti sia dal diritto di abuso che dall’eccesso di diritto. Nel caso di specie la legge delega, e cioè il comma 9 dell’articolo 21, che non a caso sopra abbiamo riportato per intero, delegava Cassa Forense a disciplinare le seguenti ipotesi a accertare se l’iscritto abbia raggiunto i parametri reddituali, fissati dalle delibere dei delegati, per far ritenere sussistente la continuità professionale se l’accertamento dovesse dare risultati negativi, per questo iscritto, ma solo per questo, determinare i contribuiti minimi che deve versare, naturalmente inferiori a quelli dovuti per la generalità degli iscritti che superano i predetti parametri b determinare le temporanee condizioni, in base alle quali l’iscritto, che versa in particolari condizioni, può usufruire dell’esenzione o della diminuzione del pagamento dei contributi c applicare il regime contributivo per queste due categorie di iscritti Albo che hanno ottenuto i predetti benefici Nel regolamento approvato, invece, Cassa Forense ha esteso i benefici anche ad altri soggetti ed ha modificato due pilastri del sistema previdenziale forense quali sono l’iscrizione a domanda e la infrazionabilità dell’anno. A me pare che la violazione del criterio generale della buona fede sia incontestabile e nel diritto vivente, come detto più sopra, si è assistito alla trasformazione della buona fede da criterio per la valutazione delle condotte a strumento di integrazione degli obblighi nascenti in capo alle parti attraverso l’individuazione di ulteriori condotte. Tra i rimedi diversi da quelli risarcitori possibili in caso di abuso del diritto assume particolare rilievo l’exceptio doli generalis che attribuisce al titolare la possibilità di opporsi ad una altrui pretesa o eccezione, astrattamente fondata, ma che, in realtà, costituisce espressione di uno scorretto esercizio di un diritto, volto al soddisfacimento di interessi non meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico. 87mila avvocati in precarie condizioni economiche. Come abbiamo già scritto più volte il regolamento ex articolo 21, così come approvato dal Comitato dei Delegati di Cassa Forense, sia pure a maggioranza, sospinge circa 87.000 avvocati, in precarie condizioni economiche, verso la pensione contributiva in violazione dello articolo 3 Cost. e 14 CEDU non integrata al trattamento minimo pur se richiedendo agli stessi il versamento del contributo integrativo del 4% sul volume d’affari che va a finanziare proprio quella integrazione al trattamento minimo della pensione retributiva dalla quale sono esclusi. Il primo Collega che arriverà a maturazione dei requisiti per la pensione e che si vedrà liquidare la pensione contributiva non integrata al trattamento minimo adirà il Giudice del lavoro per sentirsi riliquidare il trattamento agganciato al quantum del minimo retributivo e questo solo, moltiplicato per tutti gli aventi diritto, metterebbe a rischio la stabilità economico finanziaria della Fondazione stessa con effetto domino per tutte le coorti di avvocati iscritti. Evidentemente chi ha materialmente confezionato il regolamento ex articolo 21 non è stato lungimirante e non ha tenuto conto di queste ricadute che sono peraltro foriere di responsabilità gravi. Questi spunti sono frutto della discussione avviata su facebook sul forum “Previdenza forense” e ai preziosi suggerimenti della giovane Collega Stefania Arduini di Frosinone che ringrazio.
PP_PROF_regolamento_rosa_s