L’avvocato offende la collega avversaria: interviene l’Ordine

Nei provvedimenti disciplinari a carico di avvocati, la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare definite dalla legge mediante una clausola generale è rimessa all’Ordine professionale.

A ribadirlo sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 14507, depositata il 10 giugno 2013, pronunciandosi su un ricorso presentato da un avvocato che da accusatore” si è ritrovato ad essere accusato”. Accusa la collega di ledere il prestigio dell’avvocatura. Infatti, il professionista, dopo aver criticato in una memoria difensiva una collega, legale della controparte, per aver - a suo giudizio - gravemente leso il prestigio dell’avvocatura non avendo assistito il cliente nel migliore dei modi , aveva presentato contro tale collega un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, chiedendo che si procedesse nei confronti dell’avversaria per violazione del Codice deontologico. Le accuse si ribaltano. In questa sede, però, il Consiglio ha archiviato il procedimento nei confronti della donna e ha disposto l’apertura di un procedimento disciplinare a carico del ricorrente, ritenuto responsabile di aver violato il divieto di uso di espressioni sconvenienti ed offensive nei confronti della difesa avversaria, sancito dall’art. 20 del Codice deontologico, nonché l’obbligo di mantenere un comportamento ispirato a correttezza e lealtà nei confronti del collega previsto dall’art. 22 del citato Codice. Dunque, il ricorrente stesso è stato considerato responsabile di esser venuto meno ai suindicati doveri, compromettendo la propria dignità personale. La Cassazione schiva il tranello”. Tale posizione è stata riaffermata in appello dal Consiglio Nazionale Forense e a nulla è valso il ricorso in Cassazione, in quanto le Sezioni Unite hanno ritenuto le censure un tentativo di ottenere un riesame del merito finalizzato a sostituire la valutazione dei fatti operata dal Consiglio Nazionale Forense. Piazza Cavour, infatti, ha affermato che nei provvedimenti disciplinari a carico di avvocati, il controllo di legittimità sull’applicazione delle norme con clausola generale abusi o mancanze nell’esercizio della professione o comunque fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi al Consiglio Nazionale Forense nell’ipotesi di illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza. Però, nella fattispecie, gli Ermellini hanno considerato l’analisi della vicenda operata dal CNF approfondita e particolareggiata, pertanto, hanno rigettato il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 28 maggio - 10 giugno 2013, n. 14507 Presidente Trifone – Relatore Botta Svolgimento del processo Dopo aver criticato in una memoria difensiva la Collega avv. Ma. difensore della controparte in procedimento per risarcimento danni per aver quest'ultima gravemente leso il prestigio dell'avvocatura non avendo assistito il cliente nel migliore dei modi , l'avv. Mannelli presentava avverso detta Collega un esposto al COA di Roma chiedendo che si procedesse nei di lei confronti per violazione del Codice deontologico. Ascoltate le parti il COA di Roma deliberava di archiviare il procedimento aperto nei confronti dell'avv. Ma. e disponeva l'apertura di un procedimento disciplinare a carico dell'avv. M. , nei cui confronti veniva formulato il seguente capo di imputazione A Nella qualità di difensore della sig.ra C.G. , nel giudizio da quest'ultima intrapreso nei confronti del Condominio di via omissis per ottenere il risarcimento dei danni subiti e quantificati complessivamente in Euro 45.000,00 circa, a seguito di incidente occorsole all'interno dello stabile sito in omissis - nella memoria difensiva, depositata ex art. 183, comma 5, c.p.c., chiedeva, senza che fosse necessario ai fini difensivi e pur essendo consapevole della eccepita inoperatività della polizza assicurativa del condominio e del diniego al risarcimento del danno manifestato dalla compagnia assicuratrice Le Assicurazioni d'Italia, al Giudice designato per la trattazione della causa e nei confronti dell'avv. Ma.Gr Ma. , nominata difensore dal convenuto condominio di via Monte del Gallo n. 45, regolarmente costituitosi in giudizio per tutelare gli interessi del cliente di . verificare il comportamento dell'avv. Ma. e se ritenuto non conforme ai precetti deontologici informare il P.M. per l'avvio del procedimento disciplinare per avere elle, seppure rendicontata sull'esistenza di una polizza assicurativa prevedente, tra le varie, il patto di polizza c.d. gestione della lite, inutilmente appesantito l'onere economico del condominio di via omissis sottoponendolo al pagamento dei suoi onorari - di ammettere il seguente capitolo di prova testimoniale vero che non eravate informati della superfluità dell'intervento dell'avv. Ma.Gr Ma. poiché già prevista l'assistenza legale agli obblighi contrattuali assunti dell'Assitalia? eccepiva, argomentando sul punto, nella suindicata memoria difensiva, la responsabilità deontologica della difesa avversaria, lo sconcerto per l'operato dell'avv. Ma.Gr Ma. , la responsabilità personale di quest'ultima per una difesa ritenuta superflua, la condotta gravemente nociva per il prestigio dell'Avvocatura non avendo l'avv. Ma. assistito il cliente nel migliore dei modi. B Ribadiva, nell'esposto presentato al Consiglio il 31 maggio 2005, tali negative valutazioni, aggiungendo che l'avv. Ma. è venuta meno al dovere di fedeltà nel momento in cui non ha evitato al cliente ogni pregiudizio tenendo un comportamento consistente nel compimento di atti consapevolmente contrari all'interesse del proprio assistito e che, nell'ipotesi in cui fosse ravvisarle . solo colpa stante l'assenza di volontarietà, la stessa ossia l'avv. Ma. incorrerebbe comunque in un illecito non avendo per incompetenza informato dell'esistenza di una clausola così fondamentale importanza come la gestio litis, in violazione dell'art. 12 che prevede la necessarietà della competenza a svolgere un incarico prima dell'accettazione . Con tale condotta violava il divieto di uso di espressioni sconvenienti ed offensive nei confronti della Collega, sancito dall'art. 20 del Codice deontologico nonché l'obbligo di mantenere un comportamento ispirato a correttezza e lealtà nei confronti del Collega previsto dall'art. 22 del codice deontologico. Veniva così meno ai suindicati doveri compromettendo la propria dignità professionale. Fatti accaduti in Roma, dal dicembre 2004 al 31 maggio 2005”. Il COA di Roma, ritenuto fondato il capo di imputazione, irrogava nei confronti dell'avv. M. la sanzione della censura e il Consiglio Nazionale Forense, con la decisione in epigrafe, ne rigettava l'appello. Avverso tale sentenza l'avv. M. propone ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sette motivi. Motivazione 1. Le censure formulate in relazione alla sentenza impugnata sono - travisamento dei fatti consistente nell'aver ritenuto ingiurioso il contenuto dei rilievi deontologici che l'incolpato aveva rivolto alla collega Ma. primo motivo - disconoscimento della facoltà della parte di azionare l'azione disciplinare in un processo quarto motivo, dedotto in unità con il primo - sviamento di potere per uso inappropriato della giurisdizione domestica, per mancata valutazione delle espressioni sconvenienti utilizzate dall'avv. Ma. nei confronti dell'incolpato secondo motivo - carenza di motivazione e carenza del procedimento per erroneità in ordine alla sussistenza dei presupposti giustificanti l'avvio di azione disciplinare terzo motivo - carenza del procedimento per omessa audizione di testi e mancato inquadramento della controversia quinto motivo - eccesso di potere per erronea valutazione dei fatti in ordine all'operatività della polizza sesto motivo - incostituzionalità della norma o necessità di un'interpretazione costituzionalmente orientata alla luce della legislazione in tema di difesa dei consumatori settimo motivo . 2. Una lettura comparata della sentenza impugnata e del ricorso per cassazione convince che le censure formulate con quest'ultimo sono la mera riproposizione delle stesse censure che innanzi al Consiglio Nazionale Forense sono state rivolte alla decisione del COA si tratta, quindi, di un tentativo, la cui evidenza emerge dalla stessa articolazione delle argomentazioni a sostegno della critica, di ottenere un riesame del merito finalizzato a sostituire con le proprie valuta-zioni dei fatti quelle del CNF, chiedendo sostanzialmente che a questo si sostituisca la Corte di Cassazione. 2.1. Ma ciò non è possibile in quanto nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati, la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare definite dalla legge mediante una clausola generale abusi o mancanze nell'esercizio della professione o comunque fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale è rimessa all'Ordine professionale, ed il controllo di legittimità sull'applicazione di tali norme non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nell'enunciazione di ipotesi di illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, che attiene non alla congruità della motivazione, ma all'individuazione del precetto e rileva, quindi, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.” Cass. S.U. n. 19705 del 2012 . 3. Peraltro, nella fattispecie, la sentenza del CNF, impugnata con il ricorso, appare frutto di una approfondita e particolareggiata analisi della vicenda e ad ogni censura risulta essere data una appagante risposta sia sotto il profilo della consapevole applicazione della legge, sia sotto il profilo della assoluta congruità della motivazione. 4. Pertanto il ricorso deve essere rigettato. Non occorre provvedere sulle spese, stante la mancata costituzione della parte intimata. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione Rigetta il ricorso.