Nessun rimborso per l’avvocato senza l’emanazione del decreto del Ministero della Giustizia

In assenza di emanazione del decreto di cui all’articolo 13, comma 6, legge 247/2012, destinato a disciplinare i parametri del compenso spettante al professionista, non è possibile liquidare in suo favore rimborso delle spese forfettarie.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza numero 51760 del 23 dicembre 2013, offre una interpretazione para letterale del disposto della norma portata dall’articolo 13 del ben noto d.m. 247/2012. La questione dei rimborsi forfettari. Detta interpretazione trae spunto dal tenore dell’articolo 13, comma 6, letto in combinato disposto con il comma 10. Ora alla luce della suggerita lettura gli Ermellini giungono a statuire che, siccome il Ministero non ha emanato il decreto previsto, con il quale si sarebbe dovuta indicare la misura massima della spese forfettarie rimborsabili, non si possa neppure applicare un rimborso delle stesse spese determinato in misura minima Misura minima che ben difficilmente potrebbe essere quantificata in modo differente da quel 12,5% ben noto a tutti gli operatori. Il ragionamento della Cassazione è affetto da vizio di logicità che mi pare evidente siccome non sono in grado di stabilire un importo massimo evito di indicare anche un importo differente, inferiore al massimo, cui fare riferimento. È come se un matematico stante l’incommensurabilità dell’universo che postula l’esistenza di una scala dei numeri, positivi o negativi, infinita, si rifiutasse di principiare il conto partendo dallo 0 ! L’illogicità da cui al decisione è viziata è destinata a non subire sanzioni posto che mi pare che in punto un ricorso alla CEDU non avrebbe grandi possibilità di accoglimento. Per riparare al “vulnus” è bene che gli avvocati si determinino, una volta per tutte a dar corso a quelle pattuizioni contrattuali che, oltre ad avvicinarci al novero dei comuni mortali che svolgono un servizio ed una funzione Costituzionalmente protetti, porrebbero al riparo da contestazioni con i clienti e da inattese sorprese giudiziarie. L’inammissibilità per difetto di specificità. La Corte di Cassazione prosegue nella propria personale battaglia finalizzata allo sfoltimento dei ricorsi che le vengono indirizzati e rivolti. La stretta alla possibilità di ricorrervi, che tarda a giungere per via legislativa che, a ben vedere dovrebbe essere la via maestra da perseguire, viene creata per via giurisprudenziale. Il che non dovrebbe stupire gli operatori posto che da tempo la dottrina ha posto ben in evidenza come il nostro sistema sia sottoposto a causa delle spinte giurisprudenziale ad un vero e proprio mutamento di natura divenendo sempre più simile ai sistemi di common law. Si tratta del fenomeno giuridico identificato quale diritto vivente che ha preso le mosse dalla commendevole necessità di rendere adeguate ai tempi le norme scritte ma che,ben presto, ha finito con il debordare rendendo i giudici di legittimità dei veri e propri legislatori che non solo interpretano la norma ma addirittura, come in questo caso, la dettano. Si tratta a mio modo di vedere di una attività che si pone al di fuori dei poteri attribuiti dalla Costituzione al potere giudiziario che, così facendo si sostituisce al potere legislativo. Confondendo poteri che, Montesquieu docet, dovrebbero invece restare ben distinti. A nulla vale osservare come la distinzione tra poteri posta alla base della Nostra Costituzione non sia l’unica atta a garantire la democrazia posto che, nei paesi di common law la funzione giudiziaria viene sottoposta a controlli, da parte degli altri poteri, ed a regole assolutamente inesistenti nel nostro ordinamento. Ma tant’è il diritto vivente sta riscrivendo, con grande forza, le regole codicistiche, che, nei fatti sono diventate mero strumento indicativo da seguirsi nella risoluzione delle controversi portate all’attenzione del potere giudiziario. Nel caso di specie l’inammissibilità per difetto di specificità è vizio del ricorso che non trova alcuna rispondenza nel codice di rito. Anzi. Il ricorso dichiarato inammissibile per difetto di specificità potrebbe e dovrebbe essere assolutamente ammissibile se le censure “pedissequamente riproposte” riguardassero le lettere dell’articolo 606 c.p.p. Posto che i giudici di primo e secondo grado potrebbero aver errato nell’esercitare il potere loro conferito, violando una delle cinque regole ivi indicate. Recita infatti il comma 3 della medesima disposizione «il ricorso è inammissibile se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero, fuori dei casi previsti dagli articolo 569 e 609, comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello». Ricorso inammissibile? Il che significa che il ricorso è ammissibile se sono dedotte violazioni di legge già lamentate con i motivi di appello. Ovvero che il vizio di difetto di specificità è figura di creazione giurisprudenziale che si pone in diretto ed immediato contrasto con la disciplina legislativa dettata ai fini di stabilire quali debbano essere le caratteristiche proprie del ricorso per cassazione. Il che, mi pare, costituisca una situazione al limite del parossismo posto che il Giudice di legittimità pronuncia, laddove verifiche l’esistenza dell’inammissibilità per difetto di specificità, fornendo una interpretazione contraria a quella legge che esso dovrebbe servire assoggettandovisi. Non mi pare una situazione immeritevole di approfondimento e di intervento. Vuoi giurisprudenziale, nel senso di proveniente dallo stesso potere che ne ha costruito e costituito l’efficacia, vuoi legislativo. Ma in momenti di difficoltà come quelli che il Paese sta attraversando con il potere legislativo in altre faccende affaccendato ed attratto dall’introduzione di nuove fattispecie astratte, dubito che si possa sperare in un doveroso cambiamento di rotta. Ancora una volta dovranno essere gli interpreti dotati dei poteri meno forti caso strano gli avvocati a dar corso alle forme di tutela anche di natura sovra nazionale per vedere riconosciuto il diritto dei propri assistiti a quel giusto processo cui tutti aspiriamo. Nel frattempo la dottrina del “difetto di specificità” prolifica e viene estesa anche alle Corti d’Appello, colpendo, forse in quella sede con qualche maggior ragione, gli atti privi di puntuali doglianze rispetto o all’iter procedurale seguito per giungere alla emanazione della sentenza od alle motivazioni che detta sentenza sorreggono. Ma se la dottrina descritta ha ragioni d’esistere in grado d’appello il sistema rischia di entrare in corto circuito o come direbbero gli anglo sassoni in “looping” allorché si chieda al difensore di dettagliare i motiv d’appello lagnandosi di tutte le violazioni in procedendo od in judicando che egli ritenga essere intervenute, pena l’inammissibilità dell’atto, e poi lo si colpisca, con analoga sanzione, allorché ridettagli le proprie lagnanze, come lo obbliga a fare l’articolo 606 comma 3 del codice di rito, avanti alla Corte di Cassazione. Mi pare evidente che il meccanismo messo in atto, proprio perché privo di sostegno normativo o di condivisa valutazione dei suoi pregi e difetti e delle conseguenze che esso apporterà nel sistema da parte di tutti gli operatori, finisca con l’avere effetti devastanti sulla tenuta complessiva del sistema del triplo grado di giudizio per come noi lo conosciamo. E soprattutto per come lo ha voluto e costruito il Legislatore che, ogni tanto è bene ricordarlo, rappresenta la volontà del popolo Italiano che è lo stesso soggetto in nome del quale si amministra la giustizia. O forse no.

Corte di Cassazione, sez. Feriale Penale, sentenza 3 settembre - 23 dicembre 2013, numero 51760 Presidente Dubolino – Relatore Beltrani Ritenuto in fatto 1. La Corte d'appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato, quanto all'affermazione di responsabilità penale e civile, la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 1 luglio 2011, che aveva dichiarato gli odierni ricorrenti colpevoli di concorso in truffa aggravata, condannandoli - ritenute per entrambi le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante - alle pene per ciascuno ritenute di giustizia, condizionalmente sospese, oltre alle statuizioni accessorie, anche di natura civilistica. La Corte di appello ha riformato la sentenza di primo grado limitatamente a queste ultime, disponendo la condanna degli imputati anche alla rifusione delle spese patite dalla parte civile Z. nel giudizio civile originariamente intentato, poi abbandonato a seguito dell'opzione per l'azione civile in sede penale. 2. Avverso tale provvedimento, hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione gli imputati, personalmente, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'articolo 173, comma 1, disp. att. c.p.p. I - erronea applicazione della legge penale lamentano in proposito l'improcedibilità ed improseguibilità dell'azione penale per difetto di querela, non risultando configurabile la circostanza aggravante di cui all'articolo 61 numero 7 c.p., per le ragioni già indicate nell'atto di appello, cui la Corte di appello non avrebbe risposto, limitandosi a riportare una decisione giurisprudenziale di legittimità citano a sostegno del proprio assunto una decisione giurisprudenziale di merito II - revoca tacita dell'atto di costituzione di parte civile ex articolo 82, comma 2, c.p.p. e conseguente nullità delle statuizioni in favore della parte civile lamentano in proposito che la Corte di appello non avrebbe offerto alcuna dimostrazione della sussistenza e della consistenza dei danni morali liquidati e comunque che la medesima azione civile era stata inammissibilmente coltivata dalla parte civile anche in sede civile III - erronea applicazione della legge penale, nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione lamentano in proposito la carenza del dolo e dei raggiri ed artifizi necessari a configurare la c.d. truffa contrattuale, nonché l'assenza del danno IV - erronea valutazione delle circostanze ex articolo 133 c.p. quanto al mancato riconoscimento del beneficio della non menzione. Hanno concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata, con le conseguenti statuizioni, anche ex articolo 129 c.p.p., senza rinvio, ovvero con rinvio quanto alle statuizioni civili in subordine, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale degli articolo 74, 75, 82 e.p.p., per contrasto con gli articolo 24 e 25 della Costituzione, nella parte in cui ammettono la contemporanea prosecuzione della stessa azione civile in sede civile e penale. In data 5 agosto 2013 la parte civile costituita ha depositato memoria difensiva con la quale ha chiesto dichiararsi inammissibile o comunque rigettarsi il ricorso. 3. All'odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza. Considerato in diritto Il ricorso è, nel suo complesso, infondato e va rigettato. 1. È necessario premettere che il giudice d'appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell'impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata per tutte, Cass. penumero , sez. VI, numero 1307 del 26 settembre 2002, dep. 14 gennaio 2003, Delvai, rv. 223061 . In presenza di una doppia conformare affermazione di responsabilità, va, peraltro, ritenuta l'ammissibilità della motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità Cass. penumero , sez. II, numero 1309 del 22 novembre 1993, dep. 4 febbraio 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250 sez. Ili, numero 13926 del 1 dicembre 2011, dep. 12 aprile 2012, Valerio, rv. 252615 . 1.1. Inoltre, secondo consolidato orientamento di questa Corte Suprema per tutte, Sez. VI, numero 34521 dell'8 agosto 2013, rv. 256133 , è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello al più con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti. 2. Ciò premesso, deve ritenersi che il ricorso sia, nel suo complesso, infondato, poiché un motivo è infondato, gli altri generici e manifestamente infondati. 2.1. Il primo motivo è infondato. Deve premettersi che la c.d. truffa contrattuale si realizza per il solo fatto che il deceptus sia addivenuto alla stipula di un contratto che altrimenti, in difetto dei raggiri ed artifizi posti in essere dal deceptor, non avrebbe stipulato. La Corte di appello f. 4 , nel ritenere la configurabilità, nel caso di specie, della circostanza aggravante di cui all'articolo 61, comma 1, numero 7, c.p. ha fatto corretta applicazione dell'orientamento di questa Corte Suprema Sez. II, sentenza numero 12027 del 23 settembre - 23 dicembre 1997, CED Cass. 210457 Sez. V, sentenza numero 7193 del 13 gennaio - 27 febbraio 2006, CED Cass. 233633 , che il collegio condivide ed intende ribadire, secondo il quale, coerentemente con la predetta premessa “in tema di truffa contrattuale, l'ingiusto profitto con correlativo danno del soggetto passivo consiste essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto, indipendentemente dallo squilibrio oggettivo delle rispettive prestazioni ne consegue che la sussistenza o meno della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità deve essere valutata con esclusivo riguardo al valore economico del contratto in sé, al momento della sua stipulazione, e non con riguardo all'entità del danno risarcibile, che può differire rispetto al predetto valore, in ragione dell'incidenza di svariati fattori, concomitanti od anche successivi rispetto alla stipula”. Ed, in fatto, è il ricorrente a limitare l'odierna doglianza alla citazione di un non condivisibile non esaminando adeguatamente la struttura della c.d. truffa contrattuale precedente di merito, senza contestare la rilevante gravità del danno cagionato dalla parte civile ove si debba - come appena chiarito - fare riferimento all'uopo al valore del contratto stipulato pari nel caso di specie a 120.000 Euro . 2.2. Il secondo motivo è, in entrambe le sue articolazioni, generico e manifestamente infondato. 2.2.1. La Corte di appello f. 4 ha espressamente affermato di ritenere corretta la quantificazione del danno inteso nella sua globalità, e quindi anche con riguardo a quello morale , all'evidenza rifacendosi alle ampie e condivise argomentazioni della sentenza di primo grado, che riporta in premessa, ed a quelle della parte civile, pure in precedenza riportate dalla Corte di appello. 2.2.2. È d'altro canto pacifico che l'azione civile de qua, inizialmente intentata dinanzi al giudice civile, sia stata trasferita, come consentito, nella odierna sede penale, e non viceversa come previsto dalla richiamata disposizione di cui all'articolo 82, comma 2, c.p.p. . Invero, gli stessi ricorrenti a f. 8 del ricorso riportano un chiarissimo passo della ordinanza all'uopo emessa in data 13 luglio 2011 dal giudice civile assegnatario del procedimento scaturito dall'originario esercizio dell'azione civile in sede civile d'altro canto, anche nella conclusiva sentenza civile del 19 agosto 2012, allegata al ricorso, si legge inequivocabilmente che “il Tribunale di Lodi ai sensi dell'articolo 75 c.p.p., ha accertato la rinuncia agli atti del giudizio civile da parte della Z. ”, non valorizzando quindi il comportamento processuale dell'avv. BRIGIDA cui i ricorrenti hanno fatto insistito riferimento. Ciò rende la doglianza dei ricorrenti manifestamente infondata, ed al tempo stesso all'evidenza manifestamente infondata anche la questione di costituzionalità conclusivamente sollevata dai ricorrenti, perché gli articolo 74, 75 ed 82 c.p.p. non consentono la contemporanea prosecuzione della stessa azione civile in sede civile e penale, e nel caso di specie questa situazione non si è verificata. 2.3. Il terzo motivo è generico e manifestamente infondato. Il ricorso ripropone pedissequamente o quasi le censure dedotte come motivo di appello con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata senza prendere adeguatamente in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali il relativo motivo di appello non è stato accolto. Peraltro, nel caso di specie, la Corte di appello, con rilievi esaurienti, logici e non contraddittori, come tali incensurabili in questa sede, ha adeguatamente illustrato le ragioni poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità degli imputati in ordine alla truffa ascritta loro, valorizzando anche previo richiamo per relationem della sentenza di primo grado, come si è già premesso essere fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità le plurime dichiarazioni testimoniali e le risultanze documentali acquisite f. 1 ss. , dalle quali ha desunto la configurabilità degli elementi costitutivi della ritenuta truffa contrattuale sotto il profilo della materialità e dell'elemento psicologico, in relazione ai raggiri ed artifizi consistiti nell'aver dolosamente taciuto alla Z. - danneggiata per il sol fatto di essere addivenuta alla stipula di un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato - le effettive condizioni dell'immobile oggetto di compravendita inter partes , ed affermando conclusivamente che “i fatti storici sono sostanzialmente ammessi dallo stesso difensore e di nessun interesse oltre che non provato è che C.L. non vi avesse abitato, posto che per conoscere i difetti di un bene non è necessario il fatto di avervi effettivamente abitato”. 2.4. Il quarto motivo è generico e manifestamente infondato. Ancora una volta, il ricorso ripropone pedissequamente o quasi le censure dedotte come motivo di appello con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali il relativo motivo di appello non è stato accolto. Invero, la Corte di appello, con rilievi esaurienti, logici e non contraddittori, come tali incensurabili in questa sede, ha adeguatamente illustrato le ragioni poste a fondamento del diniego del beneficio della non menzione l'unico beneficio costituente oggetto di appello, come si evince dal riepilogo dei motivi di appello riportato a f. 2 della sentenza impugnata, la cui completezza non è stata contestata dai ricorrenti , valorizzando f. 5 in particolare “la mancanza di ravvedimento”, “l'insidiosità della condotta” e “l'intensità del dolo” quali elementi ostativi alla concessione del chiesto beneficio. 3. Il conclusivo rigetto, nel complesso, del ricorso comporta, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese patite dalla parte civile costituita, che si liquidano come da dispositivo, secondo i nuovi parametri introdotti dal d.m. 20 luglio 2012, numero 140. 3.1. Deve, in proposito, rilevarsi che, come chiarito dalla Corte Suprema di Cassazione Sez. unumero , sentenza numero 17405 del 2012 , in tema di spese processuali, agli effetti dell'articolo 41 del d.m. 20 luglio 2012, numero 140, il quale ha dato attuazione all'articolo 9, secondo comma, del d.l. 24 gennaio 2012, numero 1, convertito in legge 24 marzo 2012, numero 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di compenso la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata. È pur vero che, ai sensi dell'articolo 13, comma 10, della ancora successiva L. numero 247 del 2012, “Oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive”. Il citato comma 6 della medesima disposizione stabilisce che “i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”. Tuttavia, non risultando ancora emanato il decreto di cui al citato comma 6 dell'articolo 13 L. numero 247 del 2012, la disposizione di cui al comma 10 del medesimo articolo di legge deve ritenersi allo stato in concreto non operante. 3.2. Le spese sostenute dalla parte civile vanno, pertanto, liquidate come da dispositivo, con riguardo ai soli compensi, in difetto della documentazione di esborsi rimborsabili non è dovuto il rimborso di spese forfettarie o generali sono dovuti gli accessori di legge IVA e CPA . P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro duemila, più accessori come per legge.