Non è un precetto religioso il Corano, infatti, non prescrive d’indossare questi indumenti, semmai consiglia d’indossare un fazzoletto sul capo simile al velo indossato da alcune donne cristiane alla messa od in occasione degli incontri col Papa come simbolo di appartenenza ad una comunità religiosa. L’uso è stato introdotto da delle interpretazioni restrittive e letterali di qualche sura adottate da alcuni paesi. I fini di ordine e sicurezza pubblici, uguaglianza di genere e di convivenza legittimano la contestata legge francese e belga , escludendo così violazioni della Cedu libertà religiosa, di coscienza, di opinione e privacy .
È quanto emerge dalla complessa sentenza della Grand Chamber della CEDU sul caso S.a.s v. Francia ricomma 43835/11 emessa il 1° luglio 2014. Il caso. Una cittadina francese contestava il divieto d’indossare il velo integrale che copre, con una reticella, anche gli occhi il niqab è il velo nero che copre la testa, il volto, lasciando scoperti solo gli occhi da indossare con i guanti perché tutto il corpo deve essere coperto imposto dalla legge francese numero 1192/2010. Inizialmente assegnata alla sez. V, fu poi rinviata alla Grand Chamber . In questa fase è intervenuto in giudizio il governo belga che aveva approvato, il 1/6/11, un’analoga legge ed è stato consentito il deposito di memorie scritte da diverse ONG che operano nel campo della tutela dei diritti umani Amnesty etc. . Lamentava come ciò ledesse le sue libertà religiosa, d’espressione e la sua privacy articolo 3, 8-10 e 14 presi singolarmente od in combinato disposto tra loro . La CEDU ha escluso queste violazioni con un’opinione non sempre unanime. Il divieto in Francia. I lavori preliminari, gli studi dell’Assemblea nazionale del 2009 ed i successivi provvedimenti dimostrano come l’uso del burqa, prima quasi inesistente, si sia diffuso solo negli ultimi anni tra le giovani under 40, per lo più convertite all’Islam, confermando che l’uso di questi indumenti, come detto, non ha nulla a che fare con la religione, perché già presente prima dell’avvento dell’Islam, derivando « da una radicale affermazione degli individui in cerca di identità nella società e dall'azione dei movimenti fondamentalisti». Il rapporto evidenzia come nell’Est e nel Centro UE il problema non si ponga mentre in Svezia e Danimarca l’uso di questi capi è marginale, esprimendo preoccupazioni per le politiche troppo liberali dell’UK che potrebbero favorire «una tendenza settaria, soprattutto da parte di gruppi musulmani radicali e fondamentalisti». Infine indicava come questa pratica fosse una coercizione contro le donne ed un assoggettamento agli estremisti opinione condivisa da molte Onlus che hanno depositato proprie memorie in giudizio e perciò contraria ai valori della Repubblica uguaglianza, libertà, fraternità, perché impedivano anche la socializzazione, l’integrazione e soprattutto «violavano il principio francese della convivenza». Ciò è stato ribadito anche dal CdS che legittimava i limiti alle libertà per superiori fini di sicurezza e di ordine pubblico, sottesi a questa proibizione, anche se rilevava le difficoltà nell’attuarlo e la necessità di affrontare la parità di genere relativamente alla collettività anziché nei confronti di una singola persona. I successivi provvedimenti normativi concordano con tale tesi. Si registra la sola opinione negativa della Commissione nazionale consultiva sui diritti dell’uomo che lo vedeva come contrario ai principi di neutralità e di laicità dello Stato, tanto più che considerava il velo come una pratica religiosa. E nel resto d’Europa. Una legge specifica è presente solo in Belgio, mentre in Svizzera negli ultimi due anni i cantoni dell’Argovia e del Ticino hanno approvato referendum in tal senso. In generale le Corti costituzionali di Belgio, Spagna, Olanda etcomma concordano che tale preclusione e più in generale negare il consenso ad indossare passamontagna, caschi integrali ed abbigliamento che impedisca l’identificazione di una persona è legittima, perché le restrizioni trovano fondamento nella tutela dei citati supremi valori. Come esplica la Consulta belga «il legislatore ha cercato di difendere un modello sociale dove l'individuo ha assunto la precedenza sui legami filosofici, culturali o religiose, al fine di favorire l'integrazione per tutti». Ed in Italia? Non esiste un vero e proprio divieto visto che l’articolo 5 l. numero 152/1975 c.d. legge Reale - Mancino si riferisce solo a caschi od «altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento». Un disegno di legge, presentato nel 2008, fu approvato nel 2011 alla Cmera, ma poi si è arenato. Il Tribunale Penale di Torino nel 2012 ha dichiarato illegittimo negare ad una donna il velo integrale, «perché, secondo un’interpretazione diffusa, lo fa in ossequio della religione islamica», mostrando anche con la sua immagine esteriore la sua fede e la sua appartenenza religiosa. Il CdS nella decisione numero 3076/2008 chiarisce che « il nostro ordinamento consente che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario ». Convenzioni ONU e COE. Anche in questo caso si contrappongono tesi opposte, ma rilevano come la rivendicazione dell’esercizio della libertà religiosa, non esuli dal diritto di criticare chi la rivendica e come queste libertà siano assoggettabili a restrizioni per i motivi sopra indicati. In particolar modo l’Assemblea parlamentare ed il Commissario per la tutale dei diritti umani del COE evidenziano in due distinte Raccomandazioni del 2010 1743 e 1927 come questi divieti non ledano gli artt.3, 8-10 e 14, 5 protocolli addizionali 7 e 12 Cedu, né la libertà religiosa, bensì siano volti a tutelare le donne che, in caso contrario, possono essere assoggettate da fondamentalisti e da chi vuole negarne l’indipendenza e l’individualità in deroga alla parità di genere. Ciò è volto a contrastare l’islamismo e l’islamofobia in Ue. Il CDU del COE, pur esprimendo tesi contrastanti, alla fine giunge a conclusioni conformi a quanto sopra descritto . Nel suo commento generale numero 22, concernente l'articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici libertà di pensiero, di coscienza e di religione del 20/7/1993, ribadito dal numero 28 del 29/3/2000, il Comitato per i diritti umani ha sottolineato come la libertà religiosa si esprima anche tramite l’abbigliamento, ma, proprio perché è una libertà, le donne devono poter scegliere, indipendentemente da coercizioni di sorta, se indossare il burqa od il niqab, stante la legittimità del divieto nei casi sopra indicati. Esclusione dell’actio popularis per la tutela della libertà religiosa. È stato sollevato il dubbio che il ricorso fosse un’actio popularis contro la politica del governo, ma è stato escluso radicalmente così come le accuse di abuso di potere, perché sono previste sanzioni penali contro chi infrange questa legge. L’articolo 9 Cedu tutela «il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione indicando solo quelle opinioni che raggiungono un certo livello di cogenza, serietà, coesione e importanza» la garanzia è assicurata se la manifestazione del pensiero è riconducibile alla religione, id est ad atti di culto, di devozione od a credenze formalmente riconosciute come connesse alla religione, circostanze che dovranno essere vagliate nel loro complesso. Nella fattispecie la donna non aveva provato di essere musulmana, né di essere praticante, anzi aveva ammesso di non indossare il velo in pubblico, quando era al lavoro o voleva socializzare con gli altri, smentendo così di aver subito pregiudizi o maltrattamenti a causa della contestata norma. Inoltre la Corte evidenzia che nel nostro caso non sono invocabili l’obiezione di coscienza o le forme di protezione accordate agli omossessuali perseguitati in alcuni paesi Eweida e altri v. Regno Unito del 2013 e Dudgeon v. Regno Unito del 22/10/81 . È esclusa, quindi, la violazione dell’articolo 14 sia singolarmente che in combinato disposto con le altre citate norme Cedu. Inoltre la CEDU, considerando le origini della ricorrente pakistana , la logica paternalistica che impone alle donne di indossarli per non incorrere in gravi ripercussioni, per quanto sopra, ha escluso ogni trasgressione anche delle altre invocate disposizioni Cedu, confermando la legittima interferenza dello Stato «necessaria in una società democratica» per la loro stessa tutela Ahmet Arslan e altri v. Turchia del 23/2/10 . La CEDU, per avvalorare tale tesi, richiama anche i precedenti in cui l’esposizione della croce, simbolo della religione cristiana, era stata vietata in diversi luoghi pubblici come le scuole, le aule dei tribunali etcomma oppure era stato chiesto ad alcuni fedeli Sikh di togliersi il turbante per le foto dei documenti ufficiali carta d’identità, passaporto e similia El Morsli v. Francia del 4/3/08 e Mann Sing v.Francia del 11/6/07 . In questi casi, però, l’abbigliamento con connotazione chiaramente religiosa lasciava scoperto il viso, eppure è stata esclusa la violazione dell’articolo 9, confermata anche quando è assente la legge è volta ad impedire di celare il volto per la sicurezza pubblica in ossequio, quindi, all’imparzialità ed alla laicità dello Stato. Opinione dissenziente di alcuni giudici . Lamentano, pur riconoscendo la preminenza dei citati interessi supremi, l’illegittimità della proibizione perchè sono stati ignorati i valori di pluralismo e di tolleranza, né si è considerato che questo abbigliamento è la libera espressione di sentimenti religiosi e dell’identità sociale, culturale e religiosa di chi lo indossa. La donna non ha subito coercizioni per mettere il velo, che toglieva, per meglio socializzare con gli altri, anche in assenza del divieto.
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