La riammissione in servizio di un dipendente comunale, dopo la destituzione di diritto intervenuta a seguito della condanna penale, è concessa solo se all’esito del procedimento disciplinare effettuato, entro i termini di legge, dall’amministrazione competente non venga decisa la destituzione.
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza numero 2934/16, depositata il 16 febbraio. Il caso. Il ricorrente adisce la Cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova, che rigettava la domanda proposta dall’ex dipendente al Comune di Genova finalizzata ad ottenere la riassunzione in servizio e il pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno dell’arresto per un’imputazione penale, a cui è seguita la condanna passata in giudicato. La Corte territoriale osservava che, dopo la conclusione del processo penale, il Comune aveva licenziato il dipendente per giusta causa e tale provvedimento di licenziamento era stato ritenuto legittimo dal Consiglio di Stato. Motivo del ricorso è la violazione della normativa in materia di pubblico impiego, in particolare dell’articolo 10 l. 7 febbraio 1990 numero 19, che prevede la riammissione in servizio dell’impiegato condannato in sede penale nel caso in cui non fosse stata, in sede disciplinare, inflitta la destituzione. Procedimento disciplinare dell’amministrazione. Secondo il Collegio di legittimità il ricorso si dimostra infondato. Infatti, l’articolo 10, comma 3, l. numero 19/1990 afferma che la riammissione, dopo la destituzione di diritto intervenuta a seguito della condanna penale, è concessa solo se l’esito del procedimento disciplinare, che deve essere promosso dall’amministrazione entro 90 giorni dal ricevimento della domanda di riammissione e deve essere concluso entro i successivi 90 giorni, non determini la destituzione. Nel caso in esame, fa notare la Corte di Cassazione, l’espulsione è stata stabilita con un provvedimento emanato dal Comune doriano, che successivamente è stato dichiarato legittimo, con sentenza passata in giudicato, dal Consiglio di Stato. Quindi, non è più possibile per l’ex dipendente sindacare sulla legittimità della destituzione per chiedere la riammissione e il pagamento delle retribuzioni maturante durante il periodo della pena. Per questo motivo la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 dicembre 2015 – 16 febbraio 2016, numero 2934 Presidente/Relatore Roselli Svolgimento del processo Con sentenza del 10 gennaio 2012 la Corte d'appello di Genova confermava la decisione di primo grado con cui il Tribunale aveva rigettato la domanda proposta da R.B. contro il Comune ed intesa alla riassunzione in servizio ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del suo arresto per una imputazione penale, poi seguita da condanna passata in giudicato. La Corte osservava che, dopo la conclusione del procedimento penale, il Comune aveva licenziato il B. per giusta causa ed il provvedimento era stato ritenuto legittimo dal Consiglio di Stato con decisione passata in giudicato. Non esisteva alcuna norma che gli attribuisse il diritto alla riassunzione. In particolare, l'invocato articolo 10 1. 7 febbraio 1990 numero 19 prevedeva espressamente la riammissione in servizio solo se all'impiegato condannato in sede penale non fosse stata in sede disciplinare inflitta la destituzione, eventualità che non si era verificata nel caso di specie. La decisione del Consiglio di Stato, che aveva riconosciuto soltanto le spettanze di garanzia e di mantenimento , era passata in giudicato onde il giudice ordinario di primo grado esattamente aveva negato il diritto alle retribuzioni. Contro questa sentenza ricorre per cassazione il B. mentre il Comune di Genova resiste con controricorso. Motivi della decisione Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt.3, 35, 97 Cost., 12 preleggi e 10 1. numero 19 del 1990, osservando che, subita dal pubblico impiegato un'applicazione di pena exarticolo 444 cod. proc. penumero , la legge non vieta la riammissione in servizio dopo l'espiazione, ed anzi la tutela costituzionale dell'eguaglianza sostanziale, del lavoro e del buon andamento della pubblica amministrazione dovrebbero indurre a colmare la lacuna normativa nel senso favorevole al lavoratore. Il motivo non è fondato. Non esiste nel caso di specie alcuna lacuna normativa ma l'invocato articolo 10, comma 3, 1. numero 19 del 1990 stabilisce al contrario La riammissione dopo la destituzione di diritto è concessa solo se all'esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro novanta giorni dalla ricezione della domanda di riammissione da parte dell'amministrazione competente e che deve essere concluso entro i successivi novanta giorni, non venga inflitta la destituzione . Nel caso in esame l'espulsione è stata inflitta con provvedimento dichiarato legittimo dal Consiglio di Stato, la cui decisione è passata in giudicato, con la conseguente esattezza della sentenza qui impugnata. Col secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'articolo 2909 cod. civ. e difetto di motivazione. Egli trascrive un brano della sentenza del T.A.R. Liguria numero 455 del 1998, in cui si parla di difetto di congrua motivazione del provvedimento comunale di destituzione afferma la mancanza d'impugnazione di questa affermazione, posta a base della sentenza di accoglimento dell'impugnativa dello stesso provvedimento, e di conseguenza assume la violazione, da parte della sentenza qui impugnata, di quella che secondo lui è una cosa giudicata. Il motivo è inammissibile per inosservanza dell'articolo 366 numero 4 cod. proc. civ. e del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in esso espresso. Infatti per verificare la fondatezza della doglianza il ricorrente avrebbe dovuto trascrivere, nella parte che qui interessa, l'atto d'appello del Comune contro la sentenza del T.A.R., ciò che avrebbe permesso di identificare la parte di essa asseritamente non toccata dall'impugnazione. Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro cento/00, oltre ad euro quattromila per compenso professionale, più accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater, d.p.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.