Regime sanzionatorio più o meno favorevole al colpevole? Lo decide solo l’ordine professionale

Nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati, l’apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all’incolpato, rilevante ai fini della scelta della sanzione opportuna, ai sensi dell’art. 22 del Codice deontologico forense, è rimesso all’Ordine professionale, ed il controllo di legittimità sull’applicazione di tale norma non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi al Consiglio Nazionale Forense nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, che attiene non alla congruità della motivazione, ma all’individuazione del precetto e rileva quindi, ex art. 360, n. 3, c.p.c

E’ quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 13237 depositata il 28 maggio 2018. Il caso. Un’avvocatessa proponeva ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione avverso la sentenza del Consiglio Nazionale Forense con la quale era stata rigettata la sua impugnazione mentre, di contro, era stata accolta quella proposta dal Pubblico Ministero che aveva rideterminato la sanzione per l’illecito addebitatole nel senso peggiorativo con il conseguente aumento della relativa durata nella misura del doppio. In particolare, all’esito della trattazione davanti al CNF delle separate impugnazioni sia da parte dell’incolpata che del Pubblico Ministero ed aventi ad oggetto la decisione del competente Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, veniva pronunciata la sentenza impugnata, la quale per quanto interessa in sede di giudizio di Cassazione, confermava l’addebito ai danni della ricorrente con il rigetto di tutte le sue cesure. Gli Ermellini hanno ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso proposti dalla ricorrente sulla scorta dei quali la stessa aveva censurato la mancata applicazione nei suoi confronti del regime sanzionatorio più favorevole previsto dall’art. 41 del nuovo Codice deontologico, in quanto secondo il consolidato principio di diritto non è consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sull’assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale. Al contrario, proseguono i Giudici - le censure della ricorrente essendo state prospettate come violazione di legge e come vizi di sussunzione c.d. falsa applicazione della norma di diritto non possono in alcun modo essere passate al vaglio della Corte di legittimità. In altri termini, in presenza – come nel caso di specie - di una metanorma definitoria della durata minima e massima della sanzione da applicare cfr. art 22 Codice deontologico , il silenzio del Codice nell’indicare la durata minima implica solo un rinvio ad essa, che si spiega al contrario dell’espressa previsione di un massimo, in quanto nella lettera c del comma 1 dell’art. 22 cit. il massimo della sanzione della sospensione è di cinque anni e nella lettera b si fissa in misura minore, cioè un anno. Concludendo. I Giudici concludono affermando che i motivi di ricorso sono infondati in linea preliminare anche come violazione di legge sulla base del principio di diritto secondo cui l’art. 22, lett. b , Codice deontologico Forense, approvato dal Consiglio Nazionale Forense, ai sensi dell’art. 65, comma 5, primo inciso della l. n. 247/2012, si deve interpretare nel senso che la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione, da essa prevista per i casi più gravi di illeciti che di norma sono sanzionati con la censura, trova applicazione necessariamente nel minimo di 2 mesi, ancorché la norma non fissi espressamente una misura minima della sospensione.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 19 dicembre 2017 – 28 maggio 2018, numero 13237 Presidente Rordorf – Relatore Frasca Fatti di causa 1. L’Avvocato P.K. ha proposto ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 56, quarto comma, del r.d.l. numero 1568 del 1933, avverso la sentenza del Consiglio Nazionale Forense del 10 luglio 2017, con la quale - provvedendosi sulla sua impugnazione avverso la deliberazione del 15 dicembre 2014, con cui il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trento le aveva irrogato la sanzione della sospensione di mesi uno dall’esercizio della professione, nonché su quella proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento - è stata rigettata la sua impugnazione e, in accoglimento di quella proposta dal pubblico ministero, è stata rideterminata in mesi due di sospensione la sanzione per l’illecito addebitato. 2. La vicenda disciplinare ha tratto origine da una segnalazione fatta al C.O.A. di Trento da parte dell’Avvocato C.L.M. in data 17 settembre 2013. In essa quel legale esponeva che, avendolo nominato difensore di fiducia tale Co.Ma. , per assisterlo negli incombenti di cui all’art. 409 cod. proc. penumero , in relazione ad una opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento penale, innestato da una querela presentata per conto di M.L. dalla P. , quale difensore di fiducia del medesimo, egli, in vista dell’udienza camerale del 17 settembre 2013 dinanzi al GIP presso il Tribunale di Trento, aveva depositato istanza di differimento del procedimento, sottoscritta per adesione dalla qui ricorrente, nominando un sostituto per la comparizione in udienza ai soli fini di acquisire la notizia del differimento. In udienza, invece, era comparsa l’Avvocato P. ed aveva depositato un verbale di remissione di querela da parte del M. , accettata dal Co. , redatto presso la stazione dei carabinieri di OMISSIS . L’Avvocato C. , precisando che all’udienza la P. aveva rappresentato al suo sostituto che la remissione rappresentava una novità, mentre invece i carabinieri avevano riferito che era stata la P. a prendere l’iniziativa sfociata nella detta remissione, lamentava il comportamento deontologicamente scorretto della collega. 3. A seguito del procedimento disciplinare il COA incolpava la P. dell’illecito disciplinare consistito nelle violazioni di cui agli artt. 38 R.D.L. 1578/1933 e successive modifiche, 2-3 Legge 31.12.2012 numero 247, 22 e 27 del C.D.F. poiché nel rapportarsi con il collega C.L.M. , dopo aver concordato con lo stesso di richiedere il rinvio di un’udienza penale innanzi al Tribunale di Trento, si presentava a detta udienza depositando un atto di remissione di querela formalizzata dal suo cliente, con relativa accettazione firmata dal cliente dell’avv. C. , concordando tali atti direttamente con la parte assistita dal collega, al quale nulla ella preventivamente comunicava, così contravvenendo a quanto disposto dall’art. 22 non avendo mantenuto un comportamento ispirato a correttezza e lealtà e all’art. 27 per essersi messa in contatto diretto con la controparte che ella sapeva assistita da altro legale . Disposto il rinvio a giudizio, all’esito dell’istruzione il COA irrogava la sanzione della sospensione per mesi uno. All’esito della trattazione delle separate impugnazioni della decisione del COA davanti al CNF, da parte della P. e del pubblico ministero, veniva pronunciata la sentenza qui impugnata, la quale, per quanto ancora interessa in questa sede, dopo avere confermato l’addebito disattendendo le prime quattro censure proposte dalla P. , provvedendo sulla quinta e sul ricorso del pubblico ministero, entrambe afferenti alla determinazione della sanzione, ha così motivato Anche la quinta ed ultima censura proposta dall’incolpata, relativa alla congruità della sanzione applicata, non appare meritevole di accoglimento, essendo fondata, di contro, l’impugnazione autonoma proposta dal Procuratore della Repubblica di Trento. Ed invero, l’avv. P. ha domandato l’applicazione del regime sanzionatorio più favorevole previsto dall’art. 41 del nuovo Codice deontologico, con l’attenuazione della sanzione della sospensione dell’esercizio professionale per mesi uno in quella del richiamo verbale oppure dell’avvertimento o della censura. Il Procuratore della Repubblica di Trento, invece, con la ridetta impugnazione già depositata il 23/12/2014, premessa la correttezza della decisione, in fatto e in diritto, ha censurato la decisione limitatamente alla sanzione della sospensione applicata per una durata inferiore a quella minima fissata in mesi due dall’art. 40 del r.d.l. numero 1578/1933, chiedendone la rideterminazione in detta misura. Occorre premettere che l’art. 65, comma 5, della Legge numero 247/2012 prevede che le norme del nuovo Codice Deontologico, nelle more entrato in vigore, si applicano ai procedimenti disciplinari in corso se più favorevoli per l’incolpato cfr. Cass. Sez. Unite 16 febbraio 2015, numero 3023 . Nel caso di specie va osservato che fa violazione deontologica addebitata alla ricorrente è disciplinata nel nuovo CDF - dall’art. 19 Doveri di lealtà e correttezza con i colleghi e le Istituzioni forensi , inserito tra i principi generali, alla quale non corrisponde una specifica sanzione tra quelle contemplate dall’art. 22 - dall’art. 41 Rapporto con parte assistita da collega , che sanziona la violazione del dovere di contattare direttamente la controparte assistita da altro censura, prevedendo nell’ipotesi aggravata la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione fino a un anno. In base ai principi generali, in caso di successione normativa, la disposizione più favorevole va individuata in concreto, quindi avendo riguardo della concreta applicazione al caso di specie. Dunque, in considerazione del regime sanzionatorio meno favorevole previsto dall’art. 41 cdf nell’ipotesi aggravata, si continuerà a fare riferimento al codice deontologico vigente all’epoca di realizzazione dell’illecito disciplinare. Ciò premesso, valutati gli elementi tutti acquisiti al fascicolo del procedimento, considerato il comportamento complessivo dell’incolpata, la gravità del fatto, l’intensità della colpa, anche in riferimento al comportamento tenuto dalla incolpata, prima e dopo il fatto, in accoglimento della impugnazione del Procuratore della Repubblica, questo Consiglio ridetermina la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione in mesi due ”. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione di legge, in relazione all’art. 65 comma 5 della Legge numero 247/2012, per mancata applicazione della norma più favorevole all’incolpato . La prospettazione che vi viene svolta è nel senso che il CNF, pur dando atto dell’applicabilità alla vicenda giudicata, ai sensi della norma del citato comma 5, quarto inciso, dell’art. 65, del principio per cui le norme contenute nel nuovo codice deontologico emanate in forza del primo inciso dello stesso comma 5 ed entrato in vigore il 16 dicembre 2014, si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato , si sarebbe erroneamente rifiutato di farne in concreto applicazione. L’errore del CNF emergerebbe da quella che viene definita sintetica e criptica motivazione sul punto ed individuata nell’affermazione, fatta dal CNF nel senso che In base ai principi generali, in caso di successione normativa, la disposizione più favorevole va individuata in concreto, quindi avendo riguardo della concreta applicazione al caso di specie. Dunque, in considerazione del regime sanzionatorio meno favorevole previsto dall’art. 41 cdf nell’ipotesi aggravata, si continuerà a fare riferimento al codice deontologico vigente all’epoca di realizzazione dell’illecito disciplinare . Il preteso errore viene poi così argomentato a la norma del codice deontologico previgente, richiamata a suo tempo nell’incolpazione, cioè l’art. 27, troverebbe corrispondenza nell’art. 41 del nuovo Codice, che, sotto la rubrica Rapporti con la parte assistita da collega , prevede come sanzione la censura, onde, rispetto alla sanzione in concreto irrogata alla P. , sarebbe indubbio che sia più favorevole, come, del resto, sarebbe stato riconosciuto in un caso analogo da Cass., Sez. Unumero numero 18393 de 2016, la quale, a fronte della irrogazione della sospensione di due mesi all’incolpato, aveva rilevato l’illegittimità della sanzione osservando che il nuovo Codice prevedeva la sanzione della censura b il CNF avrebbe, dunque, dovuto irrogare la sanzione della censura c il riferimento fatto dal CNF, in sede di valutazione secondo il criterio della disposizione più favorevole, all’ipotesi di violazione aggravata, di cui all’art. 41 del nuovo Codice, che prevede per le ipotesi di violazione sanzionate con la pena base della censura, la sanzione della sospensione fino ad un anno, una volta considerato che la norma dell’art. 40 del r.d.l. 1578 del 1933, applicata dal COA, prevedeva che la sanzione della sospensione potesse irrogarsi per un tempo non inferiore ad un mese e non superiore ad un anno, avrebbe dovuto comportare la constatazione che il regime del nuovo Codice là dove prevede solo un massimo e non anche un minimo per la sanzione de qua e, dunque, avrebbe consentito la sospensione anche per un sol giorno - risultava più favorevole rispetto a quello previgente, comportante un minimo sanzionatorio di mesi due d peraltro, avuto riguardo agli aggravamenti previsti dal comma 2 dell’art. 22 del nuovo Codice, nella specie essi - sostiene la ricorrente - erano bilanciati dalle attenuanti previste dal successivo comma, che, nel caso specifico, in ragione dell’incensuratezza penale e disciplinare e della giovane età dell’incolpata, unita ad altri elementi come il breve arco temporale di consumazione dell’illecito idonei, secondo Cassazione Sez. Unite civili numero 9860 del 19.04.2017, a far presumere il recupero di una linearità di comportamento tale da legittimare il reinserimento dell’incolpato nell’ordinamento forense ragionevolmente dovrebbero porsi in un giudizio di bilanciamento quantomeno di equivalenza , onde pure sotto tale profilo il sistema sanzionatorio del nuovo Codice appariva più favorevole per la ricorrente. 1.1. Il motivo prospetta due distinte censure. La prima di esse concerne un errore che, nel comminare alla ricorrente la sanzione di due mesi di sospensione dall’esercizio della professione, il CNF avrebbe commesso non avvedendosi che il confronto fra la ricognizione in astratto della disciplina sanzionatoria applicabile all’illecito contestato secondo il regime del Codice deontologico vigente al momento della commissione e la ricognizione sempre in astratto di quella applicabile secondo il regime del nuovo Codice deontologico entrato in vigore il 16 ottobre 2014 ed emanato dallo stesso CNF ai sensi dell’art. 65, comma 5, primo inciso della l. numero 247 del 2012 , evidenziava che la seconda, in relazione alla fattispecie concreta dell’addebito contestato alla ricorrente, si palesava più favorevole. La seconda censura si coglie, invece, nella prospettazione riferita sopra sub d . 1.2. Il preteso errore oggetto della prima censura è individuato assumendo che, in relazione alla fattispecie concreta, che si riconosce apprezzata dal CNF come illecito aggravato, il CNF non avrebbe considerato che, mentre secondo il regime del vecchio Codice la sanzione della sospensione sarebbe stata applicabile comunque nel minimo di due mesi atteso che alla stregua dell’art. 40, numero 3 del r.d.l. numero 1578 del 1933 detta sanzione era prevista fra tale minimo ed il massimo di un anno , viceversa, secondo il regime del nuovo Codice, l’illecito addebitato alla ricorrente - sanzionato nell’ipotesi di mancanza della gravità dell’addebito con la censura in forza della previsione espressa dell’art. 41, comma 5, del Codice - sarebbe stato sanzionabile, in quanto considerato grave, ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. b , del Codice, cioè con la sanzione della sospensione determinata nel massimo fino ad un anno ed invece non determinata nel minimo in due mesi come nel vecchio Codice e, dunque, irrogabile pure in misura minore, cioè anche in un giorno. Questa possibilità - a dire della ricorrente, consentita dalla norma dell’art. 22, comma 2, lettera b - renderebbe la disciplina del nuovo Codice mitior rispetto a quella previgente. 1.3. La censura non è fondata. Essa, quand’anche fosse esatta l’esegesi dell’ora citata norma nel senso postulato dalla ricorrente, si profilerebbe del tutto inidonea a fondare la dedotta violazione dell’art. 65, comma 5, ultimo inciso intesa come violazione di legge. È sufficiente osservare che, se pure in forza di quella norma fosse vero che la sanzione della sospensione sarebbe stata irrogabile in misura minore di due mesi e financo in un giorno solo, come asserisce la ricorrente, la denunciata violazione di legge non sarebbe stata automaticamente configurabile sol per la scelta del CNF di non applicare il nuovo regime, cioè la nuova norma, ma sarebbe stata configurabile solo se fosse stato dedotto e dimostrato che in concreto il CNF avrebbe dovuto, nell’applicarla, irrogare la sanzione della sospensione graduandola in misura inferiore a due mesi. Infatti, secondo l’esegesi del nuovo regime sanzionatorio proposta dalla ricorrente, poiché il CFN avrebbe potuto applicare la sanzione della sospensione da un minimo di un giorno sino al massimo di un anno da essa indicato expressis verbis , la violazione della norma del citato art. 65, comma 5, ultimo inciso sul criterio della lex mitior non sarebbe stata denunciabile come vizio di violazione di legge, cioè di disconoscimento del fatto che l’illecito addebitato alla ricorrente secondo il nuovo Codice avrebbe potuto giustificare la sanzione della sospensione i qui termini, ma sarebbe stata denunciabile soltanto sotto il profilo del c.d. vizio di sussunzione, cioè adducendo e dimostrando che la sanzione in concreto applicabile alla ricorrente avrebbe dovuto essere comunque inferiore, in relazione al fatto, rispetto a quella irrogata, cioè minore di due mesi. Senonché, la deducibilità di un simile vizio di sussunzione si sarebbe scontrata con il consolidato principio di diritto secondo cui Nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati, l’apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all’incolpato, rilevante ai fini della scelta della sanzione opportuna, ai sensi dell’art. 22 del codice deontologico forense, è rimesso all’Ordine professionale, ed il controllo di legittimità sull’applicazione di tale norma non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, che attiene non alla congruità della motivazione, ma all’individuazione del precetto e rileva, quindi, ex art. 360, numero 3, c.p.c così, da ultimo, Cass. Sez. Unumero , numero 6967 del 2017 in senso sostanzialmente identico, si è precisato che Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 56 del r.d.l. numero 1578 del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito non è, quindi, consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sull’assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale così Cass., Sez. Unumero numero 24647 del 2016 . La prima censura, essendo stata prospettata come violazione di legge e non come vizio di sussunzione c.d. falsa applicazione della norma di diritto o almeno non essendolo stato con la dovuta indicazione dei relativi argomenti giustificativi, sarebbe, dunque, per ciò solo infondata. 1.4. Peraltro, ‘esegesi della norma dell’art. 22, comma 2, lett. b proposta dalla ricorrente è anche priva di fondamento e tanto rende la censura infondata a monte di quanto si è appena osservato. Infatti, il disposto della lettera b , quando prevede che nei casi più gravi, la sanzione disciplinare può essere aumentata, nel suo massimo fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale non superiore a un anno, nel caso sia prevista la sanzione della censura non si presta affatto ad essere inteso nel senso che non vi sia un limite minimo per la sospensione, questo al contrario dovendo invece individuarsi proprio nella misura di almeno due mesi. E ciò per due ragioni, entrambe emergenti dallo stesso disposto dell’art. 22. La prima ragione si individua nel disposto del comma 1 dell’art. 22, là dove, nel determinare la tipologia delle sanzioni disciplinari, il nuovo Codice definisce alla lettera c la sospensione come una sanzione che consiste nell’esclusione temporanea, da due mesi a cinque anni, dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura”. La seconda ragione si individua invece nello stesso comma 2 dell’art. 22, là dove il disposto della lettera a prevede che nei casi più gravi, la sanzione disciplinare può essere aumentata, nel suo massimo fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per due mesi, nel caso sia prevista la sanzione dell’avvertimento . 1.4.1. La prima disposizione, prevedendo quoad durata la sanzione della sospensione con un minimo sottende evidentemente che ontologicamente essa non è concepibile con una durata minore di due mesi, di modo che l‘esegesi della lettera b del comma 2 si impone nel senso che l’avere previsto il Codice solo il limite massimo della sospensione irrogabile nei casi più gravi di violazione sanzionabili di norma con la censura, implica necessariamente, per la contradizion che no’ l consente che il silenzio sulla durata minima significhi che essa non è stata indicata perché automaticamente desumibile dalla lettera c del comma 1. In altri termini, in presenza di una metanorma definitoria della durata minima e massima della sanzione della sospensione, il silenzio del Codice nell’indicare la durata minima implica solo un rinvio ad essa, che si spiega al contrario della espressa previsione di un massimo, in quanto nella lettera c del comma 1 il massimo della sanzione della sospensione è di cinque anni e nella lettera b si fissa in misura minore, cioè in un anno. 1.4.2. La seconda ragione su evocata, quella derivante dalla lettera a del comma 2, risulta di immediata percezione solo che si consideri che, se in tale lettera il Codice ha disposto che nei casi più gravi di illeciti sanzionabili con l’avvertimento possa applicarsi la sanzione della sospensione per due mesi e, dunque, in misura corrispondente al minimo in generale previsto per la durata della sanzione della sospensione, è del tutto contraddittorio ipotizzare che il silenzio sul minimo nella successiva lettera b , quando si dispone per i casi più gravi di illeciti sanzionabili con la sanzione più grave della censura, si sia inteso consentire l’irrogazione della maggiore sanzione della sospensione per un periodo inferiore ai due mesi fissati indefettibilmente nella lettera a in relazione a violazioni in linea normale meno gravi nonostante il loro carattere aggravato rispetto alla normale sanzionabilità cin l’avvertimento. Il motivo è, dunque, infondato in linea preliminare anche come violazione di legge sulla base del principio di diritto secondo cui l’art. 22, comma 2, lettera b del Codice deontologico Forense approvato dal Consiglio Nazionale Forense, ai sensi dell’art. 65, comma 5, primo inciso della I. numero 247 del 2012, si deve interpretare nel senso che la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione, da essa prevista per i casi più gravi di illeciti che di norma sono sanzionati con la censura, trova applicazione necessariamente nel minimo di due mesi, ancorché la norma non fissi espressamente una misura minima della sospensione . 1.5. Peraltro, va rilevato in aggiunta a quanto esposto che la prospettazione del primo motivo in esame risulta anche incongrua, in quanto, come è detto espressamente nella illustrazione in più punti a pagina 8 e nel decimo rigo della pagina 9 del ricorso , viene singolarmente svolta con esclusivo riferimento alla contestazione dell’illecito disciplinare di cui all’art. 27 del vecchio Codice e no anche considerando che era pure contestato l’illecito di cui all’art. 22, che, a differenza di quello dell’art. 27, non trova corrispondenza nell’art. 41 del nuovo Codice, ma nell’art. 19, siccome registra la decisione impugnata nella sua penultima pagina. 1.6. Raggiunta comunque la conclusione che l’art. 22, comma 2, del nuovo Codice non rappresentava lex mitior rispetto alla normativa del Codice previgente e, in aggiunta, considerato quanto appena osservato, la seconda censura proposta dal motivo è priva di fondamento in via automatica. Là dove postula che vi sarebbe stata dinanzi al CNF una situazione nella quale, a fronte della situazione di aggravamento prevista dal comma 2, vi sarebbe stata quella supposta dal comma 3 evocato implicitamente per i casi meno gravi e si sarebbe dovuto procedere ad una valutazione comparativa, suppone che il comma 2 dell’art. 22 potesse venire in rilievo ma si è veduto che ciò non è. Tanto si osserva non senza che debba rilevarsi aa l’intrinseca contraddittorietà della censura per il fatto che non si può dare la ricorrenza contemporanea di entrambe le ipotesi, in quanto la valutazione dell’illecito può condurre o a ritenere l’ipotesi del comma 2 o a ritenere quella del comma 3 bb l’assoluta genericità ed assertorietà della prospettazione che ricorresse una situazione di minore gravità impositiva di bilanciamento cc la carenza in conseguenza di una situazione in cui, alla stregua della giurisprudenza richiamata sopra, questa Corte possa ingerirsi sull’adeguatezza della sanzione irrogata. 2. Con il secondo motivo è dedotta violazione di legge, in relazione all’art. 111 comma 6 Costituzione e di conseguenza all’art. 3 L. 241/1990 e all’art. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. , per assenza, o comunque carenza o apparenza della motivazione . Il motivo si duole che la sentenza impugnata sarebbe carente di motivazione in ordine alla scelta di applicare il Codice deontologico previgente. Prospetta, dunque, che nella decisione impugnata non si colga una motivazione sulla questione che ha ampiamente illustrato con il primo motivo criticando una motivazione che invece la stessa ricorrente ha ritenuto di ravvisare. 2.1. Il motivo risulta privo di fondamento, senza che occorra spiegare perché non ricorrano gli estremi del vizio di violazione dell’art. 132 numero 4 cod. proc. civ. come requisito di contenuto-forma della sentenza, giacché la presenza di tale requisito nella decisione impugnata è stata ammessa dalla stessa ricorrente con quanto ha illustrato con il primo motivo. 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge, in relazione all’art. 111 comma 6 Costituzione e di conseguenza all’art. 3 L. 241/1990 e all’art. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. per assenza, o comunque carenza o apparenza della motivazione in ordine alla configurabilità dell’ipotesi aggravata della violazione . 3.1. Il motivo è privo di fondamento, perché suppone che la decisione impugnata abbia proceduto all’individuazione della sanzione applicando il nuovo Codice e ritenendo che ricorresse l’ipotesi di cui all’art. 22, comma 2, lettera b di esso, mentre - accogliendo l’impugnazione del pubblico ministero che aveva evidenziato, sull’assunto che dovesse trovare applicazione il vecchio Codice, che nel regime di esso la sanzione minima era quella fissata dall’art. 40 del r.d numero 1578 del 1933 - ha fatto applicazione, come del resto è prospettato dalla stessa ricorrente nel primo motivo, di quel regime e non del nuovo. Il motivo, dunque, è privo di fondamento perché basato su un presupposto inesistente. D’altro canto, va tenuto conto che la stessa ricorrente nell’esposizione del fatto ha riferito che con il suo quinto motivo essa si era doluta di eccessività della sanzione comminata e mancata applicazione della norma più favorevole all’incolpata nel frattempo sopravvenuta e tale prospettazione supponeva, come emerge da quanto la sentenza impugnata riferisce nella terza proposizione della penultima pagina ed confermato dall’illustrazione del primo motivo, che trovasse applicazione il regime dell’art. 41 del nuovo Codice, che disciplina solo l’ipotesi del rapporto con parte assistita da collega ed in relazione ad essa stabilisce la sanzione della censura nel comma 5. Senonché, la ricorrente era stata sanzionata, secondo il Codice anteriore, sia della violazione dell’art. 27, corrispondente ora a quella dell’art. 41 del nuovo Codice, sia di quella dell’art. 22 che al primo comma prevedeva in generale che l’avvocato deve mantenere sempre nei confronti dei colleghi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà . Gli illeciti contestati erano dunque due e il CNF li ha entrambi ritenuti esistenti nella sua ampia motivazione disattendendo i primi quattro motivi proposti dalla ricorrente e rilevando sostanzialmente che nel nuovo Codice la norma corrispondente a quella dell’art. 22 del vecchio è l’art. 19 . Ne segue che essendosi in presenza di due illeciti, quello dell’art. 22 e quello dell’art. 27 del vecchio Codice ed essendo stata applicata dal COA erroneamente la sanzione della sospensione in misura inferiore al minimo edittale, l’assenza di una particolare attività assertiva della gravità della contestazione idonea a giustificare una sanzione inferiore a quella della sospensione in applicazione dell’art. 40 del r.d.l. numero 1578 del 1933 si spiega non solo con la circostanza che al CNF era stata prospettata la questione dell’applicabilità del nuovo regime, ma soprattutto con il fatto che le violazioni contestate erano due. In effetti, il sol fatto del cumulo fra i due illeciti, a maggior ragione tenendo conto dell’ampia motivazione con cui il CNF ha ritento esistente la pluralità di condotte oggetto della contestazione, sia sotto il profilo dell’art. 27 a partire dalla prima proposizione della pagina 7 sia sotto il profilo - evidentemente riconducibile all’art. 22 vecchio Codice - della violazione dei doveri di lealtà e di colleganza, che ha detto ripetutamente violati si vedano le ultime sei righe della pagina 7 e le prime due della pagina successiva , implica necessariamente un apprezzamento - si direbbe necessitato - di gravità degli addebiti, sì da giustificare, sebbene implicitamente, che non si sia fatto ricorso alla sanzione della censura. 4. Il ricorso è conclusivamente rigettato. Non è luogo a provvedere sulle spese. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. numero 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. numero 228 del 2012, si deve invece dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. numero 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. numero 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.