Furto presso lo studio legale: può considerarsi privata dimora?

Ai fini del delitto di cui all’articolo 624-bis c.p., lo studio legale si considera privata dimora qualora presso di esso il titolare svolga non solo attività lavorativa, ma anche “di vita e dimora privata”.

Così si pronuncia la Corte di Cassazione con la sentenza numero 24438/19, depositata il 31 maggio. Il caso. La Corte d’Appello di Bari confermava il provvedimento di condanna emanato in primo grado nei confronti dell’imputato, per il delitto di furto commesso durante le ore notturne presso uno studio legale. Avverso tale decisione, propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando l’omessa spiegazione da parte dei Giudici delle ragioni per cui lo studio legale potesse considerarsi luogo di privata dimora. La privata dimora. Gli Ermellini dichiarano il ricorso infondato, richiamando una pronuncia delle Sezioni Unite S.U., numero 31345/2017 secondo la quale, ai fini della configurabilità del reato ex articolo 624-bis c.p., «rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico, né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale». Le stesse Sezioni Unite hanno precisato che la disciplina oggetto della norma citata può ben essere estesa ai luoghi di lavoro, qualora ricorrano le caratteristiche proprie dell’abitazione, potendo, dunque, costituire anch’essi luoghi di privata dimora in base ad una valutazione che va condotta caso per caso. Nel caso di specie, osserva la Corte, ricorrono i presupposti in vista dello “ius excludendi alios”, ovvero l’accesso non indiscriminato al pubblico e la presenza costante in via potenziale delle persone interessate, anche in orario notturno, essendo il proprietario libero di accedervi in ogni momento. Costituendo, dunque, nel caso concreto, lo studio legale un luogo di privata dimora, in vista del delitto di cui all’articolo 624-bis c.p., la Suprema Corte respinge il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 6 febbraio – 31 maggio 2019, numero 24438 Presidente Zaza – Relatore De Gregorio Ritenuto in fatto Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Bari ha confermato la pronunzia di condanna in primo grado alla pena di giustizia nei confronti dell’imputato, per il delitto di cui all’articolo 624 bis c.p. Epoca del fatto, omissis . 1.Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore che ha dedotto la violazione dell’articolo 624 bis c.p. e la manifesta illogicità della motivazione, avendo omesso i Giudici del merito la spiegazione delle ragioni per cui lo studio legale potesse essere luogo di privata dimora. 1.1 Il secondo motivo ha dedotto il vizio di motivazione per la mancata considerazione dei motivi di appello. 1.2 Tramite il terzo motivo è stata censurata la mancata concessione delle attenuanti generiche. All’odierna udienza il PG, dr Di Leo, ha concluso per l’inammissibilità. Considerato in diritto Il ricorso è infondato. 1.La doglianza espressa nel primo motivo non è condivisibile, pur se occorre sottolineare come la motivazione adottata dalla Corte territoriale circa la qualifica dello studio legale come luogo di privata dimora nelle ore di pausa dell’attività professionale non è perfettamente coerente con la più recente elaborazione interpretativa di questa Corte, secondo la quale anche i luoghi destinati allo svolgimento di attività lavorativa e/o professionale sono qualificabili, nel ricorrere di determinati presupposti di fatto, come luoghi di privata dimora ai sensi della norma incriminatrice in parola. 1.1 In proposito la pronunzia delle Sezioni Unite D’Amico numero 31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, Rv. 270076 ha chiarito che ai fini della configurabilità del reato previsto dall’articolo 624 bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico, nè accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale. Si è, così, precisato che l’interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale in tema di privata dimora, nonché dalla sentenza delle Sezioni Unite, numero 26795 del 28/03/2006, Prisco, consente di delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili elementi a utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata - come riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere - in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne b durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità c non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare . 1.2 Quanto ai luoghi ove si svolge l’attività lavorativa è stato specificato che i luoghi di lavoro sono, generalmente, accessibili ad una pluralità di soggetti, anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto e ad essi è, quindi, estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per definizione alla intrusione altrui . Ferma tale affermazione di principio, le Sezioni Unite hanno comunque precisato che la disciplina dettata dall’articolo 624 bis c.p. può essere estesa ai luoghi di lavoro nei casi in cui essi presentino le caratteristiche proprie dell’abitazione. Non può, dunque, revocarsi in dubbio la possibilità che la privata dimora possa essere costituita anche dal luogo ove solitamente si svolge attività lavorativa, a condizione che in esso la persona esplichi, altresì, attività di vita e dimora privata e ricorrendo gli altri requisiti indicati sub 1.1 alle lettere b e c . 1.3 Alla luce del suindicato principio la giurisprudenza di questa Corte ha modulato le sue linee interpretative rispetto ai casi concreti, nei quali va accertato, di volta in volta, se il luogo in cui il soggetto svolge la propria attività costituisca, o meno, privata dimora. Si tratta di un accertamento rimesso, naturalmente, al giudice di merito, il quale, sulla base degli elementi raccolti, dovrà valutare se nel luogo in cui è stata posta in essere l’azione furtiva, in sostanza destinato ad attività lavorativa in modo tendenzialmente stabile, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e potendo precludere l’accesso a terzi, con la conseguente riconducibilità dello stesso nella categoria dei luoghi di privata dimora. 1.4 A ben vedere, quindi, il principio enucleato dalle Sezioni Unite non trova applicazione indiscriminata in ordine a tutti i luoghi di lavoro, essendo, invece, necessario condurre, caso per caso, una valutazione di fatto un’indagine volta ad accertare la sussistenza contestuale di tutte le caratteristiche, richiamate dalle predette Sezioni Unite, proprie della privata dimora. 2. I suindicati criteri sono stati posti a fondamento della pronunzia di questa Corte, che ha ritenuto corretta la qualificazione ex articolo 624-bis c.p. del furto commesso di notte all’interno di uno studio legale - come nel caso in esame - ricorrendo i presupposti dello ius excludendi alios , dell’accesso non indiscriminato del pubblico e della presenza potenzialmente costante di persone che con esso hanno una relazione qualificata, anche eventualmente in orario notturno, essendo il titolare libero di accedervi in qualunque momento della giornata. Sez. 5, Sentenza numero 34475 del 21/06/2018 Ud. dep. 20/07/2018 Rv. 273633. 2.1 Nel caso di specie, pertanto, il tentativo di furto perpetrato ai danni di uno studio legale è stato correttamente qualificato ai sensi dell’articolo 624 bis c.p., pur se la precisazione secondo la quale la predetta qualificazione è stata fatta in funzione delle possibili ore di pausa dall’attività lavorativa appare, alla luce del sistema di principi innanzi ricordato, al contrario, ininfluente ed in una certa misura fuorviante. 3. Il secondo motivo di ricorso ha lamentato in modo del tutto generico la mancata risposta ai motivi di appello, senza precisarne i contenuti e senza specificare le ragioni per cui l’ipotizzata omessa considerazione e confutazione dei motivi di gravame avrebbe avuto un riflesso determinante nella pronunzia confermativa della prima sentenza. 4.La censura circa il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, di cui al terzo motivo, è inammissibile non avendo relazione col provvedimento impugnato, che ha legittimamente giustificato la decisione tramite la constatazione dei plurimi e specifici precedenti penali a carico del giudicabile. Alla luce dei principi e delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.