L’impugnazione può sempre essere avanzata dal PM che ha rassegnato le conclusioni in udienza

L’art. 570 c.p.p. definisce la legittimazione ad impugnare dei vari organi del Pubblico Ministero a prescindere dai comportamenti processuali dei vari uffici legittimati .

La Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere sull’ammissibilità dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero che ha rassegnato le conclusioni in udienza, anche quando queste siano state conformi alle richieste delle difesa e siano state accolte dal giudice. Sul punto la Suprema corte ha ribadito il proprio e consolidato indirizzo secondo cui l’art. 570 c.p.p. definisce la legittimazione ad impugnare dei vari organi del Pubblico Ministero a prescindere dai comportamenti processuali dei vari uffici legittimati , convalidando così il ricorso proposto. Benché si tratti di una valutazione, come accennato, non nuova, non pare inutile considerare il quadro sistematico, peraltro affrontato direttamente nella decisione de qua , poiché il tutto si inserisce nell’alveo del concetto di interesse ad impugnare tipico dell’accusa penale. Il caso. Nella specie è accaduto che il magistrato d’udienza avesse concluso per l’intervenuta prescrizione del reato di falso ideologico ex art. 479 c.p. in quanto si era ritenuto, insieme alla difesa ed al tribunale collegiale, non sussistente l’aggravante di cui all’art. 476 comma 2 c.p. atteso che si era erroneamente valutata la falsa dichiarazione del curatore fallimentare, sulla intervenuta pubblicizzazione della vendita dei beni della società in decozione, come non rientrante tra le dichiarazioni con le quali il pubblico ufficiale attesta quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza. Accortosi dell’errore”, poi emendato dalla Suprema corte, il pubblico ministero ha così proposto ricorso per saltum alla Cassazione, chiedendo, tra l’altro, l’annullamento della sentenza nella parte de qua per un nuovo giudizio di merito. La difesa ha evidentemente eccepito la contraddittorietà del comportamento processuale dell’accusa, palesando la sua carenza di interesse ad agire. La Corte, come indicato, sul punto ha invece valutato come infondata l’eccezione dell’imputato, facendo leva sul dato testuale dell’art. 570 c.p.p. e sul quadro sistematico di riferimento così come risultante dagli interventi delle Sezioni unite e della Corte costituzionale. Le conclusioni del PM non precludono la sua legittimazione. Si è così ribadito, richiamando la sentenza n. 3/1997 delle Sezioni Unite Penali, come nel caso del pubblico ministero requirente”, le sue conclusioni non siano preclusive della sua legittimazione, poiché quali che esse siano, non pregiudicano l'interesse del pubblico ministero ad impugnare il provvedimento . Del resto, la stessa Corte Costituzionale vedi sentenza n. 280/1995, con la quale si è salvato” l’istituto dell’appello incidentale del PM , ha osservato che il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all'obbligo di esercitare l'azione penale come se di tale obbligo esso fosse - nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione necessaria ed ineludibile . Se, dunque, vi è certamente una connessione ma non una necessaria dipendenza giuridica tra doverosità dell’azione penale e potere di impugnazione, si deve concludere che non si può sic et simpliciter ritenere che vi sia una contraddittorietà nell’atteggiamento del PM allorché impugni una sentenza di merito che abbia accolto le sue conclusioni, proprio perché, nel nostro ordinamento, con l’azione penale si chiede al giudice semplicemente di vagliare la responsabilità penale dell’accusato, ma non anche di accogliere una richiesta specifica contra reum . Solo se il quadro sistematico fosse diverso, si potrebbe aprire una diversa prospettiva, sempre che vi sia conformità tra il chiesto ed il pronunciato. Ma ciò e per fortuna, specie nell’ambito del giudizio di primo grado, è da escludere proprio in considerazione della particolare conformazione dell’ufficio del pubblico ministero, che lascia all’organo presente in udienza la massima libertà nelle sue determinazioni sull’esito della res iudicanda , autorizzandolo così anche a chiedere provvedimenti favorevoli o conformi alla tesi difensiva. Se, dunque, è esatto che nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza - a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti - ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un'utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo Cass. n. 6624/2011 , è pur vero che si dovrà di volta in volta considerare la natura del provvedimento impugnato ed il potere di iniziativa spettante ab origine all’accusa. Ciò spiega, allora, perché la legittimazione, che spetta e rimane al pubblico ministero requirente di impugnare anche il provvedimento emesso in modo conforme alle sue conclusioni - provvedimento che è pur sempre una risposta giurisdizionale in ordine all'esercizio dell'azione penale - non sussiste nei confronti del pubblico ministero richiedente o istante, come nell'ipotesi in cui egli promuove incidente di esecuzione chiedendo la revoca di una sentenza di condanna Cass. n. 3/1997 . In tal caso è certamente vero che egli agisce come promotore di giustizia nell'interesse della corretta osservanza della legge e per una finalità di tutela che è esattamente opposta all'esercizio dell'azione penale, ma tale considerazione non è assorbente. Fondamentale è, infatti, la considerazione per cui si porrebbe in manifesta contraddizione proprio con quello scopo di vigilare non solo sull'osservanza delle leggi ma sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia il riconoscimento al pubblico ministero del potere di impugnare tutte le volte in cui, dopo aver promosso un procedimento al fine di una corretta applicazione della legge ed ottenuto un provvedimento di ripristino di quella legalità costituente ragione dell'iniziativa stessa, venisse poi a dolersi della situazione derivatane. In tal caso, si vedrebbe compromesso proprio quell'interesse inerente ad una certa, ordinata e sollecita amministrazione della giustizia, di cui è portatore il pubblico ministero così sempre Cass. n. 3/1997 . Concludendo . Da quanto sopra riferito, quindi, risulta che la decisione in commento è da condividere ed apprezzare, poiché non si è limitata ad enunciare meccanicamente un obiter dictum , ma ha rinnovato, nel contesto sistematico vigente, le esigenze sottese all’impugnazione del pubblico ministero d’udienza. D’altra parte, come accennato, il prezzo che dovrebbe pagarsi per escludere la legittimazione ad agire del PM d’udienza ai fini del gravame, qualora siano state accolte le sue conclusioni, sarebbe quella di ridurlo a mero soggetto esecutivo dell’azione accusatorie e, fuor di metafora, a rendere unilaterali id est sempre contra reum le sue attività, decisioni e conclusioni, il che è da escludere che rappresenti una effettiva conquista di civiltà giuridica. Del resto, tutti possono sbagliare e non pare davvero di per sé assurdo che chi si accorga di aver errato nelle sue conclusioni di merito non cerchi di emendare all’errore, chiedendo un intervento giurisdizionale sul punto. Ciò vale per l’accusa quanto per la difesa. In fondo, anche il pubblico ministero d’udienza è sempre e solo un uomo.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 febbraio - 25 settembre 2013, n. 39814 Presidente Marasca – Relatore Micheli Ritenuto in fatto 1. In data 25/01/2012, il Tribunale di Pesaro in composizione collegiale dichiarava non doversi procedere nei confronti di D.R. in relazione a un addebito mossogli ex artt. 61 n. 2, 81 cpv. e 479 cod. pen., rilevando l'intervenuta prescrizione del reato, in ipotesi commesso fino al maggio 2003 in particolare, osservavano i giudicanti che nel caso in esame non poteva dirsi ravvisabile l'aggravante prevista dall'art. 476, comma 2, cod. pen., pur ritualmente contestata dal Pubblico Ministero. I fatti si riferivano a condotte che il D. si assumeva avesse realizzato nella veste di curatore del fallimento della CIEM S.r.l., peraltro al fine di commettere l'ulteriore reato di cui all'art. 228 legge fall., per cui era già stato precedentemente giudicato il 15 maggio 2002, egli aveva attestato in una relazione diretta al Giudice delegato di avere pubblicizzato la vendita dei beni della CIEM a mezzo di un'inserzione su un settimanale specializzato, così inducendo in errore lo stesso Tribunale, che di lì a poco autorizzava la vendita de qua il 30 maggio 2003 aveva invece riferito agli stessi organi della procedura concorsuale che la società acquirente dei beni in questione ne aveva saldato il prezzo allegando una copia del relativo libretto di deposito bancario, in cui la data del pagamento era però stata alterata, da quella reale dello stesso 30 maggio a quella del 30 aprile, giorno entro il quale il versamento avrebbe dovuto effettivamente intervenire . Ad avviso del Tribunale, gli atti descritti nel capo di imputazione non potevano intendersi di fede privilegiata, requisito secondo cui è necessario che l'atto sia fornito di una potestà documentatrice in forza della quale [ ] assume una presunzione di verità assoluta, ossia di certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso” per essere fidefaciente, sempre secondo i giudici pesaresi, un atto dovrebbe essere redatto nell'esercizio di una speciale funzione certificatrice, in relazione a fatti che il funzionario riferisce come visti, uditi e compiuti da lui direttamente”. 2. Il Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale di Pesaro ricorre avverso la sentenza indicata in epigrafe, sviluppando due motivi. 2.1 Con il primo, il P.M. lamenta violazione degli artt. 33 bis e 33 ter cod. proc. pen., segnalando che la difesa aveva preliminarmente eccepito l'incompetenza del Tribunale collegiale, senza che poi i giudici avessero esaminato l'eccezione medesima, al cui accoglimento lo stesso P.M. non si era opposto. 2.2 Con il secondo, si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 476, comma 2, cod. pen. in punto di nozione di atto munito di fede privilegiata. Il Pubblico Ministero, che rileva peraltro come il Tribunale abbia affrontato il tema senza neppure prendere visione degli atti su cui l'eccezione era stata fondata, rappresenta che nella sentenza impugnata viene affermato apoditticamente che agli atti in rubrica non spetterebbe l'attributo della fidefacienza, pur offrendosi dagli stessi giudici una lettura della norma che dovrebbe indurre a conclusioni opposte ribadito in particolare che l'atto pubblico fidefaciente è descritto nell'art. 2700 cod. civ., il quale prescrive che detto documento deve attestare che il pubblico ufficiale ha personalmente compiuto un determinato atto, ovvero che in sua presenza sono avvenuti determinati fatti”, il ricorrente argomenta che negli atti di cui al capo d'imputazione il D. avrebbe attestato falsamente fatti asseritamente dallo stesso compiuti, ossia l'avere proceduto a pubblicizzare la vendita dei beni della società fallita atto che rientra necessariamente nelle attività del curatore fallimentare , e dallo stesso osservati de visu, ossia che la società acquirente dei beni di cui sopra aveva regolarmente saldato il pagamento del prezzo nel rispetto del termine”. 3. In data 28/01/2013, il difensore dell'imputato ha depositato memoria, con la quale deduce - l'inammissibilità dell'impugnazione presentata dal P.M., atteso che il ricorso reca la firma dello stesso magistrato che, nell'udienza tenutasi dinanzi al Tribunale di Pesaro, risulta avere concluso per la declaratoria di prescrizione poi effettivamente pronunciata dal collegio - l'infondatezza ed inammissibilità del primo motivo di ricorso, non essendo il Pubblico Ministero titolato a potersi dolere del mancato accoglimento dell'eccezione di incompetenza, in ipotesi fondata su un motivo di nullità cui era stato lo stesso P.M. a dare causa in ogni caso, secondo la difesa, la contestuale sussistenza di una causa di estinzione del reato e di una nullità processuale anche assoluta ed insanabile determina la prevalenza della prima” - l'infondatezza del secondo motivo di ricorso, sia perché il mancato esame dei documenti necessari da parte del Tribunale deriverebbe ancora una volta da omissioni del P.M. nella attività di formazione del fascicolo per il dibattimento, sia per la corretta applicazione della norma sostanziale operata nella sentenza impugnata. Il difensore dell'imputato evidenzia in primis che gli atti contestati in rubrica non possono intendersi relazioni ex art. 33 legge fall., ma pure in caso di diversa lettura - richiamando precedenti di legittimità - fa presente che l'efficacia probatoria della relazione redatta dal curatore fallimentare va diversamente valutata a seconda della natura delle risultanze da essa emergenti, facendo piena prova fino a querela di falso, in quanto formata da pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, soltanto degli atti e dei fatti che egli attesti avvenuti in sua presenza” - che nel caso di specie sarebbero ravvisabili altri profili di nullità, non esaminati dal Tribunale per la preliminare pronuncia di non doversi procedere, afferenti l'invito a rendere interrogatorio, l'interrogatorio medesimo e il decreto di giudizio immediato. Considerato in diritto 1. Il ricorso merita parziale accoglimento. 2. La circostanza che l'atto di impugnazione risulti sottoscritto dallo stesso magistrato che rassegnò le conclusioni in udienza secondo la tesi difensiva, instando per la declaratoria di prescrizione dei reati de quibus non comporta innanzi tutto alcuna inammissibilità del ricorso, come deduce la difesa dell'imputato. Premesso che il verbale di udienza attesta le conclusioni del P.M. ricordate dalla difesa, mentre nella motivazione della sentenza impugnata si segnala che lo stesso P.M. si era opposto alla dichiarazione della causa estintiva , la tesi sostenuta nella memoria difensiva non può condividersi. Già le Sezioni Unite di questa Corte, pur distinguendo le ipotesi di esercizio dell'azione penale rispetto a quelle di promuovimento di un incidente di esecuzione, hanno da tempo affermato che l'art. 570 del codice di rito definisce la legittimazione dei vari organi del Pubblico Ministero, a prescindere dai comportamenti processuali dei vari uffici legittimati, giungendo ad attribuire al Procuratore generale presso la Corte di appello il potere di impugnazione a prescindere dal comportamento dell'ufficio del P.M. presso il giudice che ha emesso il provvedimento [ ]. La suddetta norma [ ], diretta all'organizzazione della legittimazione ad esercitare il potere di impugnazione tra i vari uffici del Pubblico Ministero, non investe, ma anzi presuppone il momento della necessarietà in capo al Pubblico Ministero dell'interesse ad impugnare art. 568, comma 4 . Ed il suddetto interesse - come è stato affermato Corte Cost., n. 280 del 1995 - attiene alla scelta da adottare dopo l'avvenuta piena conoscenza del provvedimento e nella complessiva valutazione del risultato conseguito, a prescindere di quali che siano state le conclusioni del P.M. in udienza art. 570, comma 1 sicché è legittimato a proporre impugnazione anche il rappresentante del Pubblico Ministero che ha presentato le conclusioni art. 570, comma 2 . Conclusioni che non sono preclusive della legittimazione e, quali che siano, non pregiudicano l'interesse del Pubblico Ministero ad impugnare il provvedimento” Cass., Sez. U, n. 3 del 28/05/1997, Gasparini . Nella motivazione di quella stessa pronuncia si precisa poi che la legittimazione che spetta e rimane al Pubblico Ministero requirente di impugnare anche il provvedimento emesso in modo conforme alle sue conclusioni - provvedimento che è pur sempre una risposta giurisdizionale in ordine all'esercizio dell'azione penale - non sussiste nei confronti del Pubblico Ministero richiedente o istante, come nell'ipotesi [ ] in cui egli promuove incidente di esecuzione chiedendo la revoca di una sentenza di condanna. In tal caso egli agisce come promotore di giustizia nell'interesse della corretta osservanza della legge e per una finalità di tutela che è esattamente opposta all'esercizio dell'azione penale. E si porrebbe in manifesta contraddizione proprio con quello scopo di vigilare non solo sull'osservanza delle leggi ma sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia il riconoscimento al P.M. del potere di impugnare tutte le volte in cui, dopo aver promosso un procedimento al fine di una corretta applicazione della legge [ ], ed ottenuto un provvedimento di ripristino di quella legalità costituente ragione dell'iniziativa stessa, venisse poi a dolersi della situazione derivatane. In tal caso, si vedrebbe compromesso proprio quell'interesse inerente ad una certa, ordinata e sollecita amministrazione della giustizia, di cui è portatore il Pubblico Ministero [ ]. Né è possibile che, nel quadro procedimentale in esame, il Pubblico Ministero possa esercitare il potere di impugnazione sulla base di un ripensamento della questione proposta. Ripensamento che trova preclusione proprio nel valido ed efficace esercizio dell'iniziativa, secondo un potere conferitogli dalla legge, che il Pubblico Ministero, nell'unitarietà del suo ufficio, ha puntualmente esercitato”. Da ultimo, è stato ribadito che dall'art. 570 cod. proc. pen. si ricava il principio per il quale si può affermare che l'ufficio del Pubblico Ministero, indipendentemente dal tenore delle conclusioni formulate in udienza, può proporre gravame avverso la decisione che le abbia eventualmente accolte. Infatti l'interesse del P.M. all'impugnazione attiene alla scelta da compiere dopo avere avuto piena conoscenza del provvedimento di volta in volta considerato e in base a una valutazione complessiva del risultato ottenuto, quali che siano state le conclusioni formulate in udienza dal magistrato impersonante fisicamente l'organo di accusa che, come tale, conserva comunque il potere di contestare l'esattezza della decisione in vista del soddisfacimento di generali esigenze di giustizia” Cass., Sez. II, n. 142 del 28/09/2011, Ratti nel corpo della motivazione si richiama altresì la sentenza della Sezione Prima n. 1391 del 06/12/1999, ric. D'Amico, relativa proprio ad un caso in cui l'impugnazione era stata presentata dallo stesso rappresentante del P.M. che aveva formulato le conclusioni in udienza, laddove si era affermato che il secondo comma dell'art. 570 va letto alla luce del principio dettato dal primo comma, cui è logicamente connesso” . 3. Rilevata l'inammissibilità del primo motivo di ricorso non può essere il P.M., in vero, a dolersi del mancato accoglimento di una eccezione difensiva in punto di competenza del Tribunale collegiale o monocratico, quando l'individuazione del giudice procedente derivi dalle stesse scelte dell'organo requirente all'atto dell'esercizio dell'azione penale , è invece parzialmente fondato il secondo. Copiosa e costante giurisprudenza di legittimità insegna infatti che in tema di reato di falso ideologico in atto pubblico aggravato ex art. 476, comma secondo, cod. pen., sono documenti dotati di fede privilegiata quelli che, emessi da pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall'ordinamento interno della P.A. ad attribuire all'atto pubblica fede, attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza” v., da ultimo, Cass., Sez. I, n. 49086 del 24/05/2012, Acanfora, Rv 253959 . Si tratta, a ben guardare, di approccio ermeneutico tenuto ben presente dal Tribunale di Pesaro, che a principi analoghi ha fatto espresso riferimento ma se l'affermazione secondo cui le attestazioni del curatore del fallimento non sarebbero fidefacienti possono condividersi quanto all'avere egli rappresentato l'avvenuto pagamento del prezzo della vendita dei beni, non altrettanto è a dirsi a proposito dell'avere segnalato l'intervenuta pubblicizzazione di quella vendita su una rivista del settore. Al più, un curatore fallimentare potrebbe infatti prendere atto del versamento di una somma, se non effettuato a sue mani, ricevendo od acquisendo informazioni presso la banca o l'ufficio postale dove risulti acceso il relativo rapporto conto corrente, libretto o quant'altro in quel caso, dichiarando che un pagamento c'è stato o che è avvenuto alla tal data, egli non riferisce circostanze di cui abbia avuto diretta percezione. Quando però dichiari di avere dato corso alla pubblicizzazione di una vendita in vista di successive attività formali della procedura, il curatore da contezza di attività da lui curate in prima persona e, qualora risulti che iniziative del genere non siano mai state assunte, il falso ideologico investe un atto certamente munito - in parte qua - di fede privilegiata. Né sembra potersi seriamente discutere circa la natura di atto pubblico di una istanza di autorizzazione alla vendita come la definisce testualmente il difensore dell'imputato nella memoria sopra richiamata , pur non volendola considerare assimilabile ad una relazione ex art. 33 legge fall. si tratta pur sempre di un atto proprio della procedura concorsuale, financo ontologicamente mirato a far sì che il Giudice delegato assuma provvedimenti formali. 4. Non hanno pregio le considerazioni della difesa circa possibili ed ulteriori ragioni di doglianza che sarebbe stato possibile muovere in ordine alla validità di atti assunti nel procedimento penale si tratta ovviamente di censure che potranno essere sviluppate in sede di giudizio di rinvio. 5. Si impone pertanto l'annullamento della sentenza impugnata, nei limiti sopra evidenziati, con rinvio alla Corte di appello di Ancona. Il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro deve infatti intendersi presentato per saltum , dal momento che la sentenza appare emessa in dibattimento un'eventuale pronuncia ex art. 469 cod. proc. pen. dovrebbe considerarsi camerale, ma nella fattispecie in esame si rileva che l'imputato era già stato dichiarato contumace, come risulta dal verbale di udienza . P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente all'addebito sub 1 del capo di imputazione, con rinvio alla Corte di appello di Ancona per il relativo giudizio. Rigetta nel resto il ricorso.