Con riferimento al patto di prova stipulato in caso di assunzione obbligatoria, non è necessaria la formale comunicazione del motivo di recesso da parte del datore. Non rileva nemmeno che la dichiarazione giunga a termine scaduto il lavoratore non può infatti ambire al contratto se la prestazione è effettivamente cessata in concomitanza alla scadenza del periodo di prova.
Il tema è stato affrontato dalla sezione Lavoro della Cassazione nella sentenza numero 15100/12 del 10 settembre. L’antefatto due mesi infruttuosi. Un uomo affetto da agnosia spaziale – ossia da difficoltà di riconoscere i luoghi – e con invalidità del 90%, esponeva di essere stato avviato obbligatoriamente al la lavoro quale coadiutore amministrativo. La prova di due mesi non si era tuttavia svolta regolarmente le mansioni affidategli non erano quelle accordate né si confacevano al suo stato di salute. Sia il Tribunale sia la Corte di Appello di Venezia rigettavano la domanda volta a dichiarare la nullità della delibera di recesso dell’Azienda dal rapporto di lavoro e la relativa reintegrazione . Allora il ricorrente esponeva le sue doglianze in sede di Cassazione senza esito positivo. L’atto di recesso necessita di forma scritta? Le Sezioni Unite sentenza numero 11633/2002 , con riferimento al patto di prova stipulato in caso di assunzione obbligatoria, hanno stabilito la non obbligatorietà della formale comunicazione del motivo di recesso da parte datoriale. Al lavoratore spetta di provare in sede giudiziale l’eventuale illiceità del motivo e perciò l’invalidità dell’atto negoziale unilaterale. Nel caso esaminato, il soggetto ha affermato che il “licenziamento” – termine usato in modo improprio – fu comunicato con una lettera tanto basta per escludere la fondatezza di difetto di forma scritta. Dichiarazione di recesso pervenuta a termine scaduto. Un altro motivo di ricorso è incentrato sul fatto che il rapporto di lavoro dovrebbe intendersi trasformato in un tempo indeterminato qualora la comunicazione di recesso sia giunta dopo la fine delle mensilità di prova. Vero che l’articolo 2096 c.c., al quarto comma, prescrive l’assunzione una volta completato il periodo di valutazione ma la disposizione vige nel caso in cui alla scadenza del termine il rapporto continui a svolgersi, e non quando le prestazioni siano cessate in concomitanza del termine conclusivo della prova.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 luglio – 10 settembre 2012, numero 15100 Presidente/Relatore Roselli Svolgimento del processo Con un primo ricorso del 21 maggio 2008 C T. esponeva di essere affetto da agnosia spaziale ossia da difficoltà di riconoscere i luoghi, che si concretava in un'invalidità del novanta per cento, e di essere stato avviato obbligatoriamente al lavoro quale coadiutore amministrativo presso l'Azienda - unità sanitaria locale numero XX di Venezia. Il periodo di prova di due mesi non si era svolto regolarmente a causa dell'assegnazione a mansioni diverse da quelle previste nel momento dell'assunzione e comunque non compatibili con il suo stato di salute. Pertanto il T. chiedeva dichiararsi la nullità della delibera di recesso dell'Azienda dal rapporto di lavoro per mancato superamento della prova, e la condanna alla reintegrazione. Con un secondo ricorso del 18 luglio 2008 il T. chiedeva accertarsi che, essendo stata comunicata la suddetta delibera dopo la scadenza del termine di prova, il rapporto era ormai a tempo indeterminato. Costituitasi l'Azienda in entrambi i giudizi, l'adito Tribunale di Venezia rigettava la domanda con decisione confermata dalla Corte d'appello con sentenza del 12 luglio 2010. La Corte osservava che l'eccezione di incompetenza dell'organo aziendale ad emettere l'atto di recesso era inammissibile perché proposta per la prima volta in appello. Potendo la volontà di recesso per mancato superamento della prova essere manifestata in forma orale, non rilevava che la notifica dell'atto scritto fosse avvenuta dopo la fine del periodo di prova. La Corte considerava infine le attività lavorative affidate al T. e, negata la prospettabilità di alcune circostanze nuove in appello, escludeva che le mansioni fossero incompatibili con le condizioni sanitarie del lavoratore. Contro questa sentenza ricorre per cassazione il T. mentre l'Azienda ULSS numero XX veneziana resiste con controricorso. Memorie utrinque. Motivi della decisione Col primo motivo il ricorrente lamenta violazione dell'articolo 414 cod. proc. civ. e vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata considerato tardivo il suo rilievo di incompetenza dell'organo amministrativo che aveva accertato il mancato superamento della prova. Il ricorrente sostiene di aver saputo di un telegramma, comunicante il detto accertamento, soltanto dalla comparsa di risposta della convenuta ossia quando il processo era già in corso. Il motivo non può essere accolto. Nell'atto introduttivo del giudizio del 21 maggio 2008 il ricorrente parlò di una lettera del 27 marzo precedente, di comunicazione del suo licenziamento . Non dice ora egli che cosa gli impedì di rilevare, in quella lettera, il difetto di competenza poi da lui lamentato e di denunciarlo tempestivamente nel suo ricorso al Tribunale. L'attuale motivo di ricorso è perciò inammissibile perché generico, ossia inosservante delle prescrizioni contenute nell'articolo 366, nnumero 3 e 4, cod. proc. civ Col secondo motivo il ricorrente prospetta la violazione degli articolo 1325, 1350, 2096 cod. civ., per non avere l'ente pubblico espresso in forma scritta l'atto di recesso. Il motivo non è fondato. Con sentenza 2 agosto 2002 numero 11633 le Sezioni unite di questa Corte hanno stabilito, con riferimento al patto di prova stipulato in caso di assunzione obbligatoria, la non necessità della formale comunicazione del motivo di recesso da parte del datore di lavoro, salvo il potere, spettante al lavoratore, di provare in sede giudiziale l'illiceità del motivo e perciò l'invalidità dell'atto negoziale unilaterale. In tal senso anche Cass. 27 gennaio 2004 numero 1458. Nel caso di specie il ricorrente nelle pagg. 4 e 23 del suo atto d'impugnazione afferma che il licenziamento recte manifestazione della volontà di recesso fu comunicato con lettera 27.03.08, e tanto basta ad escludere la fondatezza della doglianza di difetto della forma scritta, quand'anche nella lettera non fossero stati espressi i motivi. Quanto detto sopra a dimostrare l'inconsistenza anche del quarto motivo, in cui il ricorrente si riferisce al mancato ricevimento di un non meglio specificato telegramma. Col terzo motivo egli invoca l'articolo 2096 cit. e sostiene che la dichiarazione di recesso giunta al lavoratore dopo la scadenza del termine di durata della prova non può risolvere il rapporto di lavoro, che deve intendersi trasformato in rapporto a tempo indeterminato. Questa tesi è errata. È vero che a norma del quarto comma dell'articolo 2096 cit., compiuto il periodo di prova l'assunzione diviene definitiva, ma questa disposizione si riferisce al caso in cui alla scadenza del termine il rapporto di lavoro continui a svolgersi, e non al caso in cui le prestazioni cessino alla scadenza del termine e la volontà recessiva del datore venga recepita successivamente dal lavoratore. Nella specie il ricorrente non sostiene di aver prospettato, nel giudizio di merito, la prosecuzione della sua attività lavorativa oltre il termine, onde la censura si dimostra priva di fondamento. Il quinto motivo è rubricato con inversione degli oneri di allegazione e di prova in ordine all'intempestiva comunicazione del recesso mentre nella parte conclusiva si parla di negozio unilaterale ricettizio che deve provenire dall'organo deputato ad emetterlo e non si specificano i contenuti dell'evocata allegazione e prova. Il motivo è perciò inammissibile perché perplesso e privo di indicazione della norma di diritto asseritamente violata, ossia per inosservanza dell'articolo 366 cit Anche il sesto motivo è inammissibile poiché il ricorrente, parlando di illecito svolgimento della prova, non volta a sfruttare le capacità residue dell'invalido, prospetta questioni di fatto estranee al controllo di legittimità oppure indica fatti nuovi, non trattati nella sentenza d'appello, senza lamentare l'omissione di motivazione. Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in cinquanta Euro, più tremila Euro per onorario, oltre ad accessori di legge.