Confermata la condanna per ingiuria nei confronti di una donna che aveva rivolto la poco gradevole domanda a una collega di lavoro. A prescindere dalla veridicità dell’argomento, appare evidente che l’interrogativo era finalizzato a ledere la dignità della destinataria, mettendola a disagio e umiliandola.
Domanda subdola, carica di sottintesi, e attraversata da un evidente filo di grossolana ironia, e mossa dal chiaro intento di «mettere a disagio» la persona a cui essa è stata rivolta in maniera diretta. Ebbene, pur di fronte all’ipotesi che l’oggetto del ‘botta e risposta’ – una presunta precedente attività da prostituta – sia concreto, resta assolutamente evidente l’offesa arrecata legittima la contestazione dell’ipotesi di ingiuria Cassazione, sentenza numero 25563, Quinta sezione Penale, depositata oggi . Domande vietate. A scatenare la bagarre giudiziaria è una domanda quantomeno impertinente – e fondata su una ‘voce di corridoio’ – rivolta da una donna a una collega di lavoro a quest’ultima, difatti, viene chiesto se ella «avesse svolto, in passato, attività di prostituta in casa», e, quindi, «se fosse vero quanto si vociferava nell’ambiente di lavoro». Per il Giudice di pace, però, quella domanda non è semplicemente impertinente, bensì va valutata come una «ingiuria» a tutti gli effetti ecco spiegata la condanna nei confronti della donna. E questa ottica viene condivisa anche dai giudici della Cassazione, i quali respingono in maniera netta le osservazioni proposte dalla donna e finalizzate a rivendicare la mancanza di «ogni volontà di ledere l’altrui onore». Ciò perché, chiariscono i giudici, la domanda, «capziosamente rivolta», ha recato «offesa alla dignità della persona» a cui è stato chiesto «se fosse vero che ella, in passato, avesse svolto attività di meretricio», a prescindere dalla veridicità della circostanza argomento di discussione. Non si può mettere in dubbio, difatti, che la «tendenziosa formulazione dell’interrogativo» era finalizzata a «ledere la dignità» della destinataria della domanda, e che l’obiettivo era «metterla a disagio ed umiliarla».
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 22 marzo - 11 giugno 2013, numero 25563 Presidente Ferrua – Relatore Bruno Ritenuto di fatto 1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Salluzzo confermava in parte qua la sentenza del 28/09/2009 con la quale il Giudice di pace di quella stessa città aveva dichiarato B.T.B. colpevole del reato di ingiuria nei confronti di L.P. e, per l'effetto, l'aveva condannata alla pena di giustizia nonché al risarcimento del danno in favore della persona offesa, costituitasi parte civile. 2. Avverso la pronuncia anzidetta il difensore dell'imputata, avv. Riccardo Reinaudo, ha proposto ricorso per cassazione affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva. Considerato in diritto 1. Con unico motivo d'impugnazione, parte ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità dell'imputata, al sensi dell'articolo 606 lett. e cod. proc. penumero lamenta, al riguardo, che il Tribunale abbia ritenuto sussistente il reato di ingiuria nonostante mancassero i relativi presupposti, soggettivi e oggettivi, posto che dalla ricostruzione dei fatti era emerso che la stessa B., peraltro collega della persona offesa, si era limitata a chiedere alla stessa se fosse vero quanto si vociferava nell'ambiente di lavoro, cioè che avesse svolto, in passato, attività di prostituta in casa, sicché mancava ogni volontà dl ledere l'altrui onore. 2. La doglianza è, manifestamente, infondata. Ed invero, non merita censura di sorta la struttura motivazionale dei provvedimento impugnato che offre coerente rappresentazione del convincimento del giudice a quo, che, nel ribadire il giudizio di colpevolezza espresso dal primo giudice, ha ravvisato nella fattispecie gli estremi del reato in contestazione, al di là delle forme con cui è stato consumato. Ha infatti ritenuto, con insindacabile apprezzamento di merito, che la domanda capziosamente rivolta alla destinataria, per sapere se fosse vero che in passato avesse svolto attività di meretricio, recasse offesa alla dignità della persona, indipendentemente dal fatto che la circostanza oggetto dell'interrogativo rispondesse o meno a verità. Tale epilogo decisionale è in linea con indiscussa lezione giurisprudenziale di questa Corte regolatrice, secondo cui in tema di tutela dell'onore, ancorché in generale, al fine di accertare se sia stato leso il bene protetto dall'articolo 594 cod. penumero , sia necessario fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata, esistono, tuttavia, limiti invalicabili, posti dell'articolo 2 Cost., a tutela della dignità umana, di guisa che alcune modalità espressive sono oggettivamente e dunque per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario da considerarsi offensive e, quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utitizzate ioci causa cfr. Cass. Sez. 5 numero 11632 dei 14/02/2008, Rv. 239479 cfr. pure, id. Sez. 5, numero 39454 del 03/06/2005, Rv. 232339 . Correttamente, pertanto, sono stati ravvisati nella fattispecie gli estremi dell'ingiuria, riconoscendosi che nella tendenziosa formulazione dell'interrogativo vi fosse volontà di ledere la dignità della destinataria, con il chiaro intendimento di metterla a disagio ed umiliarla. 3. Per quanto precede, i! ricorso è inammissibile e tale va, dunque, dichiarato con le consequenziali statuizioni espresse in dispositivo. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.