Depressione post partum, marito aggressivo. Maltrattamenti? Possibili i comportamenti poco ortodossi dell’uomo per ‘svegliare’ la moglie

Riaperta la questione, nonostante la doppia condanna. Nodo da sciogliere è quello relativo al significato delle azioni, anche aggressive, compiute dall’uomo nei confronti della donna è possibile che esse siano finalizzate, seppur in maniera eccessiva, a scuotere la donna dal torpore provocato dalla depressione.

Moglie vittima della depressione post partum? Allora può essere legittimo il pungolo, seppur aggressivo e poco ortodosso, da parte del marito. Perché va attentamente valutata l’ottica dei comportamenti tenuti dall’uomo, se, cioè, finalizzati a «cercare di scuotere» la coniuge «dal torpore». Resta, quindi, in discussione l’accusa di maltrattamenti in famiglia Cassazione, sentenza numero 15680, Sesta sezione Penale, depositata oggi . Violento? Eppure, sia in primo che in secondo grado, all’uomo erano stati riconosciuti tutti gli addebiti, con conseguente condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia. A pesare, e a risultare decisivi, tre diversi episodi di aggressione nei confronti della moglie e lo status psicologico di quest’ultima, status che, secondo i giudici, permetteva di evidenziare le sopraffazioni subite dalla donna. Ma a questo quadro va aggiunto un elemento importante Post partum. senza giri di parole, il riferimento è alla depressione patologica in cui è precipitata la donna dopo il parto. Su questo tasto batte, con insistenza, il legale dell’uomo nel ricorso in Cassazione. In particolare, viene evidenziata la cornice delle «dinamiche familiari, fortemente condizionate dai problemi di natura depressiva della donna, che l’avevano spinta ad una totale mancanza di iniziativa e di reattività», rispetto alla quale «si erano verificate reazioni del marito che», secondo il legale, «lungi dall’essere animate da intento vessatorio, erano finalizzate a scatenare una reazione» nella donna. A sostegno di questa visione, poi, è richiamato il fatto che gli episodi contestati sono tre in tutto, e ‘spalmati’ su un arco temporale di tre anni, e che anche su questi episodi, oltre il racconto della donna, c’è una prospettiva diversa, quella fornita dai figli, i quali «hanno ricostruito i comportamenti provocatori dell’atteggiamento materno e descritto una condotta del padre non rientrante nella descrizione fornita loro dalla madre». Gesti solo eccessivi? Di fronte a una vicenda così delicata, la valutazione dei giudici di Cassazione è complessa perché obbligata a tener conto della precaria condizione psichica della donna e delle gravissime accuse nei confronti dell’uomo. Sul primo punto non vi sono dubbi è acclarata, difatti, la situazione «in cui si era trovata costretta a vivere la famiglia a causa di una forma depressiva che ha colpito» la donna, patologia provocata dal parto sul secondo punto, invece, esistono ancora coni d’ombra Perché, spiegano i giudici, il comportamento del marito è sfociato «frequentemente in comportamenti aggressivi», ma non è chiaro se tali azioni fossero «una reazione, seppur impropria, volta a cercare di scuotere la moglie dal torpore» oppure espressione della volontà dell’uomo di indurre la donna «in una situazione di costante soggezione». Questo nodo va assolutamente sciolto, sottolineano i giudici, che difatti annullano la pronuncia di secondo grado e riaffidano la questione alla Corte d’Appello. Anche perché le «condizioni di vita della donna» sono state considerate effetto delle «condotte prevaricatrici» dell’uomo, senza tener presente la patologia depressiva «mai del tutto superata».

Corte di cassazione, sez. VI Penale, sentenza 28 marzo – 23 aprile 2012, numero 15680 Presidente Agrò – Relatore Petruzzellis Ritenuto in fatto 1. La difesa di E.F. propone ricorso avverso la sentenza del 16/10/2009 della Corte d’appello di Trento che ha confermato la pronuncia di condanna del giudice di primo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia. Si eccepisce con il primo motivo violazione di legge per aver il giudice ritenuto la responsabilità sulla base delle dichiarazioni della sola parte lesa, costituitasi parte civile ed attrice nel procedimento di separazione con addebito, in assenza di ulteriori riscontri. In fatto si rileva che la sentenza individua solo tre episodi aggressivi, realizzati il primo nel 2003 e gli altri due nel corso del 2005, la cui segnalazione, anche ad opera del professionista che assisteva la donna, era sopraggiunta con anni di ritardo circostanze che, da un canto ponevano in crisi l’attendibilità del narrato e che, a tutto concedere, non consentivano l’inquadramento dei fatti nel paradigma normativo di cui all’articolo 572 cod. penumero Si contesta inoltre la ritenuta sussistenza del reato sul piano soggettivo, esclusa in relazione alle dinamiche familiari, fortemente condizionate dai problemi di natura depressiva della donna, che l’avevano spinta ad una totale mancanza di iniziativa e reattività, rispetto alla quale si erano verificate reazioni del marito che, lungi dall’essere animate da intento vessatorio, erano finalizzate a scatenare una reazione che tardava a rappresentarsi. Si rileva inoltre che il capo di imputazione non individua correttamente l’entità temporale dell’azione, omettendo di indicare specifici accadimenti dimostrativi della volontà di sopraffazione in particolare, si allude a ripetute percosse senza collocare tali atti temporalmente, si parla di azione volta a screditare la moglie agli occhi dei figli che risulta smentita dall’escussione di questi, i quali hanno ricostruito i comportamenti provocatori dell’atteggiamento materno e descritto una condotta del padre non rientrante nella descrizione fornita dalla loro madre, circostanza che ha prodotto una lettura illogica da parte del primo giudice delle risultanze processuali. Gli elementi acquisiti, comprensivi anche della consulenza disposta su istanza di parte, concordano nell’escludere il dolo di persecuzione nell’atteggiamento del ricorrente, imponendo di escludere l’affermazione di responsabilità per il reato contestato. 2. Con il secondo motivo di ricorso si eccepisce violazione di legge in ordine alla valutazione delle prove, svolta in violazione delle norme di cui all’articolo 192 cod. proc. penumero , osservando che di fatto la Corte, partendo da un presupposto di assoluta attendibilità della teste d’accusa, che al contrario avrebbe dovuto essere sottoposta a rigorosa valutazione per l’interesse nutrito dalla donna, conferma la responsabilità dell’imputato addossandogli un onere di prova contraria opposto rispetto ai canoni valutativi stabiliti dalla legge, assumendo l’inidoneità delle prove addotte a superare la credibilità della teste d accusa, omettendo di trarre le doverose conseguenze dalla mancanza di qualsiasi ulteriore altra prova a conferma i tre episodi dichiarati dalla parte offesa. Si lamenta omessa valutazione della documentazione prodotta dalla difesa in appello, nonché mancata valorizzazione dell’intervenuto affidamento del figlio a padre, incompatibile con la pretesa natura di violenza che emergerebbe dal processo, e la prosecuzione dell’atteggiamento vittimistico della donna, malgrado le completa esclusione della stessa da qualsiasi responsabilità familiare. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è fondato. Deve ricordarsi che il delitto contestato presuppone l’accertamento di una condotta abituale, volta a creare una condizione di soggezione ed asservimento della persona di famiglia, finalità che deve essere consapevolmente avuta di mira dall’autore nello svolgimento di tale pratica sopraffattrice. In particolare, se pure non è richiesto il dolo specifico, la condotta rilevante deve essere caratterizzata nell’agente dalla coscienza e volontà di sottoporre la parte offesa ad uno stato di sottoposizione psicologica e di sofferenza. Nella specie i giudici di merito hanno compiutamente tratteggiato la situazione di fatto in cui si era trovata costretta a vivere la famiglia a causa di una forma depressiva che ha colpito la parte lesa a seguito del parto, e dalla quale la donna non risulta mai essere uscita. E’ del tutto pacifico, sulla base delle prove assunte, che la causa scatenante di tale patologia sia stata l’evento parto, cui è seguito un progressivo allontanamento della donna dalla realtà e la chiusura in sé stessa, che ha prodotto alterazione delle dinamiche familiari. Analogamente non vi è dubbio, sulla base delle prove assunte che risultano correttamente valutate dal giudice di merito, che il comportamento del marito sia frequentemente sfociato in comportamenti aggressivi, di natura materiale o morale, ma non risulta accertato specificamente nelle pronunce di merito se tale condotta sia stata generata da una reazione, sia pur impropria, volta a cercare di scuotere la moglie dal torpore e dalla mancanza di iniziativa ed interesse nella quale risulta essere stata relegata per effetto della patologia, o sia stata determinata dalla volontà di indurla in una situazione di costante soggezione. Tale accertamento risulta imprescindibile, non solo per la doverosa considerazione degli effetti devastanti che la patologia depressiva può comunque produrre sulle dinamiche familiari del malato, ma soprattutto in ragione della stessa specifica contestazione formulata a carico del ricorrente, che individua le caratteristiche e finalità della condotta illecita a lui attribuita proprio nella creazione di una costante situazione di timore che avrebbe indotto l’interessata a sottoporsi alla psicoterapia, quale effetto di tali maltrattamenti, situazione di fatto, al contrario, non sufficientemente riscontrata nel concreto, che ben potrebbe essere diversamente correlata alla situazione patologica nella quale la M. si trovava a vivere, di cui entrambe le pronunce pur danno ampiamente conto. L’accertamento è tanto più elevante ove si consideri che conferma dell’effetto delle condotte prevaricatrici del ricorrente è stato ravvisato nelle condizioni di vita della donna, e nella sua situazione di disagio, omettendo di valutare, per converso quanto di tale effetto sia conseguenza della malattia depressiva, che sulla base delle deduzioni dei professionisti che l’hanno in cura, come evidenziate in sentenza, non risulta mai del tutto superata. Ciò comporta un difetto di motivazione su un punto essenziale al fine dell’accertamento di responsabilità del reato contestato, caratterizzato dall’imposizione di un regime di vita vessatorio finalizzato a mortificare la personalità della vittima e ad ostacolare il naturale sviluppo della sua personalità, che permette di tipizzare il reato in esame, consentendo di differenziare la sua rilevanza giuridica rispetto al significato dei singoli comportamenti aggressivi, che, in difetto dell’abitualità correlata alla volontà prevaricatrice, devono essere inquadrati nei diversi delitti di lesione, ingiuria, e minacce. Si impone conseguentemente l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per nuova valutazione sul punto, che deve condursi sulla base delle prove già acquisite, non risultando sussistente in senso contrario la violazione di legge contestata con il secondo motivo di ricorso attinente alla valutazione delle prove, che sulla base delle argomentazioni esposte nella pronuncia impugnata, non risultano illegittimamente valutate, né risultano ignorati illegittimamente i documenti cui la difesa fa richiamo, poiché nel giudizio d’appello non risulta disposta la rinnovazione dei dibattimento, strumento essenziale per eseguire un ampliamento del tema di indagine nel corso del giudizio di secondo grado. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bolzano.