Le immagini visibili senza l’ausilio di strumenti atti a migliorarne o a consentirne la percezione sono da considerarsi sottratte dalla tutela dell’articolo 615 bis c.p Per cui, non integra la condotta penalmente rilevante e sanzionata dall’articolo 615 bis c.p. l’intervenuta videoripresa di scene chiaramente visibili anche ad “occhio nudo”.
Il caso. Due imputati venivano tratti a giudizio per rispondere del reato previsto e punito dall’articolo 615 bis c.p., ovvero delle illecite interferenze nella vita privata, per aver installato una videocamera il cui campo visivo era in grado di riprendere ciò che avveniva avanti l’ingresso dell’impianto industriale della persona offesa. Avverso la sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula «perché il fatto non costituisce reato», formulava ricorso per Cassazione la persona offesa. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso. Dichiarata non antigiuridica la condotta finalizzata alla tutela di un bene protetto costituzionalmente o sorretta da una precisa disposizione di legge. La sentenza della Suprema Corte, fa riferimento, seppur in maniera non approfondita ed ai fini di dichiarare l’inammissibilità del ricorso per essere il medesimo costruito e formulato su di una diversa e differente rilettura dei fatti, alla caratteristica dell’antigiuridicità. Come è noto si tratta di quel terzo elemento necessario affinché possa dirsi sussistente l’illecito penale. La Corte ne determina i confini chiarendo come il giudizio di antigiuridicità della condotta debba essere compiuto ponendo quale termine l’esistenza di una specifica norma, di rango costituzionale od ordinario, che abbia approntato tutela al bene nell’interesse del quale l’agente ha compiuto la condotta contestata. Così definiti i confini dell’analisi appare evidente come in essa non possano essere riconosciuti spazi a convincimenti di carattere personale e soggettivo. L’errore convinzione di agire a tutela di beni non protetti costituisce ignorantia legis. Vietata qualsiasi estensione al campo del putativo , ne discende che l’erroneo convincimento di agire a tutela di un bene protetto non può che riverberarsi nella figura prevista dall’articolo 5 c.p., ovvero nell’ ignorantia legis che, sua volta, a sensi della nota interpretazione Costituzionale della norma, potrà dirsi scusabile o meno. Per determinare cosa risulti visibile ad occhio nudo non ha alcuna rilevanza la posizione che deve assumere l’osservatore. La Corte nella pronuncia in commento si interroga circa i limiti di applicabilità di una norma il cui contenuto letterale «chiunque – omissis – si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614 – omissis », è solo apparentemente chiaro. Il ragionamento seguito dalla Corte, non esplicitato nella pronuncia ma che pare sotteso alla stessa, è di per sé semplice e si poggia su di una definizione, rectius , delimitazione, della portata dell’avverbio indebitamente. A sensi della giurisprudenza della Corte non tutto ciò che accade nei luoghi indicati dall’articolo 614 c.p. domicilio, residenza etc. può essere definito quale indebitamente percepito da terzi estranei. Ciò che avviene ad esempio all’aperto all’interno di un cortile di un immobile od all’interno di una abitazione le cui finestre siano state lasciate aperte, non può dirsi, in termini filosofici, indebitamente percepito da chi si trovi in quel momento, e per le ragioni più diverse, a passare od a stazionare nei pressi del luogo. Il fenomeno fisico della percezione di suoni od immagini, nella sua dimensione naturalistica, certamente non può essere in alcun modo impedito. Alcune considerazioni. Diverso è, a parere di chi scrive, se i suoni o le immagini vengano raccolte da strumenti di ripresa visiva o sonora azionati da chi si trovi ad assistere all’episodio. Il vicino di casa che assista ad un lite consumata nel cortile della casa confinate su cui si affaccia il proprio balcone potrebbe, incuriosito, riprendere la scena? Ed ancora, con maggior pruderie, effusioni consumate a finestra aperta potrebbero essere riprese da vicini di casa che potrebbero benissimo vederle ad occhio nudo? Una interpretazione della norma volta a tutelare la privacy, ovvero il diritto alla riservatezza in relazione a ciò che avviene all’interno dei luoghi protetti dall’articolo 614 c.p., dovrebbe portare a dichiarare simili condotte sanzionate e punite dal disposto dell’articolo 615 bis c.p., posto che, all’occasionalità, dunque all’imprevedibile circostanza di trovarsi innanzi ad un episodio fenomenico percepito e percepibile senza necessità d’ausili di sorta, si sostituisce la volontà del terzo di crearsi una documentazione dell’evento che egli non ha alcuna necessità giuridica di possedere. In punto pare dovrebbe prevalere la tutela del bene, approntata sia Costituzionalmente che in via ordinaria dalla norma, diritto alla riservatezza privacy rispetto ad ogni altra esigenza di documentazione che, invero, non trova giustificazione alcuna. Invece, sorprendentemente la pronuncia afferma non solo che è lecito procurarsi immagini relative a luoghi indubitabilmente rientranti nel novero di quelli cui il Legislatore ha accordato tutela, purché «percepibili anche ad occhio nudo» ma, addirittura, che detta modalità di percezione può essere misurata anche in relazione a posizioni fisiche che normalmente il soggetto non dovrebbe assumere nel caso concreto la telecamera era posizionata su di una tettoia per cui l’osservatore persona fisica per vedere avrebbe dovuto salire sulla tettoia . Francamente pare che una simile interpretazione, pur se resa in una vicenda di non enorme portata, sia capace di scardinare la tutela che evidentemente il Legislatore ha voluto fornire alla riservatezza dettando l’articolo 615 bis c.p., ponendosi, peraltro, in posizione di contrasto anche con la legislazione sovranazionale dettata in tema di captazione di immagini e suoni anche in relazione ad indagini giudiziarie. Forse il Supremo Collegio si è lasciato fuorviare nel caso concreto da quella che appare essere l’unica ragione plausibile per pronunciare la assoluzione degli imputati, ovvero quella relativa alla carenza di prova circa l’esistenza di immagini indebitamente captate.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 9 ottobre - 22 novembre 2012, numero 45662 Presidente Teresi – Relatore Fumo Rilevato in fatto 1. D.G. e C.P. , imputati del delitto di cui agli articoli 110-615 bis c.p. in danno di D.F.S. ed altri, sono stati assolti con la formula perché il fatto non costituisce reato dal tribunale di Bari, sezione distaccata di Modugno. Le parti civili hanno proposto appello, che la corte di appello di Bari, con la sentenza di cui in epigrafe, ha rigettato,compensando le spese tra le parti. 2. Propone ricorso per cassazione il difensore del D.F. deducendo violazione di legge articolo 192 c.p.p. e 615 bis c.p. e carenze dell'apparato motivazionale. Osserva che la corte d'appello, trascurando addirittura le spontanee dichiarazioni del C. , ha infarcito la sua sentenza di affermazioni apodittiche in punto di fatto ed errate in punto di diritto, giungendo a sostenere che nella condotta degli imputati mancherebbe la consapevolezza della antigiuridicità affermazione assurda, se solo si riflette sul fatto che il preteso esercizio di un diritto il diritto di difesa che l'avvocato C. avrebbe esercitato, per altro preventivamente nell'interesse del D. non può avvenire al di fuori della regolamentazione cui la legge sottopone l'esercizio stesso vale a dire secondo i dettami degli articoli 391 bis e seguenti c.p.p. . Peraltro - e lo stesso giudice di merito lo ammette - la telecamera installata su di una tettoia della fabbrica del D. era in grado di riprendere, non solo quanto avveniva presso l'ingresso dell'impianto industriale del D.F. , ma anche ciò che avveniva all'interno delle aree adibite alla lavorazione. Si tratta, dunque, di episodi della vita privata, che non potevano essere arbitrariamente captati dagli imputati. L'articolo 615 bis c.p. rimanda al precedente articolo 614 e dunque esso vieta la ripresa di fatti che si verifichino in abitazioni altrui o in altro luogo di privata dimora, ovvero ancora nell'appartenenza di essi. Né è esatto ciò che sostiene la sentenza impugnata, vale a dire che le scene riprese avessero il carattere della pubblicità e quindi fossero pacificamente osservabili dall'esterno. Si tratta, in realtà, di riprese precluse all'esterno, che non avevano a oggetto condotte che si svolgevano in spazi aperti al pubblico. I testi L. e F. hanno chiarito che, sebbene l'attività lavorativa della ditta della parte civile si svolgesse a cielo aperto, l'area in questione era comunque recintata e dunque delimitata essa doveva, quindi, intendersi come interna all'azienda. Sostiene la corte d'appello barese che, per la consumazione del reato in questione, è sufficiente il dolo generico, vale a dire la volontà cosciente di procurarsi indebitamente immagini inerenti alla altrui privacy, ma, da tale premessa, essa non trae la logica conclusione, giungendo assurdamente a ritenere che, poiché gli imputati avrebbero agito a fini di autotutela, essi non avrebbero avuto consapevolezza di star violando la legge. Tale assunto è fattualmente smentito dalla condotta tenuta post delictum , atteso che la telecamera venne immediatamente rimossa, una volta che il D. ebbe contezza del fatto che D.F. aveva chiesto l'intervento in forze dell'ordine. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile perché si fonda su una diversa ricostruzione in fatto dell'accaduto e su di una non attenta lettura della sentenza di secondo grado. Detta sentenza, in effetti, contiene un assunto non condivisibile, vale a dire quello in base al quale, poiché gli imputati ritenevano di star esercitando il diritto di difesa, non avevano consapevolezza della antigiuridicità di ciò che stavano compiendo. In merito a tale affermazione, è corretta la replica del ricorrente, in base alla quale l'esercizio di detto diritto deve essere contenuto nei limiti previsti dalla legge, di talché non di mancata consapevolezza della antigiuridicità si tratta, ma, al più, di inescusabile ignoranza legis , che, di per sé, non toglie la connotazione di coscienza è volontà alla condotta contra jus tenuta da D. e C. il quale ultimo, peraltro, a quanto si apprende alla sentenza, è un avvocato e quindi, presumibilmente, non ignora che persino il diritto di difesa ha dei limiti . 1.1. Il fatto è, tuttavia, che la corte, dopo tale incidente di percorso , esibisce un ulteriore e, per così dire, parallelo apparato motivazionale, affermando che la telecamera era stata collocata in modo da riprendere l'ingresso dello stabilimento industriale del D.F. . Le scene riprese – dunque - erano pacificamente visibili anche a occhio nudo, secondo quanto logicamente si ricava dal presupposto fattuale evidenziato dal giudice di merito, da parte di chiunque si fosse collocato sulla tettoia, di pertinenza della fabbrica del D. . 1.2. Sulla base di tale presupposto, la corte territoriale, citando giurisprudenza di legittimità, anche di questa quinta sezione ASN 200844156 - RV 241745 + ASN 201125453 - RV 250462 , giunge ad affermare correttamente che non vi è stata abusiva captazione di condotte tenute in “località protetta”, ai sensi dell'articolo 615 bis c.p Il ricorrente sostiene il contrario e, ciò che più rileva, sostiene che ciò si evincerebbe proprio dalla sentenza impugnata il che è contrario al vero, se solo si nota che l'ultimo capoverso di pagina 9 della sentenza impugnata reca “Non è stata raggiunta la prova certa che la telecamera, chiaramente direzionata verso l'ingresso principale dello stabilimento, fosse in grado di riprendere, non solo l'accesso e l'uscita dei mezzi adibiti al trasporto di rifiuti e le relative targhe ., ma anche l'attività lavorativa svolta all'interno, se solo si consideri che, come evincibile dalle fotografie in atti, la visuale era parzialmente occlusa dalla presenza della palazzina degli uffici”. 1.3. Il non aver compreso, o peggio, l'aver volutamente travisato il senso di tale affermazione della sentenza d'appello costituisce una immutatio veri , rispetto alla sentenza-documento, che, sfociando in una arbitraria e alternativa ricostruzione del fatto, determina, come premesso, la inammissibilità del ricorso. 2. Consegue condanna alle spese e al versamento di somma a favore della cassa delle ammende, somma che si stima e può determinare in Euro 1.000,00. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.