Quando l’intervenuta riduzione della pretesa in sede tributaria esclude il reato?

Il giudice penale non è vincolato alla imposta accertata in sede tributaria, ma, per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tenere conto, invece, dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall’articolo 4 d.lgs. numero 74/2000, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione della imposta dovuta.

Con il principio suddetto la Cassazione sentenza numero 34974, depositata il 19 agosto 2015 ha chiarito che, anche se il giudice penale è svincolato dall'accertamento del giudice tributario, non può prescindere dalla pretesa vantata dall'amministrazione. Le origini dell’autonomia dell’accertamento penale. Come noto occorre risalire ai primi anni ’80 per rinvenire nel sistema penale italiano il superamento della “pregiudiziale tributaria”, che, di fatto, aveva paralizzato l’applicazione delle norme penali tributarie. Tuttavia ciò avvenne con la l. numero 516/1982, meglio nota come “manette agli evasori”, non attraverso il riconoscimento al giudice penale di una piena fiducia nell’accertamento dell’evasione fiscale, quanto, piuttosto, disancorando la sanzione penale dall’evasione di imposta per andare a colpire dei comportamenti prodromici all’evasione stessa, liberando, per tale via, si disse, il giudice penale dall’onere di compiere complessi accertamenti fiscali. Tuttavia l’introduzione di un gran numero di reati tributari formali determinò uno straordinario aumento delle notizie di reato e un intervento penale che, paradossalmente, sortì l’esito di paralizzare gli uffici delle Procure della Repubblica tanto che la “panpenalizzazione in diritto” finì per tradursi in una “depenalizzazione di prassi”, in quanto questi fascicoli, collegati a reati formali e percepiti come bagatellari e comunque meno gravi, molto spesso venivano lasciati “dormire” negli armadi fino al naturale maturare del termine di prescrizione. Solo con la successiva riforma realizzata con il d.lgs. numero 74/2000, che perseguiva lo scopo di una ampia depenalizzazione, si realizzò il superamento dei c.d. “reati ostacolo” e della ancestrale sfiducia nella capacità di accertamento tributaria del giudice penale, con la criminalizzazione delle sole condotte decettive in danno della Amministrazione Finanziaria effettivamente lesive del bene tutelato e l’introduzione di soglie di punibilità, che conferivano penale rilevanza solo alle condotte di evasione, caratterizzate da una certa gravità. Autonomia a favore dell’imputato. Alla luce del principio di piena autonomia del giudice penale nell’accertamento della imposta evasa, riconosciuto dal d.lgs. numero 74/2000, più volte la Cassazione ha ribadito che è rimesso al giudice penale il compito di accertare l'ammontare dell'imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d'esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l'ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario. Come noto, infatti, l’accertamento tributario si fonda su una serie di presunzioni tributarie che contrasterebbero con il principio costituzionale che impone alla pubblica accusa di provare i fatti posti a fondamento della contestazione e l’inoperatività di presunzioni in malam partem . Cosi, per costante giurisprudenza, le presunzioni tributarie non costituiscono prova del reato tributario, anche se possono essere valutate dal giudice come dati di fatto per ritenere sussistente il mero fumus del reato, specie se il contribuente non apporta elementi di segno contrario tali da “vincere” la presunzione con un'analisi contabile alternativa. L’autonomia del processo penale rispetto all’accertamento ed all’eventuale processo tributario importa dunque di regola un vantaggio per il contribuente-imputato che non può vedersi opporre in sede penale sic et simpliciter quanto sia stato accertato nella sede tributaria. Anche dai limiti alla autonomia conclusioni a favore dell’imputato. Come si è appena visto, dunque, l’autonomia, pur riconosciuta ed esistente, non è assoluta, nel senso che quanto è stato oggetto di accertamento in sede tributaria non costituisce di per sé giudicato o prova in sede penale, ma è liberamente apprezzabile da quest’ultimo giudice, che deve comunque tenerne conto quale elemento di fatto utile a determinare il proprio convincimento al fine dell’affermazione o meno della penale responsabilità. Sicuramente assai di sovente è interesse dunque dell’imputato rimarcare l’autonomia dei due giudizi per contestare in sede penale l’esito dell’accertamento, a lui sfavorevole, operato in sede tributaria. Decisamente meno frequente, ma non per questo meno interessante il caso in esame, in cui l’imputato, al contrario, ha interesse a fare valere in sede penale l’esito finale dell’accertamento tributario, che, avendo comportato una significativa riduzione della pretesa fiscale rispetto a quella inizialmente vantata, esclude la sussistenza di una condotta penalmente rilevante, o perché l’evasione viene in radice esclusa, ovvero perché viene ricondotta al di sotto del tasso soglia, che ne determina la penale rilevanza. Nel caso di specie, dunque, l’imputato non avrà interesse a fare valere l’autonomia dei due giudizi, ma, al contrario, la valenza, quale elemento di fatto di cui il giudice penale deve tenere conto, dell’esito a lui favorevole dell’accertamento tributario. La vicenda in esame. In effetti, nel caso di specie, con i primi due motivi di ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Trento il ricorrente si doleva proprio del fatto che il giudice di secondo grado, nonostante fossero stati articolati sul punto specifici motivi di impugnazione, non avesse tenuto in alcuna considerazione gli esiti dell’accertamento con adesione emesso dall’Ufficio delle imposte che aveva riconosciuto, alla fine, per l’anno di imposta 2008 un reddito di impresa pari a zero con conseguente insussistenza di ogni evasione di imposta ai fini IRES. La Corte di appello, riconosce in effetti la Cassazione, è incorsa in evidente vizio di motivazione nel non fornire alcuna spiegazione sulle ragioni che l’avevano indotta a discostarsi dall’esito del concordato con l’amministrazione finanziaria che, come anticipato, aveva ritenuto insussistente l’evasione per l’anno di imposta 2008. Se è vero, infatti, per costante e consolidata giurisprudenza, che il giudice penale non è vincolato all’accertamento del giudice tributario, è altrettanto vero che non può prescindere dall’ammontare della pretesa vantata dall’amministrazione finanziaria. Se dunque a seguito di concordato o accertamento con adesione l’amministrazione finanziaria abbia escluso o ridimensionato al di sotto del tasso soglia di penale rilevanza della condotta la propria iniziale pretesa, il giudice penale non potrà attenersi a tale maggiore iniziale pretesa, se non indicando, con specifico onere di motivazione, gli elementi di fatto che lo hanno indotto a ritenere maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta rispetto all’esito del concordato. Poiché nel caso in esame tale specifica motivazione risultava completamente omessa, l’esito del giudizio di legittimità altro non poteva essere che l’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte di appello della decisione impugnata.

Corte di Cassazione, sez. Feriale Penale, sentenza 28 luglio – 19 agosto 2015, numero 34974 Presidente Zecca – Relatore Vessichelli Fatto e diritto Propone ricorso per cassazione V.R. avverso la sentenza della Corte d'appello di Trento, in data 6 febbraio 2015, con la quale è stata parzialmente riformata quella di primo grado e, per l'effetto, è stata ribadita la responsabilità dell'imputato in ordine ad una duplice ipotesi di reato ex articolo 10 quater d. lgs. numero 74 del 2000, con date di consumazione riferite, nel primo caso, a tutto il 2007 capo 1 A e, nel secondo caso, al primo semestre del 2009 capo 1 C ed altresì al reato di cui al capo 2, con riferimento all'articolo 4 del d. lgs. citato data di consumazione 29 settembre 2009, ossia quella di presentazione della dichiarazione annuale IRES . Più in particolare, con le prime contestazioni, si è inteso attribuire al ricorrente, quale amministratore di fatto della società Me Me a responsabilità limitata, in concorso con l'amministratore di diritto Ve. , la condotta consistita nella utilizzazione, in compensazione d'imposta, di un credito Iva e inesistente, nel primo caso per complessivi Euro 1.023.586, e nel secondo caso per complessivi Euro 83.217 capo 1 a e c . Con la contestazione ex articolo 4, invece, è stata attribuita al ricorrente, nella medesima veste, la condotta consistita nella omessa indicazione, nella dichiarazione annuale delle imposte sui redditi 2009, relativa all'annualità 2008, di elementi positivi di reddito per oltre Euro 2.885.500 pari alla plusvalenza realizzata a seguito della vendita di un immobile nel corso del 2008 condotta caratterizzata dal fine di evadere le imposte sui redditi gravanti sulla società, con corrispondente evasione di imposta superiore alla soglia di legge e con il superamento altresì della soglia percentuale ugualmente prevista per la rilevanza penale della condotta. capo 2 La Corte d'appello ha ritenuto di aderire, per quanto qui di interesse, al ragionamento del primo giudice, partendo dalla attestazione, illustrativa in particolare del reato di cui all'articolo 4 capo 2 , che il 20 febbraio 2008 la società sopra menzionata aveva venduto, per 6 milioni di Euro, un immobile costatole all'inarca la metà, senza tuttavia mettere a tassazione la plusvalenza, in quanto questa era stata abbattuta attraverso un artificio cioè, nella contabilità stato patrimoniale di tre anni prima, ossia del 2005, erano state annotate voci per ratei attivi importo di Euro 2.500.000 poi, era stata anche annotata una fattura passiva emessa il 1 ottobre 2008 dalla cooperativa Lagorai, capace di aumentare il costo storico dell'immobile che tuttavia non avrebbero dovuto essere annotati per il principio di prudenza dell'articolo 2423 bis cc e il principio di competenza di cui all'articolo 109 Tuir perché rappresentavano solo la speranza di un futuro indennizzo assicurativo per un patito incendio, sicché, si ammette, si trattava di poste attive nemmeno tassabili. Si era realizzato un artificio, cioè, perché i ratei in questione erano stati iscritti con riferimento ad un anno di imposta connotato contabilmente da perdita fiscale, con la conseguenza che non avevano comportato, in concreto, alcun incremento di imposta. Tuttavia, grazie a tale appostazione si era precostituita la possibilità di abbattere con una successiva operazione di defalcazione di quella voce future plusvalenze come quella relativa alla vendita dell'immobile già progettata . Tale vendita si era infatti regolarmente perfezionata nel 2008 e la relativa plusvalenza non era stata esposta a fini fiscali perché neutralizzata deducendo, in quanto non riscossa, la somma artificiosamente iscritta in attivo nel bilancio del 2005, in previsione del risarcimento assicurativo. La Corte d'appello prendeva atto della tesi difensiva esposta al riguardo soprattutto con riferimento al fatto che la situazione sopra descritta si era ribaltata quando, nel marzo 2008, l'Ufficio delle imposte di Rovereto aveva elevato un accertamento nei confronti della società per il periodo di imposta 2005, rilevando che, a causa di altre anomale appostazioni inesistenza di una minusvalenza dichiarata ed esistenza di una plusvalenza non dichiarata a titolo di avviamento , il reddito effettivo non dichiarato per quell'anno era invece attivo di circa 4 milioni di Euro ed aveva quindi stabilito la relativa tassazione che, di fatto, aveva tenuto conto anche dei più volte richiamati ratei attivi erroneamente contabilizzati. In conclusione questi ultimi erano stati tassati per effetto di un errore dell'agenzia delle entrate di Rovereto sicché, in sede di concordato successivamente realizzato con l'agenzia delle entrate di Trento, con atto di adesione del 2013, per l’anno 2008, si era rilevato il detto errore e, con riferimento allo stesso anno 2008, pur confermandosi la mancata dichiarazione della plusvalenza per la vendita dell'immobile, si era ritenuto di non tassarla di nuovo . In conclusione, secondo la Corte territoriale, il concordato, pur concludendosi con la attestazione per il 2008 di un reddito pari a zero, non valeva ad escludere il fondamento della contestazione di rilievo penale. Inoltre, la Corte d'appello evidenziava come l'intento chiaramente elusivo della imposizione fiscale sotteso alla iscrizione dei ratei, emergeva senza alcun dubbio anche dal rilievo che i relativi importi erano stati defalcati nella dichiarazione del 2009 per l'anno di imposta 2008 proprio quando la speranza di incasso stava per diventare certezza, dal momento che con sentenza di quell'anno il Tribunale di Trento aveva riconosciuto l'indennizzabilita dell'incendio. Non aveva pregio neppure la tesi della difesa secondo cui la non iscrizione dei ratei avrebbe fatto emergere una perdita di esercizio trasferibile anche negli anni successivi e idonea ad abbattere la plusvalenza generata nel 2008, dal momento che un simile modo di procedere avrebbe avuto anche l'effetto di aumentare la plusvalenza tassabile. La Corte d'appello motivava altresì sulle ragioni per le quali riteneva l'imputato amministratore di fatto della società. Infine, con riferimento al capo 1, la Corte d'appello ha ribadito la esistenza della prova del reato, commesso in due fasi 2007 e 2009 , deducendola delle dichiarazioni dei componenti dell'ufficio di polizia tributaria di Trento B. e P. . Costoro avevano cioè accertato che il debito di Iva per le due annualità menzionate derivante dalla vendita del menzionato immobile della società, avvenuta con un acconto nel 2007 e perfezionata con rogito nel 2008, con conseguente debito di Iva per circa 1 milione di Euro nel 2007 e 200.000 Euro nel 2008 era stato compensato con un credito di Iva fittizio iscritto sin dal 2004 nella dichiarazione Iva della Tessitura Rovereto, società dalla quale la MeMe era stata poi scorporata credito di Iva ritenuto fittizio perché non figurante nel bilancio e nella comunicazione Iva del medesimo anno ed inoltre perché indicato come generato da acquisti di merce risalenti al dicembre 2004, non riportati nel bilancio della stessa società, approvato il 27 giugno 2005 dopo il cambio del vertice societario . Quel credito di Iva era comparso per la prima volta nel modello unico del 2004 presentato il 29 giugno dei 2005. La Corte d'appello replicava all’ulteriore argomento speso dalla difesa al riguardo relativo al fatto che non era stato possibile esibire le fatture degli acquisti perché tutta la documentazione societaria era stata sequestrata osservando che la stessa difesa aveva documentato la restituzione della documentazione a far data dal maggio 2012. Aggiungeva che non si rendeva neppure necessario procedere all'acquisizione in appello, mediante rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale richiesta peraltro tardivamente soltanto nella discussione orale , di uno dei documenti che erano stati sequestrati perché non indispensabile ai fini dei decidere si trattava infatti di nota non scoperta successivamente al processo di primo grado, priva di riscontro nei bilancio ma soprattutto non attendibile e irrilevante perché indicativa dell'assoggettamento ad IVA con credito di IVA per Tessitura Rovereto di beni aziendali ceduti, appunto, alla Tessitura Rovereto S.r.l. dalla quale era stata successivamente scorporata la società Me e Me che aveva rilevato la parte immobiliare per un importo poco più di Euro 1.200.000 comunque non coincidente nel dettaglio a quello sopra indicato, beni peraltro non assoggettabili all'IVA per loro natura. In aggiunta la Corte osserva che neppure l'imputato, nell'interrogatorio orale, aveva fatto riferimento a tale nota o aveva obiettato in ordine alla fittizietà del credito o aveva escluso che si trattasse di operazione riferibile al proprio studio. Per tale ragione i giudici hanno ritenuto superabile la richiesta di acquisizione in atti dei modelli F 24 contenenti le indebite condotte contestate sia perché comunque erano state acquisite le stampate della banca dati dell'anagrafe tributaria sia perché non era stato contestato da alcuno che si trattasse di operazioni effettuate dallo studio V. . Sulla sua responsabilità personale la Corte d'appello citava contenuto della mail di invio del modello unico presentato il 29 giugno 2005, dalla quale risultava che chi trasmetteva il modello era anche colui che lo aveva compilato. Deduce il ricorrente 1 la violazione di legge con riferimento al capo 2 ed in particolare al suo momento consumativo. Osserva il ricorrente che il reato di dichiarazione infedele presuppone il superamento delle soglie di punibilità sicché fondamentale è il modo attraverso il quale il giudice motivi tale elemento. Nel caso di specie tale motivazione mancava in quanto non era stato illustrato il ragionamento sul mancato recepimento dell'atto di accertamento con adesione emesso dall'Ufficio delle imposte, giunto alla conclusione che, per il 2008, il reddito d'impres era pari a zero, sicché non dava luogo ad alcune imposte evasa IRES uguale a zero il difensore riporta il contenuto dell'atto di adesione nel ricorso, nonché delle deposizioni dei testi, in particolare citando anche la giurisprudenza di legittimità vedi sentenza della cassazione numero 5640/2011 numero 17706/2013 numero 7615 del 2014 secondo cui il giudice penale non può prescindere dalla pretesa dell'amministrazione che fissa il limite della soglia di punibilità. Soprattutto si imputa al giudice che si è discostato da tale ultima valutazione, di non aver indicato l'imposta evasa e si fa notare che i ratei iscritti in contabilità nell'anno 2005 come componenti positivi erano stati, di fatto, assoggettati a tassazione, come confermato dal teste G. . Ed anche si denuncia la mancata risposta al motivo d'appello con il quale era stato dedotto che l'articolo 84 del d.p.r. numero 917/1986 consente il riporto delle perdite da utilizzare ai fini Ires in diminuzione dell'eventuale reddito tassabile ciò con riferimento alla voce rappresentata dai ratei in questione che, non essendo stati incassati, rappresentavano delle perdite nel senso detto. In secondo luogo la difesa torna ad eccepire la mancata acquisizione del modello unico 2006 e di quello del 2009 la cui presentazione rappresenta il momento consumativo del reato, oltre che l'indicatore della responsabilità personale. In terzo luogo sostiene la difesa che, poiché l'artificiosa condotta viene fatta risalire ad una iscrizione nella dichiarazione del 2005, è a tale data che deve farsi risalire il momento consumativo del reato ai fini della prescrizione 2 il vizio della motivazione sul dolo specifico dello stesso reato. Si trattava di una questione dedotta nell'appello e non risolta dalla Corte se non con riferimento al vantaggio fiscale perseguito. Ed invece si sarebbe dovuto considerare che nessun intento di evasione poteva essere perseguito introducendo in contabilità una voce di componente attivo peraltro futuro e incerto che è di per sé tassabile. Comportarsi al contrario e cioè non inserire quelle componenti avrebbe comportato, per l'amministratore, l'emersione di un bilancio in perdita e la messa in liquidazione della società 3 con riferimento al capo 1 si denuncia la mancata acquisizione dei modelli F 24 di cui al capo di imputazione e tale omissione si riverberava sull'accertamento di chi fosse l'autore della compilazione. La difesa fa notare che la condotta di cui al capo 1 a si è comunque consumata nell'agosto del 2007, ciò che comporta l'ormai maturata prescrizione. Torna a denunciare il vizio di motivazione in ordine alla prova della falsità del credito di Iva, prova desunta dal lavoro della Guardia di Finanza svolto su base meramente presuntiva. Rileva l'insufficienza delle deposizioni di B. e P. che riporta integralmente nel ricorso, ponendo in evidenza come gli stessi avessero attestato di non avere effettuato alcuna verifica contabile a carico della società. Inoltre la difesa contesta l'affermazione della Corte d'appello secondo cui il ricorrente avrebbe omesso volutamente di produrre la documentazione contabile capace di attestare gli acquisti che avevano determinato il credito di Iva, essendo quella documentazione in suo possesso dal maggio del 2012. In realtà, era vero il contrario dal momento che la prova il testo di una e-mail valorizzata dalla Corte d'appello indicava, piuttosto, che alla data del 22 maggio non tutta la documentazione contabile era stata restituita dal consulente del pubblico ministero che ne aveva disposto il sequestro, essendolo stato solo i libri inventari e il libro verbali assemblee 4 con riferimento al capo 1C difesa fa notare che la quantificazione dell'imposta evasa per effetto della compensazione con credito di Iva inesistente pari a complessivi Euro 1.220.000 non tiene conto del fatto che nella comunicazione Iva relativa 2004, ritenuta veritiera, erano indicate operazioni attive imponibili per Euro 620.280 che dovevano essere detratte dal totale delle operazioni ritenute inesistenti per un totale di Euro 6.100.000 e che dovevano comunque essere considerate. Ne derivava che le operazioni inesistenti che avevano generato il credito di fittizio non erano Euro 6.100.000 ma 5.835.373, capaci di generare un credito Iva asseritamente fittizio inferiore di Euro 52.000 rispetto a quello contestato. Secondo il ragionamento del difensore, considerato che il credito di fittizio era già stato utilizzato per altre compensazioni negli anni successivi al 2005, ne derivava che, nel 2009, l'ammontare del credito Iva inesistente era inferiore alla soglia di Euro 50.000 indicato dal legislatore della rilevanza penale della condotta 5 la mancata assunzione di prova decisiva. La difesa lamenta la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale con riferimento alla nota di addebito rilasciata da GeTeCa spa il 10 novembre 2004 in favore di Tessitura Rovereto srl. Sostiene il difensore essere stato violato l'articolo 603 secondo e terzo comma cpp perché la prova in questione, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, doveva ritenersi sopravvenuta rispetto al giudizio di primo grado come sopra illustrato e soggiaceva alla regola di ammissibilità di cui all'articolo 495 comma primo cpp. Si trattava comunque di prova decisiva perché dimostrativa di acquisti effettuati dalla società del ricorrente, con generazione di un credito di Iva per la società stessa, a nulla rilevando quale fosse il regime formale fiscale previsto nel caso della alienazione di beni aziendali. D'altra parte si trattava comunque di acquisizioni di beni soggetti ad Iva come previsto per il caso di cessione dei singoli beni aziendali, sicché la affermazione della Corte d'appello del non essere qui beni soggetti ad Iva non pare così scontata 6 il vizio della motivazione sull'elemento soggettivo dolo generico del reato di indebita compensazione capo 1 e sull'identificazione del suo responsabile. Sostiene la difesa che il teste S. aveva affermato che il ricorrente si era limitato a trasmettere la dichiarazione predisposta dal contabile interno della società. L'esatta valorizzazione delle emergenze probatorie comporterebbe la riqualificazione del reato ai sensi dell'articolo 4, riferibile al ricorrente soltanto in relazione all'invio della dichiarazione Iva del 2005, con conseguente declaratoria di prescrizione. Ma anche con riferimento alla contestazione come formulata ai sensi dell'articolo 10 quater, il difensore lamenta come la condotta non sia stata considerata meramente negligente e imprudente per avere fatto affidamento, il ricorrente, sull'elaborazione effettuata da altro professionista, tanto più che il credito di asseritamente inesistente è stato posto in compensazione con ogni tipo di imposta non riconducibile alla parte immobiliare rimasta alla nuova compagine di cui V. era ed è consulente 7 il vizio di motivazione con riferimento alla qualificazione del ricorrente come amministratore di fatto. Ad illustrazione del motivo, il difensore riporta il motivo d'appello nel quale aveva incluso le dichiarazioni testimoniali rilevanti 8 l'inosservanza dell'articolo 13 del decreto legislativo numero 74 del 2000 che prevede la non applicazione delle pene accessorie nel caso in cui debiti tributari siano stati tempestivamente estinti mediante pagamento, evenienza verificatasi nel caso di specie in cui gli importi pretesi dall'agenzia delle entrate sono stati quantificati in zero Euro. In data 9 luglio 2015 è stata depositata una memoria nella quale si richiede la declaratoria di estinzione per il reato di cui al capo 1 a, maturata nel giugno 2015 anche in considerazione delle cause di sospensione e si rappresenta, altresì, la particolare tenuità del fatto con riferimento alle altre fattispecie, ipotesi da dichiarare ai sensi dell'articolo 131 bis del codice penale introdotto con decreto legislativo numero 28 del 2015. Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno. Il primo ed il secondo motivo sono fondati. Occorre, invero, preliminarmente rilevare che è manifestamente infondata richiesta difensiva di declaratoria di prescrizione del reato in essi considerato capo 2 il quale è contestato con riferimento alla presentazione della dichiarazione annuale IRES avvenuta il 29 settembre 2009 e contenente l'omessa indicazione di elementi positivi di reddito con superamento delle soglie di legge. Non rileva, infatti, direttamente la circostanza che la precostituzione del componente capace di abbattere il debito fosse avvenuta a partire da una precedente dichiarazione del 2005, dal momento che è alla defalcazione di quel componente attivo, materializzata nella dichiarazione del 2009, che va riferita la condotta ritenuta capace di produrre il risultato penalmente rilevante di cui ci si occupa. Appare invece fondata la denuncia del vizio di motivazione in ordine allo scostamento del giudice penale rispetto al concordato con l'amministrazione finanziaria. È da condividere appieno il principio riportato dal ricorrente secondo cui il giudice penale non è vincolato all'imposta accertata in sede tributaria ma, per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall'accertamento con adesione o dal concordato fiscale e per tenere conto, invece, dell'iniziale pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall'articolo 4 citato, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l'iniziale quantificazione dell'imposta dovuta. La Corte d'appello ha rilevato che la scelta di inserire indebitamente i ratei attivi nella formazione dell'imponibile per l'anno 2005 non era stata neutra e neppure in buona fede ma aveva avuto come presupposto un indebito abbattimento dell'imponibile per l'anno 2005 mediante una serie di anomalie diverse ed ulteriori sopradescritte con la conseguenza che i reati attivi medesimi risultavano neutralizzati fiscalmente e non avevano comportato, all'epoca, essendo imputati ad annualità in perdita, alcuna imposizione fiscale. Il passaggio elusivo successivo sarebbe stato quello di portare quei ratei come voce passiva nel 2008 adducendo una mancata quanto reale – riscossione dell'indennizzo così utilizzandoli per abbattere la plusvalenza derivante dalla vendita immobiliare. Il giudice dell'appello ha qualificato tale condotta come un gioco di prestigio fiscale, marcatamente doloso dal momento che la dichiarazione in negativo di quegli importi nella dichiarazione 2009 risultava ancor più ingiustificata del loro originario inserimento posto che un'autorità giudiziaria aveva, con propria pronuncia, dichiarato l'indennizzabilità dell'incendio. In altri termini la Corte d'appello, nel dare atto che l'accertamento dell'agenzia di Rovereto aveva fatto emergere la fraudolenza dello stato passivo dichiarato per il 2004 e quindi aveva determinato la tassabilità dell'attivo compresi i ratei appostati , ha sottolineato le manovre elusive poste in essere sin dal 2005 e confermate nel 2009 ed ha evidenziato che il concordato con l'agenzia delle entrate di Trento, sopravvenuta nel 2013, aveva spiegato che la plusvalenza non era stata tassata non perché non avrebbe dovuto esserlo ma perché io era già stata, erroneamente, da parte dell'agenzia delle entrate di Rovereto. La manifesta illogicità della conclusione del giudice del merito sta tuttavia proprio in ciò e cioè nel non attribuire il necessario rilievo al fatto che l'indicazione come voce passiva nella dichiarazione 2009 della mancata riscossione dei ratei per il risarcimento del danno da incendio, era stata seguita da un accertamento fiscale dell'agenzia delle entrate di Trento che dopo l'accertamento dell'Ufficio di Rovereto del 2008 aveva dato atto della circostanza che quei ratei avevano comunque comportato una già avvenuta tassazione indebita perché praticata su una voce attiva che non avrebbe dovuto essere riportata nella contabilità per tutte le ragioni esposte dalla Corte d'appello sicché la conclusione dell'agenzia delle entrate di Trento, che aveva rilevato per l'anno di imposta 2008 una assenza di Ires da versare, nonostante la già apprezzata plusvalenza da vendita dell'immobile, avrebbe dovuto essere considerata più approfonditamente nelle sue opzioni di merito e conclusive. Il giudice penale, se è vero che non è vincolato all'accertamento del giudice tributario, non può prescindere dalla pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria così Sez. 3, numero 5640 del 2/12/2011 dep. 14/02/2012, Manco, Rv. 251892 . Una simile situazione avrebbe poi dovuto essere particolarmente valorizzata ai fini della delineazione dell'elemento psicologico del reato in contestazione, motivato sulla base di una condotta ritenuta intrinsecamente capace di esprimere l'atteggiamento doloso del suo responsabile. In ragione di tali considerazioni, il motivo sub 8 resta assorbito. Inammissibili sono invece gli altri motivi concernenti le due fattispecie contestate al capo 1. Invero i motivi in questione sono in parte manifestamente infondati e per altra parte versati in fatto. Ne discende che anche la richiesta di prescrizione del reato in questione non può trovare accoglimento dal momento che, relativamente al capo della sentenza avente ad oggetto l'affermazione di responsabilità per tale reato, con riferimento in particolare alla fattispecie di cui al capo 1A, il carattere inammissibile dei motivi di impugnazione comporta la non apertura del rapporto processuale dinanzi a questa Corte e quindi la impossibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello. L'autonomia della statuizione di inammissibilità del ricorso per cassazione in relazione ad un capo di imputazione impedisce la declaratoria di estinzione per prescrizione del reato con esso contestato, pur in presenza di motivi ammissibili con riferimento agli altri addebiti Sez. 5, Sentenza numero 15599 del 19/11/2014 Ud. dep. 15/04/2015 Rv. 263119 . Invero, secondo gli stessi calcoli rappresentati dal difensore nella memoria depositata il 9 luglio 2015, il reato in questione si sarebbe prescritto nel giugno del 2015. Ebbene, la rilevata manifesta infondatezza concerne in primo luogo la critica riservata alla valutazione, operate in sentenza delle testimonianze di B. e P. deposizioni che i giudici dell'appello hanno valutato con motivazione congrua e non suscettibile di ulteriore sindacato in sede di legittimità. Del tutto irrilevante si manifesta l'osservazione difensiva circa il fatto che i predetti appartenenti alla Guardia di Finanza non avrebbero svolto la verifica contabile a carico della società ed infatti la Corte d'appello ha spiegato, con motivazione logica ed esaustiva, le ragioni per le quali la documentazione della società comunque valutata per giungere alla conclusione dell'inesistenza del credito Iva adoperato per compensazioni, presentava contraddizioni oggettive non spiegabili se non con l'interpretazione accreditata dall'accusa. La Corte ha anche motivato in ordine alla non rilevanza di eventuale altra documentazione contabile che la difesa avrebbe voluto introdurre per la prima volta in appello, valorizzando il dato della tardività dell'iniziativa difensiva la quale ben avrebbe potuto essere svolta prima della conclusione del giudizio di primo grado avvenuta l'11 febbraio 2014 e cioè a distanza di più di un anno dal momento in cui la documentazione contabile evocata dalla difesa avrebbe potuto essere utilmente prodotta. Ancora la Corte d'appello, nel confermare il carattere non indispensabile della acquisizione documentale, ha congruamente valorizzato il fatto che l'imputato, nell'esame del dibattimentale, non aveva comunque fatto il minimo accenno all'esistenza di quella documentazione e nulla aveva neppure obiettato sulla ricostruita fittizietà del credito Iva e sulla riferibilità al proprio studio delle compensazioni per cui è processo, limitandosi ad asserire di avere ereditato il credito Iva dalla precedente gestione senza avere ragione di dubitare della sua veridicità. Alla luce di tali considerazioni, risulta razionalmente argomentata anche la scelta di non dovere acquisire i vari modelli essere 24 con i quali vennero operate le indebite compensazioni essendo state acquisite invece le stampate della banca dati dell'anagrafe tributaria, fonte ufficiale e pienamente affidabile, ed essendo comunque non contestato nel giudizio di appello che quelle fossero state effettuate dallo studio del ricorrente. Ancora, la Corte d'appello, quanto alla riferibilità della condotta all'imputato, ha correttamente valorizzato la circostanza che, così come appariva oggettivamente non contestabile che il modello unico relativo alla società, presentato il 29 giugno 2005,contenente per la prima volta la menzione del credito di IVA ritenuto fittizio, fosse riferibile all'imputato che si era qualificato in esso come materiale redattore, una serie di altre circostanze ne dimostravano la compromissione anche in tutta la attività contestata come l'avere partecipato quale segretario alla assemblea di approvazione del bilancio del 2005 che escludeva l'effettività del credito Iva poi invece utilizzato per compensazione dallo studio professionale da esso diretto e deputato alla cura della contabilità societaria. Va anche considerato che la qualità di amministratore di fatto è stata ampiamente illustrata dalla Corte d'appello nel rispetto degli indici utili a tal fine ed in particolare ricordando le testimonianze di coloro che avevano potuto descrivere la spendita dei poteri di gestione nonché le affermazioni di Z. in ordine alla obiettiva circostanza che l'operazione immobiliare più volte ricordata fu condotta in prima persona anche del ricorrente il quale era personalmente interessato alle questioni propriamente gestionali e finanziarie della Tessitura Rovereto le cui quote sociali, come acclarato anche dagli agenti accertatori, erano detenute per il 90% da una società che faceva capo al ricorrente. Manifestamente infondato e il quarto motivo di ricorso nel quale sono illustrate circostanze di fatto che risultano per la prima volta sottoposte, pertanto inammissibilmente, al giudice della legittimità. Del tutto irricevibile e infine la richiesta del riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall'articolo 131 bis CP dal momento che non ricorre certamente nel caso di specie l'ipotesi della esiguità del danno tenuto conto dell'entità assolutamente rilevante dell'imposta evasa, per giunta con condotta reiterata dovendosi considerare che, oltre alle due fattispecie in esame, anche per l'ulteriore reato di cui al capo tre la condotta contestata è soltanto rimasta estinta per prescrizione. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni circa il capo 2 di imputazione con rinvio alla Corte di appello di Trento per nuovo esame. Sul punto. Rigetta nel resto il ricorso.