L’impossibilità del transgender di modificare il nome prima della rettifica del sesso viola la sua privacy

Il rifiuto opposto, per un periodo di oltre 2 anni, ad un transgender che chiedeva di mutare il proprio nome maschile in quello femminile, in corrispondenza alla sua identità anche social, adottata da molti anni, prima della rettifica chirurgica del sesso, è una violazione dell’articolo 8 Cedu. L’Italia, infatti, è venuta meno ai doveri di tutela della privacy, mettendolo in una situazione anomala che gli ha ispirato sentimenti di vulnerabilità, umiliazione ed ansia.

È quanto deciso dalla CEDU sez. I nel caso S.V. c. Italia 55216/08 . Il caso. Il ricorrente è un transgender che ha sempre mostrato in pubblico, sul lavoro e nelle fotografie della carta d’identità la sua identità femminile, facendosi chiamare con un nome di donna, in corrispondenza alla sua identità sessuale. Nel 1999 fu autorizzato il suo iter per la rettifica del sesso dal Tribunale di Roma e nel 2001, perciò, in attesa dell’operazione chirurgica, chiese la modifica formale del suo nome, compatibilmente con la sua vera identità sessuale visto che l’indicazione del nome maschile sulla carta d’identità inspirava in lui sentimenti d’imbarazzo ed umiliazione permanenti. La modifica gli fu rifiutata sino al 10/10/03 quando una nuova sentenza attestò l’avvenuto mutamento del sesso. Vietato subordinare il cambio del nome alla rettifica chirurgica del sesso. La l. numero 164/1982 imponeva che tale rettifica fosse soggetta a due sentenze passate in giudicato una per autorizzare l’iter per il mutamento del sesso ed un’altra per ottenere la rettifica dello stesso che, contestualmente, autorizzava il Comune a modificare l’indicazione del genere sul certificato di nascita. Il d.P.R. numero 396/00 impone che il nome dato ad un neonato sia corrispondente al suo sesso alla nascita anche se consente a chiunque, in base a criteri precisi, di chiedere una modifica. L’articolo 31, comma 4, d.lgs. numero 150/2011 ha eliminato la necessità della seconda sentenza il giudice che autorizza il mutamento del sesso ordina anche la rettifica del nome, con sentenza passata in giudicato, nei pubblici registri. La nostra prassi ha riconosciuto la possibilità di procedere al mutamento del nome, onde evitare sofferenze e problemi d’integrazione sociale all’interessato, a prescindere dall’operazione chirurgica di rettifica del sesso, sempre che si sia in presenza di un trattamento psicologico e/o medico App. Roma 8/99, Cass. civ. numero 15238/15 e Corte Cost. 221/15 . Ciò è conforme a quanto stabilito dalla relazione al Consiglio per i diritti umani dell’ONU del 17 novembre 2011, dalla Raccomandazione del Consiglio dei Ministri del COE numero 5/10, che auspica la possibilità di mutare il nome «in modo rapido, trasparente ed accessibile» e dalla Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del COE numero 1728/10 gli Stati dovrebbero adottare misure alternative per il riconoscimento delle vera identità di una persona senza dovergli imporre un’operazione di sterilizzazione. Questa imposizione è discriminatoria e lo Stato deve astenersi da illecite interferenze EU C 2018 492, A.P., GarÇ on e Nicot c. Francia ed Hamalainen c. Finlandia [GC] e EU C 2018 492 nei quotidiani del 26/6/18, 6/4/17 e 17/7/14 , tanto più che nelle problematiche attinenti agli aspetti più intimi di una persona, quali la privacy e l’identità sessuale, il suo margine di apprezzamento è sensibilmente ridotto. Diritto al riconoscimento del nome corrispondente all’identità sessuale. La CEDU rileva che da un lato è lecito che l’Italia imponga procedure rigorose per verificare le motivazioni profonde di una richiesta legale di mutamento del sesso, dato che ciò rientra nella tutela d’interessi pubblici quali la salvaguardia del principio dell'indisponibilità dello status delle persone, la garanzia dell'affidabilità e della coerenza dello stato civile e la certezza del diritto, dall’altro, però, ciò non può impedire, in presenza di una sentenza nel nostro caso del 2001 che autorizzava tale rettifica, di mutare il nome sui documenti. Infatti tale modifica è stata impedita al ricorrente per oltre due anni e mezzo sulla base di meri formalismi e senza tener conto che da tempo egli aveva adottato l’aspetto e l’identità sociale di una donna con le suddette conseguenze. Infine la Corte, dando atto della riforma del 2011 oltre che della citata prassi interna ribadisce come ogni Stato debba adottare misure per evitare le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale o l’identità di genere, attuando i suddetti fini prefissi dalla Raccomandazione 5/10.

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