Il reato di appropriazione indebita si verifica nel momento in cui il detentore attua, sul bene di proprietà altrui, atti di disposizione uti dominus e, quindi, con l’intenzione di convertire il possesso in proprietà. E' necessario, perciò, valutare i singoli elementi fattuali, al fine di verificare se quei singoli fatti costituiscano o meno indici di un comportamento uti dominus.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza numero 12740, depositata il 18 marzo 2014. Il caso. Il Tribunale del Riesame di Roma accoglieva l’appello proposto dal P.M. e disponeva il sequestro preventivo di un’azienda detenuta da un uomo, indagato per il reato di appropriazione indebita della stessa azienda. La premessa. L’imputato ricorreva in Cassazione, deducendo la violazione dell’articolo 646 c.p., che disciplina il reato di appropriazione indebita. L’uomo aveva stipulato con il legale rappresentante dell’azienda un preliminare di affitto di azienda. Dopo aver versato un acconto, grazie ad una scrittura privata redatta dopo il preliminare, aveva ottenuto la detenzione precaria dell’azienda, fino alla stipula del contratto finale. In seguito, tra le parti era sorto un contenzioso civile, per effetto del quale la società aveva chiesto la risoluzione del contratto e la restituzione dell’azienda, ma il ricorrente aveva rifiutato, continuando a rimanervi, se pure a mero titolo detentivo. Il ricorrente sosteneva, quindi, che, nel caso di specie, non fosse configurabile il reato di appropriazione indebita, perché egli non aveva affatto immutato il titolo della detenzione in possesso uti domini, e che la ritenzione dell’azienda fosse, al massimo, un mero inadempimento di natura civilistica. Analizzando la domanda, la Cassazione ripercorreva il percorso logico seguito dal Tribunale, che desumeva l’utilizzazione uti dominus dell’azienda dalla circostanza che in più occasioni la società aveva diffidato il ricorrente a restituire l’azienda, in ragione dell’intervenuta risoluzione contrattuale, e dal fatto che la controparte, per quanto detentore qualificato, aveva continuato a gestire l’attività commerciale senza titolo acquisendo i profitti, assumento personale, utilizzando una ragione sociale non propria . In più, l’imputato aveva presentato una domanda finalizzata all’occupazione di suolo pubblico, avvalendosi di una firma falsa del rappresentante legale della società. L’elemento soggettivo. Secondo i giudici di legittimità, l’appropriazione indebita si verifica nel momento in cui il detentore attua, sul bene di proprietà altrui, atti di disposizione uti dominus e, quindi, con l’intenzione di convertire il possesso in proprietà. Occorreva, quindi, valutare i singoli elementi fattuali, al fine di verificare se quei singoli fatti costituissero o no indici di un comportamento uti dominus. Il Tribunale rispondeva affermativamente, in base alla ritenzione dell’azienda nonostante la diffida e alla domanda di concessione per occupazione di suolo pubblico sottoscritta con firma falsa del legale rappresentante. C’era un contratto. Tuttavia, l’imputato si trovava nella legittima detenzione dell’azienda perché era stata la stessa società a concedergliela, per cui, proprio in base alla pattuizione intervenuta tra le parti, era normale che egli ne acquisisse i profitti, provvedesse all’assunzione di personale ed utilizzasse una ragione non propria. È inadempimento, non reato. L’imputato aveva pagato solo l’acconto, senza saldare il resto, ma anche la semplice ritenzione del bene, quando nasca da una lite civile, in cui ogni contendente fa valere le proprie ragioni nei confronti dell’altro, non costituisce, da solo, un indice sicuro del comportamento uti dominus, potendo, al massimo, costituire un mero inadempimento, sanzionabile a livello civile. Paradossale, ma vero. Anche la domanda di concessione è un atto che non indica la volontà di comportarsi come uti dominus, ma solo di poter occupare il suolo pubblico. In più, paradossalmente, aver sentito la necessità di falsificare la firma del rappresentante legale indicava che l’imputato fosse consapevole che solo il legittimo proprietario, e non lui, in quanto semplice detentore, potesse essere legittimato a chiedere ed ottenere la concessione. Non essendo, perciò, configurabile il fumus del delitto di appropriazione indebita, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 26 febbraio – 18 marzo 2014, numero 12740 Presidente Gallo – Relatore Rago Fatto e diritto 1. Con ordinanza del 24/10/2013, il Tribunale del Riesame di Roma, in accoglimento dell'appello proposto dal Pubblico Ministero avverso il decreto con il quale, in data 17/09/2013, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città, aveva rigettato l'istanza di sequestro preventivo dell'azienda Gegia s.r.l. detenuta da L.L. indagato per il reato di appropriazione indebita della suddetta azienda, ne dispose il sequestro preventivo. 2. Avverso la suddetta ordinanza, L.L. , a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo VIOLAZIONE DELL'articolo 646 COD. PEN Il ricorrente, ha premesso, in punto di fatto, che aveva stipulato con il legale rappresentante della Gegia s.r.l. un preliminare di affitto di azienda per la somma di Euro 1.000.000,00 di cui aveva versato un acconto di Euro 275.000,00 in forza del suddetto contratto, aveva ottenuto la detenzione precaria dell'azienda sulla base dell'articolo 2 di una scrittura privata redatta dopo il preliminare a norma del quale “al fine di consentire al L. di riattare l'azienda e di avviarne l'attività in via provvisoria, in data odierna e sino alla stipula del contratto di affitto di azienda, la società Gegia gli concede la detenzione precaria dell'azienda e la facoltà, si ribadisce, provvisoria di utilizzare la partita Iva di essa soc. Gegia assumendosene, tuttavia, il signumero L. ogni onere anche fiscale e responsabilità verso terzi, enti, Pubblica Amministrazione e fornitori anche sotto il profilo sanzionatorio, mallevando sin d'ora la soc. gegia da qualsiasi responsabilità e pretesa di terzi anche di natura sanzionatoria e tributaria”. Successivamente, fra le parti, era insorto un contenzioso civile per effetto del quale, da una parte, la Gegia s.r.l. aveva chiesto la risoluzione del contratto e la restituzione dell'azienda, la quale cosa, però, il ricorrente aveva rifiutato continuando a rimanervi, se pure a mero titolo detentivo. Alla stregua dei suddetti fatti, il ricorrente sostiene, quindi, che, nel caso di specie, non era configurabile il reato di appropriazione indebita perché egli non aveva affatto immutato il titolo della detenzione in possesso uti domini e che la ritenzione dell'azienda poteva al più essere ritenuta come un mero inadempimento di natura civilistica, così come ritenuto, d'altra parte, sia dal giudice per le indagini preliminari in sede penale, sia dallo stesso Tribunale che, in sede civile, aveva respinto una richiesta della Gegia s.r.l. di ottenere il sequestro conservativo dell'azienda, rilevando, appunto, che non risultava essere stata evidenziata alcuna situazione possessoria tutelabile né alcuna lesione possessoria passibile di repressione giudiziale con le apposite tutele reientegratorie o manutentiva. 3. Il ricorso è fondato. I fatti esposti dal ricorrente sono assolutamente pacifici come da atto lo stesso tribunale nell'ordinanza impugnata. Il tribunale, ha giustificato la decisione, invocando, innanzitutto, la sentenza numero 13347/2011 Rv. 250026 con la quale questa Corte di legittimità, in un'ipotesi di ritenzione di un autoveicolo, utilizzato uti dominus nonostante la risoluzione del contratto di leasing e la richiesta di restituzione del bene, ha statuito che “integra il reato di appropriazione indebita la condotta consistente nella mera interversione del possesso, che sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all'esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare”. In punto di fatto, il tribunale, ha desunto l'interversione dell’animus possidenti e, quindi, l'utilizzazione uti dominus dell'azienda, dalla circostanza che “la società Gegia s.r.l. ha più volte diffidato l'odierno indagato a restituire l'azienda - in ragione dell'intervenuta risoluzione contrattuale - evidenziando come la controparte, per quanto detentore qualificato, avesse continuato a gestire l'attività commerciale senza titolo, acquisendone i profitti, provvedendo all'assunzione di personale, ed utilizzando una ragione sociale non propria [ .]”. Inoltre, il tribunale ha evidenziato, come ulteriore e decisivo argomento la circostanza che il L. aveva presentato una domanda finalizzata ad acquisire la concessione in subentro per occupazione di suolo pubblico avvalendosi di una sottoscrizione falsa del legale rappresentante della Gegia s.r.l In punto di diritto, il consolidato ed indiscusso principio che da sempre è affermato in giurisprudenza è che l'appropriazione indebita si verifica nel momento in cui il detentore attua la c.d. interversione del possesso che consiste nell'attuare sul bene di proprietà altrui atti di disposizione uti dominus e, quindi, nell'intenzione di convertire il possesso in proprietà. È proprio alla stregua del suddetto principio di diritto, quindi, che tutte le fattispecie esaminate, si risolvono, alla fin fine, in una disamina e valutazione dei singoli elementi fattuali al fine di verificare se quei singoli fatti costituiscano o no indice dell'interversione del possesso. E così, anche nella sentenza invocata dal tribunale, questa Corte non ha affatto affermato un principio di diritto differente da quello usuale, essendosi limitata a rilevare che, in quella concreta fattispecie, il comportamento del detentore doveva essere ritenuto indice di un comportamento uti dominus in tal senso, peraltro, aveva già concluso Cass. 38604/2007 Rv. 238163. Il punto nodale della questione, quindi, nella fattispecie in esame, non è quale principio di diritto applicare, ma stabilire se, nel comportamento del ricorrente sia ravvisabile o no un comportamento uti dominus. Sotto questo profilo, come si è detto, il tribunale ha ritenuto di dare una risposta affermativa al quesito, stigmatizzando due fatti a la ritenzione dell'azienda, nonostante la diffida dell'avente causa b la domanda di concessione in subentro per occupazione di suolo pubblico sottoscritta falsamente dal legale rappresentante della Gegia s.r.l Sennonché, quanto alla prima circostanza, deve rilevarsi che, come ha anche riconosciuto il tribunale civile di Roma investito della medesima questione in sede cautelare, il L. si trova nella legittima detenzione dell'azienda perché fu proprio la Gegia s.r.l. a concedergliela, sicché, proprio in base alla pattuizione fra le parti intervenuta, è del tutto ovvio e normale che il L. ne acquisisca i profitti, provveda all'assunzione di personale, ed utilizzi una ragione sociale non propria. Resta, indubbiamente, la circostanza che il L. , pur avendo pagato un ingente acconto, non ha pagato la restante parte pattuita. Ma, sotto tale profilo, deve osservarsi che, anche la semplice ritenzione del bene, quando origini da una lite civile in cui ognuno dei contendenti fa valere le proprie ragioni nei confronti dell'altro, non costituisce, di per sé, un indice sicuro della volontà di intervertire il possesso e cioè un comportamento uti dominus, potendo, al più, essere qualificato come un mero inadempimento come tale solo civilisticamente sanzionabile in terminis Cass. 29/1965 Rv. 099419 Cass. 9410/1981 Rv. 150663 L'omessa restituzione della cosa non realizza l'ipotesi del reato di cui all'articolo 646 cod. penumero se non quando si ricollega oggettivamente ad un atto di disposizione uti dominus, e soggettivamente alla intenzione di convertire il possesso in proprietà Cass. 10774/2002 Rv. 221522 Cass. 17295/2011 Rv. 250100. Di poco momento, infine, è la domanda di concessione in quanto si tratta di un atto che non indica la volontà di comportarsi come uti dominus ma solo di ottenere, dall'autorità amministrativa, una concessione di occupazione di suolo pubblico al fine di potere meglio sfruttare le potenzialità dell'azienda paradossalmente, la circostanza che il L. , per ottenerla, abbia sentito la necessità di falsificare la firma del legale rappresentante della Gegia s.r.l., indica che egli era ben consapevole che solo il legittimo proprietario e non lui quale semplice detentore, poteva essere legittimato a chiedere ed ottenere la suddetta concessione. In conclusione, non essendo configurabile, nella fattispecie in esame, il fumus del contestato delitto di appropriazione indebita, l'ordinanza dev'essere annullata senza rinvio con conseguente ordine di restituzione dei beni sequestrati al ricorrente. P.Q.M. ANNULLA senza rinvio l'ordinanza impugnata perché il fatto non sussiste ed ordina la restituzione dei beni sequestrati al ricorrente L.L. .