Il mandatario deve utilizzare il denaro ricevuto nell’interesse del mandante

In tema di appropriazione indebita, commette tale delitto il mandatario che, violando le disposizioni impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto per l’adempimento del suddetto mandato e lo utilizzi per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante.

Lo ha stabilito la Seconda sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46256, depositata il 19 novembre 2013. Possesso e detenzione nell’appropriazione indebita. Secondo il prevalente orientamento della dottrina, il possesso nel diritto penale è un potere di fatto sulla cosa esercitato autonomamente, cioè fuori della sfera di vigilanza diretta di chi abbia, sulla cosa stessa, un potere maggiore. Sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato, esso consiste nella coscienza e volontà, in capo al possessore, della relazione materiale con la cosa, e dunque con la volontà di tenerla presso di sè c.d. animus rem sibi habendi , altrimenti sarebbe possessore anche chi non sa di avere il bene con sè. Su altro versante si pone l’istituto della detenzione, il quale ricorre nei soli casi di potere di fatto esercitato sotto la sfera giuridica di sorveglianza di chi abbia su di essa potere maggiore. Il delitto di appropriazione indebita si consuma al momento dell'interversione dell' animus possidendi in capo a colui cui la cosa è stata affidata, ossia nel momento nel quale egli matura la convinzione di volerla trattenere per sè. Ne consegue che è del tutto irrilevante, ai fini della configurazione del delitto consumato, la circostanza che, in un tempo successivo, il reo perda la materiale o giuridica disponibilità del bene, e non possa più provvedere alla sua consegna all'avente diritto. Ed anzi, nel caso di mandato ad alienare, deve ritenersi sussistente la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p., in quanto il mandato a vendere una cosa mobile fa nascere un rapporto di prestazione d'opera fra le parti, e il mandatario che si appropria del bene affidatogli approfitta della particolare fiducia in lui riposta dal mandante per appropriarsi con maggiore facilità. Il vincolo di mandato In generale occorre rammentare sul piano civilistico che, ai sensi degli artt. 1705 e 1706 c.c., il mandato senza rappresentanza ha un'efficacia reale, oltre che obbligatoria, tanto che il mandante può agire come proprietario delle cose mobili acquistate per suo conto sia nei confronti del terzo che dello stesso mandatario. Ne consegue che il bene oggetto del contratto si considera come acquisito fin dal momento dell'esecuzione del mandato al suo patrimonio. Con riguardo al caso specifico del mandato ad alienare, è ravvisabile un contratto in cui l’effetto traslativo dei beni, derivante dal consenso manifestato dalle parti art. 1376 c.c. , non si verifica immediatamente, essendo sospensivamente condizionato al compimento dell’alienazione gestoria del bene da parte del mandatario, il quale, pertanto, in base alle regole del mandato senza rappresentanza, ha il potere di trasferire validamente il bene, che forma oggetto del contratto, al terzo, in nome proprio e per conto del committente, senza necessità di disvelare l’esistenza del mandato, né di dar luogo ad alcun negozio di ritrasferimento del bene medesimo. Secondo altro orientamento giurisprudenziale, il mandato ad alienare senza rappresentanza non è ammissibile, in modo particolare per i beni immobili e mobili registrati ne consegue che la vendita, in caso di mancata spendita del nome del mandante, non comporta altro effetto che quello di obbligare il mandatario a procurare all’acquirente la intestazione del bene Cass. n. 8393/2003 . e la casistica giurisprudenziale. La sentenza in commento affronta il problema della responsabilità penale del mandatario nella specie, avvocato per appropriazione indebita di denaro, perpetrata mediante la destinazione della somma ricevuta per usi diversi da quelli previsti dal mandante. In generale, sul piano civilistico, la responsabilità del professionista, per danni causati nell’esercizio della sua attività, postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello di diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura della attività. In rapporto alla professione di avvocato, deve considerarsi responsabile verso il suo cliente il professionista, in caso di incuria e di ignoranza di disposizioni di legge e in genere nei casi in cui, per negligenza od imperizia, compromette il buon esito del giudizio, dovendosi invece ritenere esclusa detta responsabilità, a meno di dolo o colpa grave, solo nel caso di interpretazioni di leggi o di risoluzione di questioni opinabili. Con riferimento al caso di un mandato a vendere, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, in violazione del mandato ricevuto, trattenga per sé definitivamente le cose affidategli per la vendita Cass. n. 11570/2012 , o trattenga definitivamente la somma ricavata dalla vendita invece di rimetterla al mandante Cass. n. 46586/2011 . Sempre in tema di appropriazione indebita commessa dal mandatario, si è ritenuto sussistere la responsabilità penale del prevenuto che, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, si appropri dell'assegno bancario tratto dall'intestataria presso un istituto di credito, consegnandolo in pagamento al proprio creditore, pur avendo ricevuto l'assegno con lo specifico mandato di provvedere alla sua negoziazione e di restituire l'importo in contanti.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 17 ottobre - 19 novembre 2013, n. 46256 Presidente Prestipino – Relatore Rago Fatto 1. Con sentenza del 05/03/2012, la Corte di Appello di Roma confermava la sentenza pronunciata in data 18/03/2010 dal Tribunale della medesima città nella parte in cui aveva ritenuto D.P. colpevole dei reati di truffa aggravata capo sub a e appropriazione indebita capo sub b ai danni dei rappresentanti della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza e Favore di Ragionieri e Periti Commerciali. 2. Avverso la suddetta sentenza, l'imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi 2.1. violazione degli ARTT. 521-522 cod. proc. pen. il ricorrente, in ordine al capo sub a , ha dedotto la nullità della sentenza per essere stato condannato per un fatto diverso da quello descritto nel capo d'imputazione. Infatti, nonostante, lo stesso Tribunale avesse escluso la sussistenza di artifizi e raggiri ai danni degli organi della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza e Favore di Ragionieri e Periti Commerciali, tuttavia, era stato ritenuto responsabile per la seconda parte del capo d'imputazione. Il giudice, peraltro, per poter pervenire alla condanna del ricorrente aveva inserito nella motivazione tre circostanze nuove mai emerse neppure in sede di dibattimento e cioè a la pretesa inesistenza di un colloquio con un Ufficiale giudiziario b la pretestuosità della dichiarazione di impossibilità di eseguire in quel momento l'operazione c aveva qualificato come falsa una ricevuta esistente agli atti senza che prima d'allora tale falsità fosse mai stata contestata. Nonostante la specifica censura dedotta sul punto, la Corte l'aveva disattesa avendo sovrapposto e confuso due piani completamente diversi il primo, relativo alla corrispondenza tra la contestazione e l'accusa, il secondo alla questione di merito relativa alla sussistenza della truffa, sia pur limitando il fatto al solo episodio presso il Tribunale Civile di Roma. 2.2. manifesta illogicità della motivazione in ordine al capo sub a dell'imputazione il ricorrente sostiene che la condanna era stata fondata, da una parte, sulla versione dei fatti, lacunosa ed insufficiente dell'ing. T. , e, dall'altra, sul silenzio tenuto dall'imputato. Il ricorrente, in particolare, sostiene che, non avendo il T. alcun potere decisionale ed autonomo circa la consegna o meno della somma di denaro al D. , i presunti raggiri e artifizi posti in essere nei suoi confronti, sarebbero del tutto irrilevanti proprio perché l'unico soggetto incaricato di compiere l'operazione in nome e per conto della Cassa era, appunto, esso ricorrente. 2.3. violazione dell'art. 507 cod. proc. pen. per avere la Corte territoriale rigettato la richiesta tesa ad accertare circostanze decisive sulla ricostruzione dei fatti di cui al capo a e proposta con i motivi di appello avverso l'ordinanza reiettiva pronunciata dal Tribunale. 2.4. violazione degli artt. 521-522 cod. proc. pen. in ordine al capo sub b dell'imputazione. Il ricorrente si duole del fatto che, nonostante fosse stato rinviato a giudizio per il delitto di truffa aggravata, poi, all'esito del dibattimento, il giudice aveva riqualificato il fatto come appropriazione indebita e, per tale reato, lo aveva condannato. Sul punto, il ricorrente sostiene che a il fatto contestatogli non avrebbe potuto essere diversamente qualificato perché il Giudice ha potuto condannare per appropriazione indebita solo attraverso una valutazione negativa di fatti mai contestati nel capo d'imputazione ”, tanto più che, nella specie, l'appropriazione non era compresa nell'accusa di truffa in quanto il fatto appropriativo era successivo logicamente e cronologicamente a quello indicato come artifizio o raggiro b sul piano logico, la decisione di entrambi i giudici di merito era censurabile sia perché aveva finito per configurare un'appropriazione indebita per importo pari alla somma ipoteticamente truffata, il che all'evidenza non è avvenuto ”, sia perché la gran parte della somma Euro 7.000.000,00 fu spontaneamente ed immediatamente restituita, sia perché del destino e della portata dei pagamenti ulteriori non si poteva nemmeno parlare, trattandosi di disposizioni date e di operazioni effettuate in epoca diversa e successiva ” c in punto di fatto, il ricorrente, confuta l'affermazione della Corte secondo la quale egli, in data 29/03/2007, aveva utilizzato parte della somma ricevuta dalla Cassa, per scopi diversi, sostenendo che l'assegno di Euro 6.000.000,00 era stato consegnato alla Provincia Italiana della Congregazione dei Figli della Immacolata Concezione, in persona di padre D'.Te. , il 23/03/2007 e, quindi, in epoca anteriore alla data del bonifico del 29/03/2007 d in punto di diritto, infine, il ricorrente motivo quinto del ricorso , sostiene che, essendogli stata trasferita dalla Cassa la somma di Euro 14.500.000,00 sul suo conto corrente, la suddetta somma era divenuta di sua proprietà. Sul punto, la Corte aveva disatteso una sentenza di legittimità Cass. 2754/2009 che, in un caso simile, aveva stabilito che non era configurabile il delitto di appropriazione indebita in quanto la somma venne bonificata dalla cassa Ragionieri all'avv.to D. con un vincolo di destinazione meramente obbligatorio che non impediva l'acquisizione in proprietà di tale somma al D. ” a ciò non bastando la circostanza che la Cassa, nell'effettuare il bonifico aveva specificato la causale. 2.5. violazione dell'art. 185 cod. pen. il ricorrente sostiene che, nonostante, per il capo b , fosse caduta l'accusa di truffa nei confronti dei Membri della Cassa, era stata accolta la domanda di risarcimento dei danni nei loro confronti, con motivazione illogica e carente. 2.6. Con memoria depositata il 01/10/2013, il ricorrente, ha prodotto una sentenza del tribunale di Viterbo che aveva accolto l'azione di surroga proposta dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assicurazione a favore dei Ragionieri e Periti Commerciali nei confronti della Provincia Italiana della Congregazione dei Figli della Immacolata Concezione, avendo rilevato che la dazione di denaro era stata priva di causale. Sulla base della suddetta sentenza, il ricorrente, quindi, ha sostenuto che la sentenza impugnata sarebbe viziata nella parte in cui aveva sostenuto che l'assegno in questione era stato dato alla Congregazione per sanare una posizione debitoria, laddove, invece, l'assegno era stato consegnato a garanzia dell'esecuzione del mandato ricevuto dai frati i quali abusivamente lo avevano messo all'incasso. Diritto 1. capo sub a dell'imputazione le censure, nei termini in cui sono state dedotte supra ai pp.2.1.-2.2.-2.3. della presente parte narrativa, sono tutte manifestamente infondate per le ragioni di seguito indicate. 1.1. Il ricorrente, fu rinviato a giudizio, per il delitto di cui agli artt. 61 nn. 7, 11 e 640 co. 1 e cpv. n. 1 cod. pen., perché abusando del contratto di consulenza legale con la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a Favore di Ragionieri e Periti Commerciale, ente pubblico, con artifici e raggiri consistiti nel prospettare ai rappresentati della Cassa, Presidente del Consiglio di Amministrazione e Vice Presidente P S. e Sa.Pa.Am. che la sentenza di condanna emessa dal Tribunale Civile di Roma il 02/05/2004 e portante la condanna della Cassa medesima al pagamento in favore della ditta Cavatorta e figli di Euro 238.929,00 e dell'architetto M M. di Euro 177.287,00 era meritevole di impugnazione ma che difficilmente poteva essere ottenuta la sospensiva nel suggerire, dopo che i vincitori della causa avevano notificato precetto, che per evitare il pignoramento di beni o di introiti, era opportuno versare all'Ufficiale Giudiziario la somma complessiva in contanti con ciò garantendo che il denaro sarebbe rimasto in deposito in attesa della definizione dell'appello nel suggerire che avrebbe provveduto personalmente alla consegna del denaro all'Ufficiale Giudiziario, ottenendo espressa delega da parte del Presidente nell'essersi recato unitamente all'Ing. T.A. , funzionario della Cassa, incaricato di portare materialmente la somma di Euro 546.000,00 su incarico del Consiglio di Amministrazione, presso il Tribunale nell'essersi appartato con persona qualificatasi Ufficiale Giudiziario e nel confermare che quest'ultimo aveva accettato il versamento e che per motivi di lavoro sarebbe passato nel pomeriggio presso il suo studio legale per ritirare il denaro, e nel consegnare al T. una ricevuta attestante la ricezione del denaro da parte di persona che si firmava Ufficiale Giudiziario, induceva in errore il T. che gli consegnava la somma di denaro contante sopraindicata Si procurava così un ingiusto profitto con corrispondente grave danno economico per la Cassa, ente pubblico. In Roma il 22 dicembre 2004 ”. Come si è detto, entrambi i giudici di merito hanno ritenuto che, pur non essendo configurabile il reato di truffa ai danni dei Membri della Cassa, tuttavia l'imputato si era reso ugualmente colpevole del suddetto reato ai danni dell'ing. T. ossia di colui che, incaricato dalla Cassa, aveva la materiale disponibilità del denaro. La Corte, in punto di fatto, ha scritto che il T. in tanto consegnò al D. la somma di Euro 546.000,00 - che doveva servire per gli scopi indicati nel capo d'imputazione – solo dopo 1 la pantomima del falso colloquio con l'ufficiale giudiziario 2 la falsa affermazione che quest'ultimo sarebbe passato nel pomeriggio presso lo studio del D. per ritirare i fondi 3 la consegna al T. di una ricevuta che avrebbe attestato che una persona aveva avuto in consegna i 546.000.000,00 Euro ”. La Corte, infatti, a fronte della contestazione dei suddetti fatti da parte dell'imputato - il quale sosteneva che lui, effettivamente, aveva contattato un ufficiale giudiziario - in modo categorico, alla stregua di puntuali ed oggettivi riscontri documentali e logici cfr pag. 6 della motivazione , ha disatteso la suddetta doglianza e, quindi, anche la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale sia per la più che ampia sufficienza degli elementi a carico raccolti, sia perché, in ogni caso, le circostanze indicate come da accertare dovevano, semmai, essere provate dallo stesso imputato ”. Si tratta di motivazione ineccepibile e, quindi, incensurabile sicché le censure nuovamente dedotte ai pp.2.2. nella parte in cui il ricorrente sostiene che la versione dei fatti resa dall'ing. T. , sarebbe lacunosa ed insufficiente e 2.3. violazione dell'art. 507-603 cod. proc. pen. vanno ritenute inammissibili perché generiche. Quello che, infatti, si evince da entrambe le sentenze di merito -fondate sul punto, è opportuno ribadirlo, su inoppugnabili dati oggettivi e documentali - è che il ricorrente, proprio grazie al fatto che raggirò il T. , riuscì ad ottenere la consegna della somma di denaro della quale indebitamente si appropriò si tratta, lo si ripete, di un inoppugnabile accertamento di fatto sul quale il ricorso, nel punto in cui solleva le doglianze che si sono illustrate, appare confuso e anodino non essendo stato neppure indicato sulla base di quali elementi di fatto l'imputato possa sostenere una alternativa e attendibile tesi difensiva. 1.2. Quanto appena detto in punto di fatto, costituisce, quindi, la premessa dalla quale occorre partire per esaminare la censura di cui al p.2.1. violazione degli artt. 521-522 cod. proc. pen., ribadita anche nel successivo p.2.2. . La pretesa violazione degli artt. 521-522 cod. proc. pen. sarebbe relativa alla seguente parte del capo d'imputazione per essersi recato unitamente all'Ing. A T. , funzionario della Cassa, incaricato di portare materialmente la somma di Euro 546.000,00 su incarico del Consiglio di Amministrazione, presso il Tribunale nell'essersi appartato con persona qualificatasi Ufficiale Giudiziario e nel confermare che quest'ultimo aveva accettato il versamento e che per motivi di lavoro sarebbe passato nel pomeriggio presso il suo studio legale per ritirare il denaro, e nel consegnare al T. una ricevuta attestante la ricezione del denaro da parte di persona che si firmava Ufficiale Giudiziario, induceva in errore il T. che gli consegnava la somma di denaro contante sopraindicata ”. Come si può notare, questo era il fatto che, in parte, era stato contestato all'imputato con il capo d'imputazione e, per questo specifico fatto è stato condannato non si comprende, quindi, di cosa il ricorrente abbia a dolersi. Sennonché, l'imputato, come si è illustrato in parte narrativa, fonda la sua censura su due circostanze 1 per essere stato condannato per fatti emersi nel corso del dibattimento e mai contestatogli ossia a la pretesa inesistenza di un colloquio con un Ufficiale giudiziario b la pretestuosità della dichiarazione di impossibilità di eseguire in quel momento l'operazione c per avere la Corte qualificato come falsa una ricevuta esistente agli atti senza che prima d'allora tale falsità fosse mai stata contestata 2 per non avere entrambi i giudici di merito considerato che l'ing. T. era un semplice nudus minister che aveva solo l'obbligo giuridico di consegnargli il denaro senza porsi tante domande. Entrambe le censure sono manifestamente infondate. I fatti di cui alla doglianza sub 1 , con tutta evidenza, non sono fatti nuovi al contrario, sono i fatti perfettamente descritti nel capo d'imputazione come gli artifizi e raggiri che l'imputato adoperò per farsi consegnare il denaro dall'ing. T. . In ordine, poi, alla doglianza sub 2 , si può solo osservare che si tratta di una tesi davvero singolare ed infatti, portata alle sue estreme conseguenze, la suddetta tesi comporterebbe che, anche nell'ipotesi in cui l'ing. T. si fosse reso conto che l'imputato non aveva alcuna intenzione di adempiere al mandato professionale ma che sua intenzione era impossessarsi della cospicua somma di denaro, avrebbe dovuto ugualmente consegnargliela. È sufficiente riflettere solo sulle abnormi conseguenze cui porterebbe la tesi difensiva prospettata, per rendersi conto della sua manifesta infondatezza. La realtà è che, come ha correttamente rilevato la Corte, il T. , incaricato dalla Cassa e materiale detentore, per conto della suddetta Cassa, della somma di denaro, era colui che doveva sopraintendere a tutte le operazioni che il D. , nell'ambito del mandato professionale, si era impegnato ad assolvere e, all'esito delle quali, solamente avrebbe dovuto consegnare la somma. Fu, quindi, solo a seguito della pantomima inscenata dal D. che il T. , rimasto irretito, consegnò all'imputato la somma che fu fatta volatilizzare. Sussistono, quindi, tutti gli estremi, soggettivi ed oggettivi, del contestato reato di truffa e nessuna violazione degli artt. 521-522 cod. proc. pen., è ipotizzabile. 2. capo sub b dell'imputazione anche le censure dedotte ed illustrate supra al p.2.4. sono tutte manifestamente infondate per le ragioni di seguito indicate. Il ricorrente, fu rinviato a giudizio per il delitto di cui agli artt. 61 nn. 7, II e 640 co. I e cpv n. I c.p. perché, abusando del contratto di consulenza legale con la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenze a Favore di Ragionieri e Periti Commerciali, ente pubblico, con artifici e raggiri, consistiti nel prospettare al Consiglio di Amministrazione della Cassa, intenzionato a risolvere un preliminare con il quale si era obbligata ad acquistare un immobile ad uso alberghiero in Somma Lombardo, in quanto aveva appreso che nel prezzo vi era anche una provvigione di Euro 800.000,00 in favore di un mediatore, che in tal modo avrebbe corso il rischio di perdere la caparra già versato di Euro 2.900.000,00 nel far presente che nel contratto in questione l'adempimento era condizionato alla regolarità tecnica dell'immobile nel segnalare che vi era un grave difetto di costruzione tale da costituire un pericolo per le persone un corridoio stretto e basso , ragion per cui, in attesa che il promittente venditore eliminasse il difetto e per non dare l'impressione che tale difetto venisse strumentalizzato per richiedere la risoluzione del contratto, era opportuno procedere ad offerta reale della somma residua di Euro 14.500.000.00 a dimostrazione che le contestazioni non fossero pretestuose nell'ottenere cosi l'autorizzazione del Consiglio di Amministrazione e nel farsi rilasciate dal Presidente del Consiglio di Amministrazione, P S. , procura speciale per eseguire l'offerta reale, con consegna della provvista di Euro 14.500.000,00, traeva così in inganno la Cassa in persona del S. che gli rimetteva con bonifico bancario sul suo conto corrente personale n 6694H presso la Banca Antoniana Popolare Veneta la suddetta somma si procurava cosi un ingiusto profitto con corrispondente grave danno economico per la Cassa, ente pubblico. Roma il 29 marzo 2007 ” il ricorrente, all'esito del giudizio di primo grado, fu riconosciuto colpevole non del suddetto reato di truffa ma di quello di appropriazione indebita. Il ricorrente, come si è illustrato, in questa sede, contesta la decisione dei giudici di merito, sotto un duplice profilo 1 per violazione degli artt. 521-522 cod. proc. pen. 2 perché, a suo avviso, nessuna appropriazione, in senso tecnico, sarebbe avvenuta avendo egli disposto di una somma che, una volta accreditatagli da parte della Cassa, era diventata di sua proprietà. Il ricorrente, poi, contesta anche di essersi appropriato di tutta la somma indicata, sostenendo che gli importi erano minori. 2.1. La censura relativa alla pretesa violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. - è manifestamente infondata. Sul punto è sufficiente ribadire il principio di diritto già enunciato da questa Corte secondo il quale non vi è relazione tra la sentenza e l'accusa contestata, quando il fatto abbia subito una modifica negli elementi essenziali e fondamentali in modo da fargli perdere la sua originaria fisionomia, non essendo sufficiente un qualsiasi mutamento dei caratteri intrinseci ed estrinseci del reato, come quelli attinenti alla esecuzione del reato. Ne deriva che non sussiste violazione dell'art. 477 cod. proc. pen., quando venga contestata la truffa e ritenuta l'approvazione indebita. Nel fatto della truffa sono infatti compresi sia l'estremo del conseguimento del possesso di una cosa da parte dell'agente, sia quello della approvazione di essa Cass. 3325/1991 Rv. 190759. Il che è quanto si è proprio verificato nel caso di specie, dove l'appropriazione della somma di Euro 14.500.000,00 risulta puntualmente contestata. 2.2. Anche le restanti censure, sono manifestamente infondate. Quanto alla circostanza secondo la quale la somma accreditata dalla Cassa al ricorrente sarebbe divenuta di sua proprietà, va osservato che la sentenza di legittimità invocata, lo è a sproposito per la semplice ed assorbente ragione che, in quella fattispecie, si discuteva di una somma accreditata a titolo di donazione incondizionata. Non è così, invece, nella fattispecie in esame, in cui era del tutto pacifico ed indiscusso che la somma di Euro 14.500.000,00 doveva essere utilizzata dal ricorrente per eseguire un'offerta reale. Il ricorrente discetta, poi, fra causale del bonifico che non sarebbe confondibile con un vincolo di destinazione che non risulterebbe da alcuna parte. Al che deve replicarsi che, quello che è certo è che la Cassa aveva accreditato quella ingente somma di denaro sul conto personale del ricorrente, non perché intendesse fargli un grazioso e munifico regalo, ma perché fosse destinata ad un'offerta reale relativa ad una controversia civile e, di tanto, il ricorrente ne era perfettamente a conoscenza. Di conseguenza, essendo il mandato vincolante, l'imputato aveva l'obbligo giuridico di adempierlo secondo le istruzioni ricevute, sicché, il fatto che si appropriò della suddetta somma lo rende automaticamente colpevole del reato di appropriazione indebita proprio perché si impossessò del denaro della Cassa avendogli dato una destinazione diversa. Sul punto, quindi, la censura va disattesa alla stregua del seguente principio di diritto Commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitigli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto per l'adempimento del suddetto mandato e lo utilizzi per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante ”. Altrettanto manifestamente infondate sono le censure dedotte in ordine all'importo di cui si appropriò. Innanzitutto, la circostanza addotta dal ricorrente e cioè il fatto che restituì parte della somma , va ritenuta un mero post factum che non influisce minimamente sulla consumazione del reato. Quanto, poi, all'ulteriore doglianza - secondo la quale non avrebbe potuto essere addebitata ad esso ricorrente l'appropriazione della somma di Euro 6.000.000,00 bonificata, in data 29/03/2007, all'Istituto Villa San Margherita in quanto egli aveva rilasciato il 23/03/2007, un assegno di Euro 6.000.000,00 e, quindi, in epoca anteriore alla data del bonifico del 29/03/2007 - è sufficiente replicare che ciò che rileva non è tanto la data dell'assegno ma che la somma di Euro 6.000.000,00 facente parte, pacificamente, della somma accreditatigli dalla Cassa, fu utilizzata per pagare un debito che il ricorrente aveva o credeva di avere nei confronti del suddetto Istituto Villa San Margherita. Stessa cosa dicasi per un ulteriore pagamento di Euro 1.500.000,00 che il ricorrente effettuò a favore di tale P.G. cfr pag. 4 sentenza impugnata . Poche parole, infine, vanno spese sulla memoria depositata il 1/10/2013 supra p.2.6. . Infatti, quanto sostenuto dal ricorrente sulla base dell'allegata sentenza del Tribunale di Viterbo, conferma la validità della tesi accusatoria e cioè che l'imputato si appropriò di una parte della somma accreditatigli dalla Cassa Nazionale, dandole una destinazione diversa. Il motivo per cui consegnò un assegno di Euro 6.000.000,00 alla Congregazione, è, tutto irrilevante ai fini della configurabilità del reato, così come è del tutto irrilevante - trattandosi di un post factum - che quella somma fosse non dovuta e che, grazie peraltro ad un'azione surrogatoria, ne sia stata ordinata la restituzione alla Cassa nazionale. 3. violazione dell'art. 185 cod. pen. anche la suddetta doglianza - dedotta in relazione al solo capo sub a dell'imputazione - è manifestamente infondata, per la semplice ragione che i rappresentanti della Cassa si sono costituiti parti civili e, benché non siano stati i soggetti truffati essendo stato raggirato l'ing. T. , parte offesa del reato , tuttavia, è indubbio che furono loro ad avere subito il danno e, quindi, ad avere diritto ad essere risarciti art. 79 cod. proc. pen. la truffa è, infatti, un reato che può consumarsi anche a danno di un terzo e cioè di colui che non è stato materialmente oggetto dei raggiri e degli artifizi. 4. Infine, relativamente alle richieste subordinate, va osservato quanto segue - quanto alla richiesta di declaratoria di prescrizione per il capo sub a dell'imputazione, essendo stati tutti i motivi del ricorso dichiarati inammissibili, trova applicazione il principio di diritto secondo il quale l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto d'impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p.” ex plurimis SSUU 22/11/2000, De Luca, Riv 217266 - Cass. 4/10/2007, Impero - sull'applicabilità dell'indulto, dovrà provvedere il giudice dell'esecuzione Cass. 43262/2009 Rv. 245106 SSUU 2333/1995 Rv. 200262. 5. In conclusione, l'impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell'art. 606/3 c.p.p., per manifesta infondatezza alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00, oltre al rifusione delle spese a favore delle costituite parti civili come da dispositivo. P.Q.M. Dichiara Inammissibile il ricorso e Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalle parti civili S.P. e Associazione Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Ragionieri e Periti Commercialisti che liquida in Euro 4.000,00 per ciascuna parte oltre Iva e cpa.