Niente colpa lieve per i chirurghi che violano gli standard operativi

In assenza di una individuazione certa e specifica, da parte dell’imputato, dei mezzi di prova ritenuti inutilizzabili dal perito, la Corte non può procedere in alcun modo ad una valutazione critica circa un eventuale inquinamento dei processi formativi della conoscenza peritale.

La posizione di aiuto” di un medico non lo esenta dall’obbligo di osservare scrupolosamente le leges artis , né di impedire che attraverso la condotta omissiva del capo equipe possa prodursi l’evento lesivo poi, in effetti, verificatosi, stante che, condividendo le sue scelte, lo stesso si assume la responsabilità delle conseguenze. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 4058 del 29 gennaio 2014. Il caso . La Corte di Appello di Palermo confermava integralmente la condanna per il delitto di omicidio colposo commesso dagli imputati in danno di una paziente, per avere proceduto, all’esecuzione di una operazione chirurgica di asportazione di un mioma senza provvedere ad un adeguato studio pre-chirurgico della paziente, cagionando alla stessa una perforazione dell’utero e del sigma ovvero di un’ansa intestinale , omettendo successivamente, specifici controlli e trascurando l’analisi dei singoli sintomi obiettivamente rilevabili. In conseguenza di tali condotte, la paziente decedeva per arresto cardiocircolatorio da shock settico. Sulla inutilizzabilità della perizia . I ricorsi degli imputati, piuttosto articolati, lamentavano, in primo luogo, violazione di legge processuale stante che i periti avevano elaborato le proprie conclusioni sulla base di elementi di prova formatisi al di fuori del contraddittorio delle parti, nel corso delle indagini preliminari e, nonostante l’estromissione di tali atti da parte del giudice di primo grado, nella perizia stessa non si poteva distinguere il frutto di valutazioni indipendenti rispetto a quelle derivanti dagli stessi. Nesso di causalità . Il secondo motivo, invece, deduceva vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra la condotta dei medici e il decesso della paziente e, quindi, all’ascrivibilità di tale evento agli imputati. Sotto altro profilo, i ricorrenti si dolevano della ritenuta colpevolezza degli stessi in assenza di prova circa l’erroneità del comportamento post-operatorio assunto, stante la mancanza di univocità di indicazioni in letteratura in casi analoghi. Per tali ragioni, richiedevano volersi applicare l’art. 3 l. 189/2012 relativo alla configurabilità della colpa lieve del sanitario, che abbia rispettato le linee guida accreditate dalla comunità scientifica. Infine, si lamentava una erronea applicazione dei principi in materia di responsabilità da equipe. La Corte rigetta tutti i motivi di ricorso. Specificità del motivo di ricorso . Ed invero, afferma come, in sede di legittimità, non è possibile una valutazione di eventuali contaminazioni” del processo formativo di cognizione peritale laddove la difesa non si sia premurata di specificare ed individuare gli elementi probatori asseritamente inutilizzabili, procedendo, quindi, ad una disamina delle fonti di cognizione cui i periti avrebbero eventualmente attinto le informazioni successivamente utilizzate ai fini della redazione del proprio elaborato, deducendo, di contro, solo una generica inutilizzabilità di alcuni atti e la conseguente inutilizzabilità della perizia. Riconducibilità delle condotte alla colpa grave . In relazione al secondo motivo, invece, ritenuta corretta l’impostazione della Corte di merito sulla ricostruzione del nesso causale tra il decesso della paziente e la condotta degli imputati, i giudici di legittimità hanno ritenuto altresì inapplicabile l’art. 3, e dunque l’ipotesi di colpa lieve, stante l’ascrivibilità agli stessi di molteplici profili di colpa grave, particolarmente, non dando conto ed importanza ai sintomi dolorosi post operatori che avrebbero indotto a specifiche analisi e che, invece, colpevolmente erano stati sopiti attraverso la somministrazione di un potente analgesico. Responsabilità del medico che lavora in equipe . In tali casi, la Corte, rammenta che, del decesso del paziente risponde ogni componente dell’equipe che non osservi le regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed oggettive mansioni svolte, e che venga meno al dovere di conoscere e valutare le attività degli altri medici così da porre rimedio ad eventuali errori posti in essere da altri e che siano evidenti per un professionista medio. D’altronde, la figura dell’aiuto, nel corso di un intervento chirurgico, non si limita a costituire un soggetto esecutore d’ordini altrui, in quanto comporta la condivisione delle scelte terapeutiche del capo equipe laddove non ci si discosti o manifestando un espresso dissenso o compiendo un atto volto ad impedire l’evento.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 12 dicembre 2013 - 29 gennaio 2014, n. 4058 Presidente Brusco – Relatore Dell’Utri Ritenuto in fatto 1. - Con sentenza resa in data 11.12.2012, la corte d'appello di Palermo ha integralmente confermato la sentenza in data 26.10.2011 con la quale il tribunale di Palermo ha condannato A.G. e A.R. alla pena di un anno di reclusione ciascuno in relazione al reato di omicidio colposo commesso, in violazione delle norme sulla disciplina della professione medica, ai danni di M.G. , in omissis . Agli odierni imputati era stato contestato di aver provocato il decesso della paziente per aver proceduto, in violazione dei tradizionali parametri della colpa generica, all'esecuzione di un'operazione chirurgica di miomectomia isteroscopica senza provvedere a un adeguato studio prechirurgico della paziente, e cagionando alla stessa, nel corso dell'operazione, una perforazione dell'utero e del sigma, omettendo successivamente di condurre un opportuno esame delle strutture anatomiche dell'utero e delle anse intestinali al fine di provvedere alla riparazione di quanto provocato e per avere inoltre omesso di gestire adeguatamente la fase post-operatoria, trascurando l'analisi dei dati sintomatici obiettivamente rilevabili marcata oliguria e dolenzie , nonché di allertare i sanitari di guardia e gli infermieri in servizio, al fine di provvedere a un costante controllo delle condizioni cliniche generali della paziente. Per effetto di tali condotte degli imputati, la paziente era quindi deceduta a seguito di arresto cardiocircolatorio da shock settico. Avverso la sentenza d'appello, a mezzo del comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati sulla base di tre motivi di ricorso. 2.1. - Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione della legge processuale in relazione agli artt. 228, 178 e 191 c.p.p Sul punto, rilevano i ricorrenti come il giudice di primo grado avesse rigettato l'eccezione di nullità della perizia originariamente eseguita nelle forme dell'incidente probatorio eccezione ilio tempore sollevata per avere i periti elaborato le proprie conclusioni sulla base di elementi di prova formati al di fuori del contraddittorio delle parti, nel corso delle indagini preliminari sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria da persone informate sui fatti, nonché atti di analogo tenore provenienti da persone oggetto d'indagine sentite senza le garanzie di rito in tal modo incorrendo nella violazione di norme di legge relative alla formazione della prova poste a garanzia delle ragioni della difesa. Al riguardo, la decisione sul punto adottata dal tribunale - limitata all'estromissione dei soli atti inutilizzabili allegati alla perizia - doveva ritenersi tale da non garantire la genuinità della formazione della fonte di conoscenza tecnica del giudice, stante l'impossibilità di distinguere, all'interno dell'elaborato peritale, il frutto degli apprezzamenti indipendenti dalle letture inquinanti , rispetto a ciò che, viceversa, doveva ritenersi irrimediabilmente condizionato dalla cognizione acquisita dai periti delle fonti di prova non conoscibili. Ciò posto, la corte d'appello, investita della questione in sede di gravame, ha erroneamente ritenuto inammissibile la dedotta ragione d'impugnazione, richiamando i precedenti della giurisprudenza di legittimità sul punto Cass., Sez. 4, n. 5060/2010 e altresì rilevando la genericità della doglianza dell'appellante, avendo quest'ultimo omesso l'indicazione di alcun atto inutilizzabile in base al quale i periti avrebbero assunto le proprie determinazioni. In contrasto con le decisioni dei giudici del merito, gli odierni ricorrenti, sottolineando gli specifici limiti imposti dall'art. 228, co. 3, c.p.p. all'acquisizione di notizie da parte del perito nello svolgimento del proprio incarico acquisizioni la cui operatività in nessun modo potrebbe porsi in contrasto con i fondamentali principi posti a tutela del contraddittorio nella formazione della prova , evidenziano come i periti avessero largamente attinto, nell'elaborazione delle proprie conclusioni tecniche, a fonti di cognizione inutilizzabili in chiave probatoria segnatamente attraverso le interessate dichiarazioni degli allora coindagati , con particolare riguardo ai temi riguardanti 1 le problematiche del decorso post-operatorio della persona offesa 2 i presidi terapeutici effettivamente somministrati alla paziente e i controlli cui la stessa fu sottoposta 3 l'utilizzazione da parte dell'operatore, nel corso dell'atto chirurgico che diede luogo alla perforazione millimetrica ed esangue del fondo dell'utero, di un'ansa disattivata e non di uno strumento termicamente attivo. Sulla base di tali premesse, i ricorrenti invocano l'annullamento della sentenza impugnata per avere i giudici del merito fondato il proprio convincimento sulla base di elementi probatori radicalmente inutilizzabili ai fini della decisione. 2.2. - Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione e violazione della legge sostanziale e processuale in relazione alla ricostruzione del nesso di causalità tra l'atto medico compiuto dagli imputati e il decesso della paziente, nonché dell'ascrivibilità di quest'ultimo alla colpa dei primi. Con particolare riguardo al tema relativo alla causalità del decesso, i ricorrenti si dolgono che la sentenza impugnata abbia riconosciuto un decisivo valore probatorio al dato costituito dalla sintomatologia dolorosa registrata in cartella accusata dalla paziente alcune ore dopo l'intervento sintomatologia senz'altro ricondotta dalla corte territoriale alle conseguenze della cattiva esecuzione dell'atto operatorio, in contrasto con una pluralità di indici istruttori costituiti dal corrispondente tenore di alcune deposizioni testimoniali dai quali era piuttosto emerso come, nel periodo immediatamente successivo all'intervento, la paziente non avesse avvertito alcun dolore particolarmente significativo, né si erano evidenziati segni di una qualche complicanza suscettibile di indurre allarmi di sorta, sì da lasciar ritenere come la modesta sintomatologia dolorosa nella specie accusata dalla paziente dovesse nella specie ricondursi alle ordinarie conseguenze legate al normale decorso postoperatorio. Sotto altro profilo, i ricorrenti rilevano come, sulla base delle evidenze istruttorie acquisite ingiustificatamente ignorate o travisate dalla corte territoriale , era emerso come la perforazione provocata sulle pareti uterine della vittima fosse stata misurata in 3 mm., laddove lo strumento operatorio utilizzato per l'asportazione del polipo presentava un diametro di 10 mm., con la conseguente evidente irriconducibilità della ridetta perforazione all'introduzione del resettoscopio utilizzato dal chirurgo circostanza, quest'ultima, esclusa sulla base dello stesso riscontro oggettivo costituito dall'assenza di alcun orletto necrotico sulla regione limitrofa alla sede dell'incisione millimetrica neppure sfrangiata come peraltro confermato dalla deposizione del teste R.M. , che avrebbe viceversa necessariamente dovuto apprezzarsi ove la lesione fosse stata prodotta dall'uso di un'ansa termica attiva, e non, come nella specie, di un resettoscopio azionato meccanicamente a freddo , di per sé inidoneo a provocare alcuna forma di perforazione, ma solo di determinare eventuali divaricazioni delle fibre muscolari. Quanto al versante della colpa, i ricorrenti si dolgono della ritenuta ascrizione del decesso della paziente alla colpevolezza degli imputati, avendo questi ultimi - in assenza di indicazioni univoche e stringenti, sul piano della letteratura scientifica disponibile circa il comportamento da assumere in sede post-operatoria in caso di lesioni come quella in esame - ritenuto opportunamente di non sottoporre la paziente ad ulteriori stress operatori, in considerazione delle relative condizioni generali e della storia clinica della stessa, provvedendo all'esecuzione di tutti i controlli e i monitoraggi imposti dalle particolari occorrenze del caso di specie, come confermato dalle stesse deposizioni rese dagli esperti richiamati in ricorso e assunti come testimoni nel corso del processo. Ciò posto, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per aver altresì omesso di dettare alcuna motivazione in relazione all'invocata applicazione dell'art. 3 della legge n. 189/2012 in ordine alla limitazione alla sola colpa lieve della responsabilità penale dell'esercente le professioni sanitarie allorché lo stesso, nello svolgimento della propria attività, si sia attenuto al rispetto di linee guide o di buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Da una diversa prospettiva, i ricorrenti si dolgono della mancata risoluzione, da parte della corte territoriale, di una serie di questioni afferenti l'analisi della condotta degli imputati nella fase pre-operatoria nella quale sarebbe stata omessa l'esecuzione di un adeguato studio prechirurgico nella fase post-operatoria in cui sarebbero stati omessi adeguati controlli e poste in essere inidonee terapie, a prescindere dal mancato intervento laparotomico o laparoscopico di riparazione e nel corso dell'evoluzione letale della peritonite manifestatasi dopo circa 18 ore dall'intervento a carico della paziente. In particolare, tali questioni erano state malamente approfondite dalla corte territoriale e solo parzialmente analizzate e risolte sulla base di una superficiale o travisata interpretazione dell'insieme degli elementi istruttori su tali specifici punti complessivamente acquisiti, dai quali era piuttosto emerso il ragionevole dubbio sulla riconducibilità del decesso della paziente al decorso di processi infettivi preesistenti e in ogni caso indipendenti dalle occorrenze dell'intervento chirurgico oggetto d'esame. Da ultimo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui conferma l'addebito di responsabilità a carico di A.R. , per aver erroneamente applicato al caso di specie i principi individuati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità da équipes medica. 2.3. - Con il terzo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla determinazione della pena inflitta agli imputati, con particolare riguardo al rilievo sul punto riconosciuto alla circostanza, ascritta ai ricorrenti, di aver tentato di attribuire alla persona offesa la condotta determinante l'evento mortale, nonché nella parte in cui ha rilevato la pretesa mancata prova dell'integrale risarcimento del danno nei confronti dei familiari della vittima, in contrasto con le risultanze documentali di segno contrario debitamente acquisite al processo. Considerato in diritto 3.1. - Il primo motivo di ricorso è infondato. Di là dalla generale rilevanza del tema astrattamente impostato dai ricorrenti - per cui vale confermare, in linea di principio, l'impossibilità che la perizia si presti a costituire il veicolo di un'inammissibile introduzione, nei processi formativi della cognizione del giudice, di elementi probatori inutilizzabili ai fini della decisione v., sul punto, Cass., Sez. 3, n. 809/2008, Rv. 242283, nel senso che gli atti di cui il perito può prendere visione su autorizzazione del giudice sono, oltre quelli già inseriti nel fascicolo per il dibattimento, solo quelli dei quali la legge prevede l'acquisizione al fascicolo medesimo, ossia gli atti suscettibili di farvi legittimamente ingresso nel corso del giudizio anche in un momento successivo al conferimento dell'incarico -, rileva il collegio come, anche in questa sede di legittimità così come specularmente avvenuto in sede d'appello , i ricorrenti, lungi dal provvedere alla specifica indicazione degli atti inutilizzabili in forza dei quali i periti avrebbero impropriamente fondato le proprie conclusioni, si siano limitati a una mera elencazione di temi d'indagine e di questioni di fatto asseritamente compromessi dal contatto con fonti di cognizione probatoriamente non utilizzabili le problematiche del decorso post-operatorio i presidi somministrati alla paziente e i controlli cui la stessa fu sottoposta la natura della strumentazione chirurgica in concreto utilizzata, etc. , senza procedere a un'analitica e particolareggiata disamina delle fonti di cognizione cui i periti avrebbero eventualmente attinto le informazioni successivamente utilizzate ai fini della redazione del proprio elaborato tecnico e dell'offerta conoscitiva posta a disposizione degli organi giudicanti. Ciò posto, la mancata specifica individuazione, ad opera dei ricorrenti tanto in sede d'appello, quanto dinanzi a questa corte di legittimità , dei richiamati elementi di valutazione probatoria asseritamente inutilizzabili impedisce di procedere ad alcun vaglio critico in ordine all'effettiva contaminazione dei processi formativi della conoscenza peritale e, di conseguenza, dello stesso giudice di primo grado , stante l'irriducibile aspecificità delle considerazioni critiche su tale punto ancora in questa sede avanzate dai ricorrenti. 3.2.1. - Il secondo motivo di ricorso, nelle sue diverse articolazioni, deve ritenersi infondato. Preliminarmente, rileva il collegio come la corte territoriale abbia ricapitolato le scansioni del decorso causale che condusse al decesso della paziente in termini di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, avendo proceduto a un'analitica ricostruzione esplicativa dei processi patologici esaminati sulla base di rilievi scientificamente fondati e adeguatamente corroborati attraverso un'esauriente caratterizzazione probatoria della fattispecie concreta. In particolare, la corte d'appello, muovendo dall'accertata causa naturale del decesso della paziente individuata nell'arresto cardiocircolatorio da shock settico , è pervenuta alla conclusione che tale shock fosse stato provocato dalla perforazione della parete intestinale nel corso dell'operazione chirurgica eseguita dagli odierni imputati perforazione ch'ebbe a determinare la contaminazione tra liquido peritoneale e secrezione intestinale, con successiva peritonite, acidosi metabolica e conseguente arresto cardiocircolatorio della vittima. A fondamento di tale ricostruzione, la corte ha indicato 1 i contenuti della relazione redatta successivamente all'intervento chirurgico de quo, nella quale i medesimi imputati risultano aver dato conto della rilevata lieve perforazione del fondo uterino non sanguinante a seguito dell'asportazione del polipo ivi rinvenuto 2 la circostanza che a poche ore dall'intervento la paziente fosse particolarmente agitata e dolorante e avesse richiesto l'assistenza di personale paramedico, lamentando algie pelviche ossia foltissimi dolori ai quadranti addominali e al basso ventre che, come precisato dei periti, non vi sarebbero stati se si fosse trattato di una semplice perforazione del fondo uterino - in cui non sono presenti tessuti innervati - non accompagnata dalla lesione di altro limitrofo organo v. pag. 30 della sentenza d'appello 3 l'accertamento delle condizioni in cui, nell'occorso, si presentava l'addome della paziente ossia lievemente dolente alla palpazione superficiale e profondo su tutti quadranti , con segnalazione di alvo chiuso. Diuresi spontanee assente e conseguente cateterizzazione 4 il dato scientifico costituito dall'elevato rischio di estensione della perforazione della parete uterina a quella intestuiale attraverso l'uso dell'ansa termica riconosciuta dai periti come lo strumento in concreto utilizzato dagli operatori nel corso dell'intervento de quo cfr. pag. 28 della sentenza d'appello 5 la circostanza, riferita dall'anestesista Caruso Antonio nel corso dell'esame dibattimentale, secondo cui gli stessi imputati avrebbero concretamente esaminato l'opportunità di procedere a un immediato controllo laparoscopico in conseguenza della rilevata perforazione ipotesi inspiegabile se non con l'avvertita consapevolezza, da parte dei due imputati, che la perforazione non avesse comportato una semplice lacerazione del fondo uterino ma qualcosa di ben più grave cfr. pag. 31 della sentenza d'appello . Dal complesso di tali significativi indici probatori, la corte ha dunque tratto, oltre ogni ragionevole dubbio, la conclusione dell'elevata probabilità logica equiparabile al più alto livello di credibilità razionale dell'avvenuta perforazione della parete intestinale nel corso dell'operazione chirurgica oggetto d'esame, con il conseguente innesco del decorso patologico conclusosi con l'arresto cardiocircolatorio e il decesso della vittima decorso probatoriamente corroborato attraverso il complesso degli indici più sopra richiamati, in assenza di alcun elemento di prova contraria idoneo a fondare il ragionevole dubbio circa la possibile incidenza di un plausibile decorso causale alternativo. A tale ultimo riguardo - così pervenendo alla confutazione dei singoli motivi di ricorso in questa sede argomentati dai ricorrenti -, la corte territoriale ha espressamente sottolineato come la presunta modestia della sintomatologia dolorosa avvertita dalla paziente e la progressiva regressione di tali dati sintomatici fossero state artificialmente provocate dalla somministrazione dell'analgesico Voltaren incautamente prescritto da A.G. alla paziente, con il conseguente mascheramento dei sintomi indispensabili ai fini del possibile rilevamento del grave quadro clinico e dei concreti rischi letali corsi dalla vittima. Allo stesso modo, la corte ha evidenziato come la tesi difensiva incline a prospettare l'avvenuta utilizzazione, da parte del chirurgo, di un resettoscopio a freddo”, piuttosto che di un'ansa termica, fosse stata esclusa sulla base delle evidenze probatorie acquisite, tale dato risultando unicamente dalle sole affermazioni processuali degli imputati, i quali, nella relazione riferita all'intervento, avevano significativamente omesso l'accurata descrizione circa le soluzioni utilizzate per la distensione della cavità uterina e l'indicazione della tipologia delle anse reset-toscopiche utilizzate nelle varie fasi dell'intervento, oltre che della tecnica utilizzata lacune e omissioni verosimilmente dettate dalla volontà di non lasciare tracce documentali della scelta di usare un'ansa termica non consona al tipo d'intervento da praticare non adeguatamente preparato e al tipo di paziente già in passato sottoposta a intervento di miomectomia . Sotto altro profilo, la corte ha rilevato come i periti avessero fornito un'adeguata spiegazione dell'assenza di un orletto necrotico sulla regione limitrofa alla sede della lesione millimetrica della parete uterina assenza invocata dai ricorrenti come pretesa prova del mancato uso di un'ansa termica , evidenziando come detta assenza trovasse la propria spiegazione esclusivamente nella circostanza che, al momento dell'esame autoptico, avvenuto a distanza di oltre sei mesi dal decesso quando il cadavere era in avanzato stato di putrefazione e con processi autolitici in corso, non era stato possibile rinvenire, oltre alla lesione uterina, anche sicure tracce di necrosi dei tessuti là dove, a prescindere da tale circostanza, il complesso delle risultanze valutate sul piano tecnico dai periti, aveva evidenziato la certezza dell'uso di un'ansa termica certezza in nessun modo smentita dalle affermazioni ritenute insignificanti dalla corte territoriale del testimone R.M. , il quale ebbe unicamente a limitarsi, sul punto, ad esprimere una propria personale e soggettiva impressione circa la natura della perforazione da strumento a freddo . Da ultimo, la corte territoriale ha correttamente negato alcuna plausibilità alle prospettate ipotesi causali alternative avanzate dalla difesa, rilevando come nessuna evidenza probatoria avesse riscontrato l'eventuale riconducibilità della perforazione del tessuto intestinale al preteso sforzo imposto al sigma dalla M. , recatasi in bagno la mattina successiva all'intervento così come nessun riscontro aveva trovato l'ipotesi rimasta allo stato di una mera congettura della prospettata riconducibilità dello shock settico subito dalla vittima alla pretesa incidenza di un'infezione da candida albicans riscontrata nel liquido pleurico della deceduta verosimilmente preesistente all'operazione. A tale ultimo riguardo, la corte territoriale ha correttamente evidenziato come il primo giudice, senza alcuna valida obiezione da parte della difesa, avesse richiamato le osservazioni del perito P. , secondo cui la presenza di frammenti di candida albicans era stata documentata a seguito di esame culturale su campione di liquido pleurico al momento dell'ingresso della M. presso l'unità di rianimazione dell'ospedale XXXXXXXX, ossia quando già il soggetto versava in condizione di shock settico da peritonite di tipo stercoraceo. Da ciò conseguendo che le ife di candida, lungi dal preesistere alla sepsi, si sono ragionevolmente sviluppate proprio in conseguenza del versamento nell'organismo di materiali e batteri fecali e tossine di ogni genere che nel giro di poche ore sono andati a determinare le alterazioni cellulari ed organiche, conducendo rapidamente a morte la M. . Il complesso delle argomentazioni dettate nella motivazione della sentenza d'appello in relazione alla ricostruzione del nesso causale tra il decesso della paziente e la condotta degli imputati deve dunque ritenersi completo ed esauriente, immune da vizi d'indole logica o giuridica, come tale pienamente idoneo a sottrarsi a tutte le censure sul punto avanzate dagli odierni ricorrenti. 3.2.2. - Devono ritenersi altresì infondate le doglianze illustrate dai ricorrenti in relazione ai profili di colpevolezza riscontrati dai giudici di merito a carico degli odierni imputati. Al riguardo, la corte territoriale, con motivazione dotata di piena coerenza logica e linearità argomentativa, a sua volta corroborata da consistenti riscontri di natura probatoria, ha evidenziato come agli odierni imputati fossero ascrivibili molteplici profili di colpa grave in relazione all'intero ciclo operatorio cui ebbero a sottoporre la paziente. In primo luogo, la corte territoriale ha sottolineato come gli imputati avessero superficialmente provveduto alla preparazione dell'intervento ritenendosi sicuri di dover provvedere unicamente alla resezione di alcuni polipi, rendendosi conto della presenza del voluminoso mioma solo ad operazione chirurgica in corso. In particolare, i giudici del merito hanno evidenziato come durante il primitivo esame ecografico del 13.6.2006, non essendo stato possibile visualizzare l'intera cavità uterina a causa di plurime neoformazioni, sarebbe stato opportuno, al fine di orientare consapevolmente il giudizio di operabilità, la strategia e la procedura chirurgica, riempire di liquido la cavità uterina ovvero approfondire le indagini durante l'ecografia attraverso l'esecuzione, quanto meno, di un'ecografia vaginale con riempimento della cavità con liquido. La mancata accurata preparazione dell'intervento secondo tale sequenza costrinse dunque gli operatori a rimuovere il grosso mioma riscontrato senza averlo mai in precedenza individuato, così precludendosi un'eventuale tempestiva diagnosi che avrebbe diversamente orientato il giudizio di operabilità resettoscopica del mioma sottomucoso tale giudizio variando in ragione delle dimensioni, della localizzazione, dei rapporti del mioma con gli osti tubarici e con la cavità uterina , con la conseguenza che l'incompletezza dell'approccio diagnostico preparatorio ebbe ad accentuare enormemente il rischio di una perforazione uterina, come in effetti concretamente verificatosi. Ciò posto, in termini di piena coerenza argomentativa, la corte territoriale ha evidenziato come gli imputati avessero colpevolmente omesso di procedere, una volta rilevata la perforazione uterina, alla conduzione di un intervento chirurgico laparotomico o laparoscopico al fine di individuare e localizzare l'eventuale prevedibile lesione alle pareti intestinali e di procedere alla relativa sutura, preferendo viceversa assumere il gravissimo rischio di complicanze con la scelta asseritamente dettata da considerazioni legate alle condizioni cliniche della paziente di provvedere al costante monitoraggio del decorso post-operatorio. Proprio in relazione a tale fase, tuttavia, la corte ha rilevato come del tutto imprudentemente l'imputato A.G. oltre alla mancata somministrazione di un'adeguata terapia antibiotica in grado di contrastare efficacemente i batteri anaerobi avesse provveduto alla somministrazione alla paziente di un potente analgesico Voltaren in tal modo mascherando la sintomatologia dolorosa necessaria al fine di segnalare l'eventuale presenza di possibili complicanze in atto. Proprio in ragione di tale imprudente somministrazione farmacologica, gli imputati ebbero a intervenire solo tardivamente sul piano chirurgico in laparotomia , il giorno dopo l'operazione, allorché le condizioni cliniche della paziente dovevano ritenersi ormai irreversibili, tenendo conto di quanto sottolineato in sede dibattimentale dal perito P. , secondo cui la condizione di shock settico da perforazione intestinale è una condizione gravissima che si manifesta nel giro di poche ore, anche in un soggetto sano, proprio per la quantità di tossine che possono essere assorbite dal peritoneo e che vanno a determinare le alterazioni prima cellulari e poi organiche nel paziente, tali da portare in tempi rapidi al decesso cfr. pagg. 20-21 della sentenza d'appello . Da ultimo, del tutto privo di rilevanza deve ritenersi il richiamo degli odierni ricorrenti all'operatività dell'art. 3 della legge n. 189/2012, avendo la corte territoriale eloquentemente evidenziato la gravità dei profili di colpa ascrivibili agli imputati in ragione del sensibile scostamento degli stessi dagli standard operativi riferiti a un intervento in nessun modo riconducibile a un caso di particolare difficoltà. Ciò posto, la motivazione dettata dalla corte territoriale in relazione ai profili di colpevolezza degli imputati deve ritenersi anch'essa pienamente completa ed esauriente, scevra da vizi di natura logica o giuridica, pienamente idonea a sottrarsi alle censure sul punto argomentate dai ricorrenti, nella specie per lo più inclini a prospettare un'inammissibile rilettura in fatto delle risultanze probatorie acquisite, come tali non sottoponibili al vaglio di questa corte di legittimità. Parimenti destituite di fondamento devono ritenersi le censure illustrate dai ricorrenti in relazione alla posizione di A.R. , avendo la corte territoriale correttamente sottolineato come la posizione di aiuto dallo stesso rivestita non lo esentasse dall'obbligo di osservare scrupolosamente le leges artis né d'impedire che attraverso la condotta omissiva del capo équipes potesse prodursi l'evento lesivo poi verificatosi, sottolineando come la figura dell'aiuto, nel corso dell'intervento chirurgico, non sia affatto quella di un mero esecutore di ordini, condividendo lo stesso le scelte terapeutico del capo équipes ed assumendone integralmente le responsabilità laddove non se ne discosti attraverso la manifesta espressione del proprio dissenso o il compimento di tutto quanto in suo potere per impedire l'evento. Sul punto, la corte territoriale risulta essersi correttamente allineata al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema di colpa medica nelle attività d'équipes, del decesso del paziente risponde ogni componente dell'équipes, che non osservi le regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, e che venga peraltro meno al dovere di conoscere e valutare le attività degli altri medici in modo da porre rimedio ad eventuali errori, che pur posti in essere da altri siano evidenti per un professionista medio Cass., Sez. 4, n. 33619/2006, Rv. 234971 Cass., Sez. 4, n. 41317/2007, Rv. 237891 Cass., Sez. 4, n. 18548/2005, Rv. 231535 . 3.3. - Dev'essere infine disatteso il terzo motivo di ricorso proposto dagli imputati, avendo la corte territoriale confermato la congruità del trattamento sanzionatorio disposto dal primo giudice, sottolineando, di là dal rilievo riferito al comportamento processuale degli imputati, l'obiettiva circostanza costituita dalla gravità del relativo comportamento colposo e l'omessa allegazione della documentazione indispensabile ai fini del riconoscimento dei presupposti relativi alla tempestività e all'integralità del risarcimento per l'applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6, c.p. omissione non adeguatamente superata dalle generiche doglianze ancora in questa sede di legittimità sollevate dai ricorrenti. 4. - Al riscontro dell'infondatezza di tutti i motivi di doglianza avanzati dagli imputati segue il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. la Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.