Il ricongiungimento familiare non si applica in caso di matrimonio solo formale

Il matrimonio contratto in Albania con una cittadina italiana non giustifica il fatto che lo straniero espulso rientri in Italia senza alcuna autorizzazione nell’anno successivo, essendo necessario dimostrare l’ulteriore presupposto della convivenza con il coniuge.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7912/13, depositata il 18 febbraio. Il caso. Un cittadino albanese viene condannato in entrambi i gradi di merito in quanto, a seguito dell’espulsione dal nostro Paese, era tornato in territorio italiano senza autorizzazione. In particolare nel 2009, l’imputato, pur essendo già stato espulso, aveva fatto ritorno in Italia, dove era stato sorpreso in procinto di contrarre matrimonio con una cittadina italiana. Per questo motivo, dopo essere stato arrestato, era stato nuovamente accompagnato alla frontiera in esecuzione del decreto del Prefetto e del relativo ordine del locale Questore. Lo straniero ricorre allora per cassazione, ma le censure, a giudizio degli Ermellini, non meritano accoglimento. L’atto amministrativo è legittimo. Anzitutto la S.C. precisa che il reingresso senza autorizzazione dell’extracomunitario già destinatario di un provvedimento di rimpatrio conserva rilevanza penale anche a seguito della direttiva 2008/115/CE e della conseguente pronuncia della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011 caso El Dridi . L’atto amministrativo del 2009, che disponeva il rimpatrio e il divieto di ingesso, non può pertanto dirsi illegittimo è vero che il provvedimento fissa una durata del divieto pari a 10 anni, quando la citata direttiva prevede che, salvo casi particolari, essa non possa superare i 5 anni, ma la difformità non ha alcuna rilevanza scriminante nel caso di specie, dal momento che l’imputato è stato nuovamente sorpreso in Italia nel 2010, a meno di un anno dalla sua espulsione. Un matrimonio solo formale. Neppure possono essere invocate le disposizioni sul ricongiungimento familiare, posto che l’imputato non vi era stato autorizzato e non ne sussistevano i presupposti. I giudici di legittimità rilevano, infatti, che il matrimonio contratto in Albania con una cittadina italiana non giustifica il rientro in Italia senza alcuna autorizzazione nell’anno successivo, essendo necessario dimostrare l’ulteriore presupposto della convivenza con il coniuge ciò per evitare la celebrazione di matrimoni solo formali, strumentali ad ottenere il permesso di soggiorno. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza di detto rapporto che, in ogni caso, da solo non avrebbe potuto giustificare il rientro in Italia senza la prescritta autorizzazione. Per questi motivi, rilevato che le censure relative alla determinazione della pena sono inammissibili in quanto volte a chiedere rivalutazioni di merito, la Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 4 – 18 febbraio 2013, n. 7912 Presidente Chieffi – Relatore Mazzei Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 1 dicembre 2011 la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Caserta, il 27 maggio 2010, con la quale H.E. , cittadino albanese, è stato condannato, all'esito di giudizio abbreviato, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, con la contestata recidiva reiterata e specifica infranquinquennale e con la sola riduzione per il rito, per il delitto previsto dall'art. 13, comma 13, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, con successive modifiche. L'H. è stato dichiarato responsabile del suddetto reato, perché, materialmente espulso, con accompagnamento alla frontiera di Bari a seguito di decreto di espulsione emesso dal Prefetto della Provincia di Caserta il 24 luglio 2009 e del provvedimento del Questore a lui notificato nella stessa data, aveva fatto rientro nel territorio dello Stato senza l'autorizzazione del Ministro dell'Interno. L'H. fu sorpreso, il OMISSIS , da agenti della Questura di Napoli mentre, scalzo, si dava alla fuga dall'abitazione di una cittadina rumena, A.R.N. , all'interno della quale era stata segnalata la presenza di armi che non furono rinvenute. Immediatamente bloccato e identificato dagli agenti, l'H. recuperò le sue scarpe, rimaste nell'abitazione, e indicò ai verbalizzanti le chiavi della cassaforte presente nell'appartamento, le quali erano riposte in un cassetto dell'armadio tra la sua biancheria. Nella cassaforte fu rinvenuta la somma di Euro 15.000 di cui il prevenuto si dichiarò proprietario, senza fornire alcuna indicazione circa la sua provenienza. Davanti al Tribunale l'H. giustificò la rilevante somma di denaro posseduta attribuendola ai guadagni propri e di alcuni congiunti, destinata all'acquisto di un'autovettura di grossa cilindrata da rivendere in Albania ad un prezzo superiore a quello di acquisto aggiunse di essere rientrato in Italia per le maggiori opportunità di lavoro esistenti nel nostro paese precisò, su richiesta del difensore, di aver contratto matrimonio in , il omissis , con una cittadina italiana, Ar.Ma. , residente in omissis , come da certificato di matrimonio registrato presso l'ufficio di stato civile di omissis su richiesta della stessa Ar. . La Corte di appello ha respinto le conformi richieste del pubblico ministero e della difesa di assoluzione dell'imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, sulla base della direttiva dell'Unione Europea U.E. 2008/115/CE del 16/12/2008 in tema di rimpatri e della sentenza della Corte di giustizia della U.E. in data 28 aprile 2011 El Dridi , sopravvenuta nelle more del giudizio di appello. La Corte territoriale ha rilevato che l'H. , già condannato alla pena di mesi quattro di reclusione con applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione dallo Stato, per il reato previsto dall'art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998, cit., commesso in Tarvisio il 2 marzo 2006, era stato colpito da ulteriore provvedimento di espulsione del prefetto di Caserta, in data 9 giugno 2006, e coattivamente accompagnato alla frontiera marittima di Bari, dove era stato imbarcato per l' successivamente, il omissis , era stato sorpreso presso gli uffici dello stato civile di omissis in procinto di contrarre matrimonio con la cittadina italiana, Ar.Ma. era stato, quindi, nuovamente arrestato per rientro illegale e, all'esito del giudizio di condanna, rimesso in libertà con contestuale nulla osta all'espulsione, disposta ed eseguita il 24 luglio 2009 con accompagnamento alla frontiera marittima di Bari ed imbarco per l'Albania, in esecuzione del coevo decreto del Prefetto della provincia di Caserta e del relativo ordine del locale Questore. Tanto premesso in fatto, la Corte di appello ha osservato che l'ultimo decreto di espulsione del 24 luglio 2009 con contestuale imposizione del divieto di ingresso per un periodo di dieci anni, costituente il presupposto del reato contestato, non era né sostanzialmente né proceduralmente incompatibile con i principi fissati dalla direttiva rimpatri, la quale espressamente prevede la possibilità per gli Stati membri di astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria, procedendo direttamente all'allontanamento coattivo nei casi di cui agli artt. 7, paragrafo 4, e 8, paragrafo 1 e, nel caso in esame, il provvedimento del 24 luglio 2009 aveva esaurientemente rappresentato il rischio di fuga e la pericolosità dell'H. , più volte inosservante dei precedenti divieti di ingresso. Non poteva, inoltre, omologarsi la condotta meramente omissiva di cui all'art. 14, comma 5 ter, d.lgs. n. 286 del 1998 di violazione dell'ordine di rimpatrio, sanzionata con pena detentiva nella precedente formulazione della norma e, perciò, ritenuta incompatibile con le disposizioni di cui agli artt. 15 e 16 della direttiva rimpatri dalla sentenza della Corte di giustizia U.E. del 28/4/2011, con la positiva condotta trasgressiva del cittadino straniero, già espulso, il quale rientri in Italia senza la speciale autorizzazione prevista dall'art. 13, comma 13, dello stesso d.lgs., e, in ogni caso, dovendo ritenersi legittimo il presupposto provvedimento amministrativo di espulsione con immediato accompagnamento coattivo alla frontiera, trattandosi di misura coercitiva proporzionata e non eccedente l'uso ragionevole della forza, tenuto conto della resistenza più volte manifestata dall'H. a rispettare le decisioni di rimpatrio. L'unica incompatibilità rilevabile era pertinente alla durata del divieto d'ingresso, fissata in dieci anni mentre la direttiva prevede che essa, tranne casi particolari, non possa eccedere i cinque anni, ma tale discrasia era irrilevante nel caso concreto, avendo l'H. fatto rientro in Italia meno di un anno dopo il più recente provvedimento di espulsione. Male invocate erano, inoltre, le disposizioni sul ricongiungimento familiare, posto che l'imputato non era stato autorizzato a tale ricongiungimento ai sensi dell'art. 29 d.lgs. n. 286 del 1998, di cui neppure sussistevano i presupposti, né vi era la prova che l'H. avesse richiesto ed ottenuto il visto di ingresso per motivi familiari, senza tacere che lo stesso non risultava convivente con la moglie e, anzi, aveva dichiarato di abitare col fratello in omissis , Comune diverso da quello di omissis dove risiedeva Ar.Ma. . La Corte ha, infine, ritenuto infondate le censure relative al trattamento sanzionatorio, considerate la gravità del reato e la capacità a delinquere dimostrata dall'imputato, rilevando che l'aumento per la recidiva era stato determinato in misura inferiore a quella imposta dal tipo di recidiva contestata e l'entità della pena base era prossima al minimo edittale le circostanze attenuanti generiche, infine, non erano giustificate dai precedenti penali dell'imputato e dalla sua pregressa condotta caratterizzata da una costante e pervicace riluttanza all'osservanza di obblighi e prescrizioni. 2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso a questa Corte l'imputato personalmente, il quale, deduce sette motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 6, 7, 14, 15 e ss. della direttiva 2008/115/CE, in relazione agli artt. 13, commi 13 e 13 bis, e 14 d.lgs. n. 286 del 1998, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, previa disapplicazione dell'atto amministrativo complesso decreto di espulsione con divieto di reingresso in Italia per dieci anni , costituente il presupposto della violazione contestata. 2.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 6, 7, 14, 15 e ss. della direttiva 2008/115/CE, in relazione agli artt. 13, commi 13 e 13 bis, e 14 d.lgs. n. 286 del 1998, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato, per carenza di dolo ed errore scusabile sulla conoscibilità della norma penale, in ragione dell'illegittimità dell'atto amministrativo presupposto. 2.3. Con il terzo motivo deduce violazione degli artt. 13, commi 13 e 13 bis, 14 e 19 d. lgs. n. 286 del 1998, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato, essendo rientrato in Italia per un giustificato motivo costituito dal ricongiungimento con la moglie, cittadina italiana. 2.4. Con il quarto motivo denuncia l'inosservanza od erronea applicazione dell'art. 62 bis cod. pen. e il vizio della motivazione nonché il travisamento della prova con riguardo al negato riconoscimento delle attenuanti generiche. 2.5. Con il quinto motivo lamenta l'inosservanza od erronea applicazione degli artt. 132 e 133 cod. pen., il vizio della motivazione e il travisamento della prova con riguardo ai criteri di commisurazione della pena. 2.6. Con il sesto motivo deduce i vizi di violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all'art. 99, comma 4, cod. pen., in tema di recidiva, essendo raggiunto da sole due condanne la prima per reato sanzionato con pena pecuniaria e la seconda per ricettazione di un'autovettura di scarsissima rilevanza economica. 2.7. Con il settimo motivo denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in tema di omesso riconoscimento dell'attenuante dei motivi di particolare valore sociale o morale, mancata concessione delle attenuanti generiche da bilanciare con le aggravanti, eccessiva entità della pena inflitta. Considerato in diritto 1. Il ricorso non merita accoglimento. 1.1. Il primo motivo è infondato. Come già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, la condotta di reingresso, senza autorizzazione, nel territorio dello Stato del cittadino extracomunitario, già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, ha conservato rilevanza penale pur dopo l'emissione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio dell'Unione Europea del 16 dicembre 2008 e la conseguente pronuncia della Corte di giustizia del 28 aprile 2011 nel caso El Dridi, perché i principi affermati con riguardo alle modalità di rimpatrio non possono assumere rilievo ai fini della valutazione della condotta di reingresso in assenza di autorizzazione Sez. 1, n. 35871 del 25/05/2012, dep. 19/09/2012, Mejdi, Rv. 253353 . Non sussiste, pertanto, alcuna illegittimità dell'atto amministrativo complesso, contenente decisione di rimpatrio e divieto di ingresso, emesso dal Prefetto di Caserta il 24 luglio 2009, ad eccezione della durata del divieto, fissata nel provvedimento in anni dieci mentre la citata direttiva v. l'art. 11, par. 2 prevede, tranne casi particolari non esplicitati nella fattispecie, che essa non possa superare i cinque anni. Tale difformità, peraltro, non assume rilevanza scriminante nel caso in esame, essendo stato l'H. sorpreso in Italia, in violazione del divieto intimatogli, il 26 maggio 2010, meno di un anno dopo la sua espulsione eseguita il 24 luglio 2009. 1.2. Il secondo motivo è inammissibile. Il delitto previsto dall'art. 13, comma 13, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero , con successive modifiche, postula il dolo generico ovvero la consapevole volontà di entrare in territorio italiano senza la speciale autorizzazione imposta al cittadino straniero da esso già espulso, e la sentenza impugnata, con motivazione puntuale e coerente, ha ravvisato tale elemento psicologico nella condotta dell'imputato, già inottemperante ai divieti di ingresso precedentemente intimatigli negli anni 2006 e 2009. La legittimità dell'ultimo provvedimento di espulsione, in data 24 luglio 2009, esclude poi l'errore scusabile sulla regolarità del proprio rientro in Italia determinato dalla presunta illegittimità dell'atto amministrativo di espulsione contenente anche il divieto di ingresso, secondo l'ulteriore censura manifestamente infondata del ricorrente. 1.3. Il terzo motivo è infondato. Il matrimonio con una cittadina italiana, contratto dall'H. in Albania il 7 settembre 2009, dopo la terza espulsione dal territorio nazionale, non giustifica il suo rientro in Italia senza alcuna autorizzazione nell'anno successivo, essendo necessario l'ulteriore presupposto della convivenza con il coniuge, come si ricava dal sistema e dall'esigenza di evitare matrimoni solo formali, strumentali ad ottenere il permesso di soggiorno [v. gli artt. 19, lett. c , e 30, comma 1 bis, d.lgs. n. 286 del 1998 e l'art. 28, lett. b , d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, contenente il regolamento di attuazione del T.U. approvato col suddetto d.lgs.]. Nel caso in esame la Corte ha puntualmente indicato che le emergenze istruttorie escludevano il detto rapporto di convivenza e, in ogni caso, come si è detto, esso non avrebbe giustificato, da solo, il rientro clandestino in Italia senza la prescritta autorizzazione. 1.4. Il quarto, quinto, e settimo motivo, tutti pertinenti alla determinazione della pena, sono inammissibili perché postulanti rivalutazioni di merito non consentite nel giudizio di legittimità e, comunque, manifestamente infondati la sentenza impugnata, invero, ha dato ampia e coerente giustificazione della negazione delle circostanze attenuanti generiche in ragione della capacità a delinquere dimostrata dall'imputato motivo n. 4 ha compiutamente illustrato i criteri di determinazione della pena commisurandola alla ritenuta gravità del fatto e alla capacità a delinquere dell'H. motivo n. 5 ha giustificato come adeguata l'entità della pena inflitta, sottolineandone l'applicazione in misura prossima al minimo edittale motivo n. 7 , e, pertanto, inequivocabilmente escludendo ogni spazio al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 1, cod. pen., che non risulta neppure oggetto di specifico motivo di appello. 2. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente, a norma dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.